Di Michel David abbiamo pubblicato altri testi in passato. La recensione che segue fu pubblicata in inglese nel 2002 sulla Modern Language Review.

Michel David

malinconico Casanova

Giorgio Ficara, Casanova e la malinconia, Einaudi, Torino 1999

 

Casanova sarà pure oggetto esegetico di “esilaranti” casanovisti, o dell’erotologia, ma l’essere stato italiano e l’aver scritto in francese lo penalizza nelle storie letterarie nazionali. Il brillante saggio di Giorgio Ficara, professore di letteratura italiana a Torino, ci offre una serie di variazioni critiche sullo scrittore veneziano centrate sulla novità letteraria dell’Historie de ma vie e sui piccoli vertici di “malinconia” che il vitalista Casanova vi lascia trasparire. I “padri” metodologici di Picara sono ben visibili: G. Poulet per le analisi e del tempo e dello spazio testualmente espressi e Starobinski per la varietà asistematica degli angoli di attacco del testo e per il rilancio del tema “malinconico”. Ma Barthes, Blanchot, Benjamin, Wilson… sono presenti più discretamente.

Il Casanova di Ficara, se non è proprio un “philosophe des Lumières” originale, si mostra in linea con lo “sconfinato intertesto dei Libertini sei-settecenteschi (ma esiste un uomo del ‘700 o un “sistema culturale” di un secolo?). Gassendi e La Mettrie - meglio noti a Casanova – Voltaire, Diderot, Helvétius, restif… sono citati a piene mani. Ficara non tenta di estrarre una “logica” o un “sistema” filosofico degli scritti casanoviani, semmai sottolinea i compromessi “esitanti”, le “doppie verità” di questo libertino “temperato” in materia di religione. Ma Stendhal offriva “sous le manteau” alle sue amiche romane l’Histoire di “Nova Casa” che, fresca di stanpa, era già all’Indice.

Il “filosofo” Casanova, secondo Ficara, è antistoico, cultore senza sensi di colpa della verità dei “sensi”, persuaso che la felicità procurata dalla soddisfazione dei “desideri” di questi sia l’unico mezzo per scansare la consapevolezza intima del Nulla che ci minaccia (mentre il terrore del Peccato è la molla profonda di Don Giovanni, secondo alcuni sessuologi). Manca, mi pare, un confronto tra questo “filosofo” esistenziale della “jouissance” libertaria e i libertini settecenteschi definiti “antisessisti” da Michel Onfray (L’art de jouir, 1991) il quale salva solo La Mettrie e Sade dalla logica castratrice degli altri e cita Casanova per la boutade di un biologo neuronista odierno probabile fantastica specificità dei suoi feromoni.

Il Casanova di Ficara è ovviamente un anti-dongiovanni, come lo ammettono volentieri vari studiosi del mito del Seduttore. Casanova non è un “mito”, ma un “trito emblema planetario”. Ficara vuol togliere a questo “emblema” proprio la qualità di “seduttore”. Ce lo mostra femminista vero, anche se sconcertato da alcune sue amanti nei cui confronti egli si scopre inferiore perfino nel libertinismo applicato (Ficara si riferisce ai “romanzi” di Henriette e della Charpillon analizzandoli finemente). Casanova conferma l’uguaglianza dei sessi col ricercare nell’altra una partner per godere con armi uguali e col rifiutare i pericoli dell’”amour passion” o della sclerosi unipolare del matrimonio, limitandosi ai piaceri dell’amour-gōut” per riprendere con Ficara la distinzione stendhaliana. Il Piacere, così condiviso, offre allo scrittore uno Spazio aperto alla follia di due persone e insieme ad un Tempo che non è un non-Tempo iterativo indefinibilmente. Niente dunque del conquistador egoista e negatore dell’Altra. Niente dunque dell’”intersessuale” dongiovannesco di un Maraňon. Rimane però, mi pare, il sospetto della “perversità” di certi episodi come quello del castrato Bellino cui la Bambinella di Balzac sembra dovere la sua genesi (strano che Freud non abbia mai citato nelle sue opere il nome di Casanova, che poi non ha finora suscitato molti tentativi di psicocritica “perversa”). Vedo però che un noto caratterologo (La Senne, 1952), il quale inseriva Casanova tra i migliori rappresentanti della categoria dei “colériques surprimaires” (con Beaumarchais, Restif, Cellini, Prèvost…) notava ironicamente che Casanova “concevait le bonheur des ses maîtresses sur le model du sien”.

