Tra gli ex membri del Grand
jeu si occuparono di cinema R. Vailland,
R. Gilbert-Lecomte e A. Delons; di Daumal si conoscevano soltanto brevi
cronache per la N.R.F. a partire dal 1933 e dunque hanno un sapore pressoché
inedito queste ritrovate Chroniques cinématografiques (Au Signe de la Licorne,2004)
consegnate al quotidiano “Aujourd’hui” (breve la sua vita: gennaio-marzo 1934) cui collaborò pure T.
Maulnier. In questo lavoro alimentare il rubrichista Daumal analizzò, tra gli
altri, i film di Renoir (“Madame Bovary”),
R. Siodmak (“Brennendes Geheimnis”,
sceneggiatura di Polgar da S.Zweig), M. Le Roy, R. Del Ruth, J. Cromwell,
Kirsanoff (“Rapt” sceneggiato da B.
Fondane e musicato da Honegger, con Dita Parlo co-protagonista), G. Cukor, J.
Whale, C. Brown e F. Lang.“Il cinema è solo nascente o morente” affermava
Gilbert-Lecomte e dunque, per noi, solo morente come sembra decretare la
sparizione, a dispetto dei ripetuti montaggi, dell’opera americana di
Eisenstein, sulla cui vicenda Daumal qui si sofferma.
René Daumal
lampi sul
Messico e a
Hollywood
Si vedrà prossimamente a
Parigi l’ultimo film di Eisenstein, rivisto, scorciato e corretto da Upton
Sinclair. Ma, oltre alle immagini che il grande poeta della Corazzata
Potemkin sa produrre, cosa resterà del senso originale della sua opera
? Forse il respiro epico di Eisenstein è riuscito a trionfare, ad affermarsi
attraverso l’opera che si dice mutilata, dopo tante tribolazioni ?
Da molto tempo Hollywood
aveva messo gli occhi sul regista russo come su un cervello di cui sfruttare il
grande rendimento. Eisenstein, deciso ad accettare le possibilità di lavoro
offertegli, ma a creare l’opera che aveva in testa senza cedere ad alcuna
influenza o pressione estranea, arrivò agli inizi del 1930 in California. Aveva
firmato un contratto con un produttore.
Le difficoltà cominciano da subito: gli si rifiuta una sceneggiatura
tratta dal libro di Th. Dreiser, An American Tragedy. Motivo:
Eisenstein vuol diminuire l’importanza delle vedettes al cinema; vuol filmare
la vita, e in più certi aspetti della vita sociale sempre pericolosi da
mostrare.
La situazione per
Eisenstein era difficile. Ma apparve un salvatore nella persona di Upton
Sinclair, scrittore socialista (a quell’epoca) e in possesso di svariate
conoscenze nel mondo dei milionari. Grazie ad esse, egli fondò l’ “Eisenstein
Collective Production” per fornire al regista i mezzi con cui realizzare le
opere. Eisenstein ha un progetto: il Messico, paese di antica civiltà nascosta
da stratificazioni razziali di incroci recenti, non è mai stato degnamente
illustrato in un film. Pensa perciò di filmare una vera epopea messicana,
partendo dalle civiltà azteche, tolteche e maia, le cui più recenti culture
erano ancora fiorenti quattro secoli fa, e di cui i monumenti testimoniano la
grandezza. Sarebbero seguiti poi l’invasione bianca, l’arrivo dei neri,
l’incontro di razze e culti, l’affermazione politica del paese. E soprattutto
il film avrebbe ripreso e seguito lo svolgimento dello spirito rivoluzionario
lungo la storia del Messico, fino al punto culminante, la rivolta del Generale
Calles; vinta l’insurrezione, il fuoco rivoluzionario continua a covare nel
popolo messicano, da dove, doveva concludere il film, un giorno riscaturirà.
Eisenstein partì dunque per
il Messico, con una spedizione diretta dal cognato di Sinclair – un americano
pieno di disprezzo per gli uomini più o meno colorati del Messico. Con
l’intelligente aiuto di Aragon Leyva, di Montenegro, Haugard, Ledesma, si mise
al lavoro. In capo a un anno, egli aveva terminato l’epopea messicana – 65
chilometri di pellicola – che intitola Que viva Mexico!
