Maurizio Cabona
Fabrizio De André. Principe
libero
“Credo
che Omero, sotto sotto, stesse coi troiani”, si legge
nel biglietto manoscritto che tiene in mano Fabrizio De André (Luca Marinelli, che recita bene e canta anche meglio) seduto su
uno scoglio. L’episodio pare avulso dal resto del film, a tratti commovente, di
Luca Facchini: Fabrizio De André.
Principe libero, che sarà in 400 sale italiane nei giorni 23 e 24 gennaio;
poi Rai 1 lo trasmetterà in due puntate il 13 e 14 febbraio. Ma avulso il
dettaglio omerico non è. C’è anzi acutezza degli sceneggiatori (Giordano Meacci, Francesca Serafini e il regista stesso) nel
constatare, attraverso la simpatia del greco Omero per i vinti troiani, la
psicologia controversa per alcuni, per altri libera (come vuole il titolo del
film) di De André.
Nato
ricco, Fabrizio teneva per il Genoa e per i poveri. Però il padre Giuseppe
(Ennio Fantastichini, al meglio dopo Gangsters di Massimo Guglielmi, altro suo
film genovese), braccio destro del petroliere ed editore di quotidiani Attilio
Monti all’Eridania Zuccheri di corso Andrea Podestà a
Genova, non gliel’avrebbe permesso. Guadagnare bene, ben prima dei trent’anni,
comunque a Fabrizio era piaciuto e il film mostra la sua gioia nel ricevere il
primo assegno per dischi di “lire 4.850.000” (ci si comprava un appartamento).
Esponente
della jeunesse dorée, nato
nel 1940, studente scapestrato del liceo Cristoforo Colombo, quasi laureato in
giurisprudenza, bravo con la chitarra donatagli dai genitori, dopo il fallito
tentativo di fargli imparare il violino, Fabrizio De André era alto e
longilineo quando così erano in pochi: aveva dunque tutto per piacere alle
donne, unendo fascino del benestante e fascino del mascalzone. Il suo amico
Paolo Villaggio (nel film, Gianluca Gobbi), più vecchio di lui di sette anni,
gliel’avrebbe sempre invidiato. Solo molto più tardi avrebbe detto che “Faber” – come lo chiamava per assonanza per la capacità di
disegnare con le matite di quella marca – era “un grandissimo str….”. Del resto, se è stato l’unica celebrità potersi
permettere di dirlo, non è stato l’unico a pensarlo e il film di Facchini
accenna ad alcuni comportamenti discutibili, non tanto nei salotti, quanto
nella Genova del Centro Storico, in particolare quella di via san Bernardo,
dove la scena con l’ìntimità con le “graziose”
avviene nell’atrio del numero civico 14, lo stesso dove René Clément faceva salire dal dentista Jean Gabin
nel film Le mura di Malapaga,
premio Oscar.
In
decenni ad altissima politicizzazione, tra dopoguerra e 1980, De André è
diventato un’icona libertaria. Ma nel 1962, quando a Recco
aveva sposato Enrica (nel film, Elena Radonicich),
che gli aveva già dato Cristiano, il ventiduenne Fabrizio era per la vox populi un anarchico di destra. Qualche indizio c’era: il
testimone dello sposo era stato l’ex esule antifascista ed ex ministro della
Difesa nel dopoguerra, Randolfo Pacciardi,
che Ugo La Malfa avrebbe sconfitto in un congresso per la nomina a segretario
del Partito Repubblicano. Di conseguenza Pacciardi
lasciava il Pri, fondando Nuova Repubblica con militanti tratti da Msi e gruppi
minori di estrema destra. L’organo di stampa di Nuova Repubblica era diretto da
un giornalista, ligure come Fabrizio, prestante come Fabrizio, ma un po’ più
vecchio sia di Fabrizio, sia di Paolo Villaggio: Giano Accame.
Ma su quel frangente il film accenna solo a Enrica e alle nozze, presente -
fatto insolito per l’epoca - Cristiano bebé.
Facchini
non insiste nemmeno sull’anarchia di Fabrizio. L’estrema sinistra pre-’68 era in prevalenza marxista. La parte più dinamica
era anzi marxista-leninista, che i conti con l’anarchia - anche italiana - li
aveva chiusi nel sangue della Catalogna del 1936-39. Inoltre il cantautore era
mal sopportato da Lotta continua, il cui quindicinale – diretto, tra gli altri,
da Pier Paolo Pasolini – bersagliava, per la penna di “Simone Dessì” (alias Luigi Manconi) i
brani di De André, i cui concerti – sofferti e rari – pativano le
contestazioni, ispirate dalla pretesa che la musica fosse gratis. E questo il
film lo mostra, ma gli under 50 non
capiranno perché ciò accadesse. Né capiranno come si sia risolto il rapimento
dell’estate 1979 presso Tempio Pausania di Fabrizio e di Dori Ghezzi, intanto diventata la sua compagna. Infatti il film
si sofferma sulle difficoltà del padre di lui a pagare i tre miliardi chiesti
dai rapitori, ma non dice chi pagò il riscatto, ridotto a circa un sesto della
cifra: Attilio Monti aveva anticipato la somma a Giuseppe De André. Che resterà
all’Eridania fino all’arrivo di Raoul Gardini, per
morire poco dopo.
Quanto
a Fabrizio, alcolista e tabagista, morì di questi eccessi nel gennaio 1999.
Diecimila persone erano nella chiesa e nella piazza Carignano la mattina del
funerale: Genova scopriva così d’aver amato quel “suo” mascalzone, che aveva
portato un dialetto impervio in un 33 giri di successo, Cre^uza de ma”, oggi nella memoria collettiva della nazione. Nella cassa,
con Fabrizio, c’era una sciarpa, quella del Genoa.
“la
Verità”, 20 gennaio 2018