Questo libertinaggio sensuale, e necessariamente condiviso, è ovviamente secondo Ficara, ben lungi dalla “nevrosi cortese” (maggio al saggio di Rey-Flaud?) estensibile anche al petrarchismo sublimante; è lungi dal discorso sul sesso del ‘600; lungi dall’idilio settecentesco e ancor più da quello rousseauvista; lungi dalla “malattia romantica” come pure dalla morbosità decadente del catalogo di Mario Praz. Ed è in questo distaccarsi dai predecessori e dagli immediati posteri che Ficara vede l’innovazione, letteraria, di casanova. Casanova sfugge alle pretese psicologiste dei suoi predecessori (il confronto della Sara di Restif con la storia della Charpillon serve da dimostrazione, anche se non è una “fonte sicura”) e a quelle dei successori; scopre modernamente il racconto puro, senza scopo narrativo prefissato, senza “destino” dietetico, “aperto”, di puri istanti successivi do amour-goût rappresentato. Casanova inventa lo “stile monodico” (sarà l’opposto del “corale” di moda recente?). Ed è u”uno dei più grandi narratori settecenteschi”.

Il titolo del saggio ci promette un’indagine sulla “malinconia” dello scrittore. Confesso una certa delusione di fronte all’impostazione del tema e già per la mancanza di una definizione operativa ricavata dalle ricche connotazioni odierne di una così leggiadra parola. Una parola del resto totalmente immotivata medicalmente e linguisticamente per definire una malattia del tuttop indefinibile. Certo non si tratta del sentimento nostalgico generato dalle foglie d’autunno, ma di qualcosa che si avvicina alla malattia “depressiva” che i medici italiani odierni chiamano “melanconia”. Non bastano fugaci cenni a Saxl, Klibanski, Starobinski per illuminarci sulla “semantica storica”, cara appunto a Starobinski, di quella parola al tempo di Voltaire o Goldoni.

Mi pare che l’autore la usi in  opposizione a felicità, “bonheur”, allegrezza, piacere, euforia, e come contigua a disperazione, noia, infelicità, e quale formula comprensiva di tutto quanto possa costringere il “narratore” a “ragionare”. Le autoanalisi nitide di Casanova sui suoi “abissi” sono qui estratte più dalle Lettere che non dall’Histoire; ed è giusto perché il genere epistolare spinge allo sfogo persuasivo come alle chiuse speranzose (si pensi appunto a Voltaire). “Ragionare” vuol dire uscire dal proprio tempo e spazio di godimento (anche memoriale). “Malinconia” parrebbe quindi un gran contenitore, poco preciso, ma certo per noi di sapore “moderno” per gli effetti “dell’insorgere subitaneo e spaventevole del desiderio, della pena della bellezza, della nostalgia dell’amour-passion nel teatro dell’amour-goût” (p.XI). E vi entra tutto quanto può rannuvolare la riviviscenza scritta dei piaceri goduti senza sentimento di colpa, né scivoli metafisici. Mi viene il dubbio che il critico usi con visibile frequenza parole vertiginose quali “abisso”, “vuoto”, “baratro”, “voragine orribile”… per alludere a queste brevi tentazioni del Casanova “malinconico” con partecipazione metaforica a una certa “fratellanza immaginaria”.

Queste indicazioni su aspetti cupi della scrittura (ma non dello stile) dell’opera di Casanova costituiscono la tesi più paradossale di Picara. Non annullano quella soggiacente del “vitalismo” di quel rappresentante tutto italiano della “pianta-uomo” il quale, non accontentandosi di profondere sangue (soffriva di epistassi) e sperma nel tempo e nello spazio europeo del ‘700, ha sparso un inchiostro felice (ma dov’è la lentezza e i ripiegamento su di sé dei “malinconici”?) e una novità moderna in quelle sue scritture non “veriste” (è stato recentemente accusato di non descrivere mai le sue partners), ma “vere”, perché inconcludibilmente aperte, come la finestra della carrozza di sua madre sullo scorrere delle lagune (un bel capitolo di Ficara), con una deliziosa fluidità, senza meta e “sterminata”

3 gennaio 2000