Ma quest’opera non la
vedremo. In quel momento, difatti, l’amministrazione messicana fa in modo che
scada il suo permesso di soggiorno (sei settimane prima del dovuto – ignoro i
motivi invocati). Eisenstein è costretto a ritornare in Russia, e a rinunciare,
di conseguenza, al montaggio del film a Hollywood; chiede che gli facciano
pervenire la pellicola a Mosca; si fa un accordo tra la “Eisenstein Collective
Production” e la società russa “Amkino”. Col pretesto di alcuni punti
contrattuali, Upton Sinclair reclama 90.000 dollari, immediatamente, alla
“Amkino”, che non può effettuare il versamento. Grazie a questa manovra, il
“mecenate” possiede ormai tutti i diritti sul film. Gioco di bussolotti
abituale nell’industria cinematografica, ma che, effettuato dallo scrittore
“rivoluzionario” Upton Sinclair assume un senso molto particolare. Al di fuori
di ogni questione politica o d’idee, è certo che tutto l’affare è parecchio
indecente – almeno per quanto i fatti, riportati da una ventina di riviste
americane, sudamericane o inglesi, a firma di nomi stimati, siano esatti.
Il risultato: Upton
Sinclair ha affidato a Sol Lesser il compito di “rivedere” il film, che adesso
è diventato, col titolo di Thunder over Mexico, un film di
propaganda nazionalista messicana, il cui senso non ha più nulla a che vedere
con quello che voleva dargli Eisenstein. Il pretesto principale è la lunghezza
del film, la cui proiezione avrebbe richiesto sei o sette ore. Ma il caso si dà
per ogni film, ed è del tutto naturale lasciare al regista la cura di
riportarlo alle proporzioni commerciali – ciò che ad Eisenstein non è stato
permesso.
Questi sono i fatti. Essi
hanno suscitato negli ambienti cinematografici le proteste più svariate e
violente. Alcuni spiriti competenti, andando oltre il problema politico, hanno
posto a tal proposito la questione dei diritti che un autore possiede sulla
propria opera. Il gruppo Experimental cinema ha pubblicato due vibranti Manifesto
denunciando Thunder over Mexico come “rappresentante il trionfo momentaneo
del denaro americano su ogni opera sincera, nobile e appassionata nel regno
della creazione artistica”. Seymour Stern esige “una propaganda mondiale contro
la distribuzione della versione bastarda Sinclair-Lesser”. Barnet G. Braver
–Mann ha dichiarato che era “il peggior crimine negli annali del cinema”.
Upton Sinclair, da parte
sua, ha risposto alle accuse, debolmente, cercando d’insinuare che aveva scelto
nella sceneggiatura di Eisenstein “gli elementi che parevano meno ‘fascisti’
nel tono”. È assai curioso vedere Sinclair accusare Eisenstein di “fascismo”,
in base ad una citazione frammentaria della sceneggiatura dove si dice di
mostrare al pubblico “i dirigenti…il Presidente, i generali, i ministeri” del
Messico moderno. D’altronde “fascismo”, senza dubbio, non significa più di
“socialismo” sulla bocca di Upton Sinclair che, proprio di recente, ha
rinnegato quest’ultima etichetta. In ogni caso, il contrasto è lungi
dall’essere esclusivamente politico: il leitmotiv originale di Que
viva Mexico era l’idea della morte, l’immagine che se ne fecero i
Messicani attraverso le età: soppresso !
Finora, il pubblico francese ha
conosciuto soltanto, per farsi un’opinione sul caso, la massa imponente di
testimonianze pubblicate da ogni parte contro i rimaneggiamenti di Sinclair e
Lesser. Presto potrà giudicare Lampi sul Messico ed allora sapremo
se si può riconoscere in questo film un’opera del grande Eisenstein.
(a cura di J. Montalbano)