Giuliano Galletta
città e futurismo
Gaia De Pascale: QUI
NON SI CANTA AL MODO DELLE RANE. LA CITTA’ NELLE POETICHE FUTURISTE, Mimesis, 2010
Tra le più svariate iniziative “futuriste” che si sono
susseguite nel 2009 in occasione del centenario
del Manifesto di Marinetti merita una particolare attenzione questo saggio che
si candida - per profondità e
originalità - a diventare un testo di riferimento negli studi sulle avanguardie
storiche. Lo ha scritto una studiosa genovese Gaia De Pascale, 34 anni, che ha
già al suo attivo tre libri interessanti: “Scrittori in viaggio” (Bollati
Boringhieri), “Slow travel. Alla ricerca del lusso di perdere tempo” (Ponte
alle Grazie) e “Wu Ming” (il melangolo).
Il titolo riprende il verso del poeta medievale Cecco d’Ascoli
utilizzato come epigrafe del primo numero della rivista “Lacerba” fondata nel
1914 da Giovanni Papini e Ardengo Soffici, che al futurismo fu assai vicina ma
senza esaurirsi completamente nel movimento. Il rapporto tra i futuristi e la metropoli, e più in generale
tra gli artisti e la città industriale, è uno dei temi capitali del Novecento,
anzi di una Modernità che trova la sua culla nella Parigi ottocentesca di
Charles Baudelaire. Inevitabilmente il libro
della De Pascale si apre con una citazione dell’autore dei “Petits
poèmes en prose”: “Chi di noi non ha sognato, nei giorni dell’ambizione, il
miracolo di una prosa poetica, musicale senza ritmo né rima, abbastanza duttile
e nervosa da sapersi adattare ai movimenti lirici dell’anima, alle ondulazioni
del sogno, ai soprassalti della coscienza? E’ soprattutto dalla frequentazione
di queste città immense, dal groviglio dei loro rapporti innumerevoli, che
nasce ideale ossessionante”. La letteratura moderna, come la pittura, si fonda sulla
città, “Formicolante città, città piena/ di sogni, ove lo spettro anche di giorno/attanaglia il
passante!” scrive sempre Baudelaire. E
Marinetti nel punto undici del Manifesto del Futurismo, pubblicato su “Le
Figaro” del 20 marzo 1909 proclama: “Noi canteremo le grandi folle agitate dal
lavoro, dal piacere e dalla sommossa: canteremo le maree multicolore o
polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne”. Di fronte all’epocale mutazione indotta dalla
società industriale i futuristi capiscono che non è più possibile muoversi
negli angusti confini dell’arte e della
letteratura tradizionali, «per questo» scrive De Pascale «il movimento fondato
da Marinetti si configura sin da subito come un’antropologia globale che
investe tutti i campi del pensiero e tutti i campi dell’azione, che punta a rendere
praticabile la poesia in una dimensione
comunitaria e che non può pertanto che sorgere là dove si muovono le masse,
là dove l’incontro e lo scontro sono
molto di più di un semplice accidente”. “Ma l’istanza rivoluzionaria dei
futuristi” continua l’autrice “sconfina, in qualche modo, proprio in
quell’accademia di cui i futuristi erano stati i nemici giurati
«irrigidendosi tematicamente sui
proclami bellicistici, dimenticando parallelamente il carattere metodologico
che aveva dato il via a questa pur straordinaria avventura, e facendosi, infine
imbavagliare dal regime perse a nostro avviso la sua battaglia”.
Ma a giudizio dell’autrice l’esperienza futurista non
si esaurisce negli “ambigui dettami marinettiani”; esiste una avanguardia
eretica, fuori dai ranghi “insensbile ai nuovi miti della macchina e della
violenza bellica, per dire tutto in una parola, interamente e fermamente
anarchica”. Sarà questa seconda avanguardia, meno visibile e spettacolare, a capire
per prima “il lato oscuro delle città moderne”. Come scriveva Govoni nel 1915:
“Io non so dove vado, corro o cammino piano?”.
“Fogli
di Via”, Marzo 2010