Maurizio Cabona
Da 5 Bloods
Fin da Miracolo a Sant'Anna il declino di Spike
Lee è evidente. Ora dopo BlacKkKlansman
si manifesta nuovamente in Da 5 Bloods, dove Da, nello slang afroamericano, corrisponde
a The in lingua. Sperando di prendere la rincorsa che lo riporti a buoni
livelli, il regista risale dall'oggi a mezzo secolo fa.
Tema: quattro
reduci della guerra americana nel Vietnam, ormai settantenni, ci tornano a
caccia di un tesoro. Soggetto e sceneggiatura sono firmati dallo stesso Spike
Lee con Danny Bilson, Paul De Meo, Kevin Willmott e propongono continui riferimenti alle tensioni
razziali negli Stati Uniti del 900.
Questo non è un
film per giovani solo perché c'è un trentenne (Chadwick
Boseman), infatti è lui il meno importante del
quintetto di testa; e non è un film d'amore solo perché Mélanie
Thierry, fuori parte, dà il suo sorriso a una
colonialista in crisi di identità.
SITCOM
I quattro reduci
sono interpretati da Delroy Lindo, Jonathan Majors, Clarke Peter e Isaiah Whitlock jr. Sono più bravi che ben truccati per apparire
coetanei, nonostante il divario di età. Ma hanno anche una recitazione da
sitcom. Sembrano talora in attesa dell'applauso registrato prima di dire la
battuta seguente. Rimpatriati, i nostri non eroi avevano preso strade diverse.
Nel 2019 si
ritrovano. Nostalgia? No. Soltanto uno di loro ha lasciato nell'ex Saigon un
affetto di origine mercenaria. Oltre al risentimento per sentirsi defraudati
dei diritti non solo civili cui ambivano, li accomuna in vecchiaia la velleità
di risarcirsi con la valigia colma d'oro che, nel 1971, hanno rinvenuto nella
giungla nel relitto di un aereo da trasporto, guardandosi dal restituirla al
mittente: il governo di Richard Nixon.
LA DROGA
Neanche American Gangster di Ridley Scott era un
grande film, ma sulla questione razziale e il Vietnam diceva qualche verità non
banale. Per esempio che il contrabbando verso gli Usa era pratica normale,
almeno per la droga, celata nei sacchi con i caduti. Perché dunque l'oro di Da 5 Bloods è
rimasto tanto a lungo in Vietnam? E se quell'oro doveva arrivare a pochi
contadini montagnards, nemici dei vietcong, una
trentina di chili non erano troppi?
Quando un film è
«ispirato da una storia vera», la verosimiglianza dovrebbe essere curata. Allo
spettatore non americano poi manca la consapevolezza che Spike Lee dà per
scontata - che la guerra in Indocina dovesse non tanto arginare il comunismo in
Asia, quanto evitare che centinaia di migliaia di giovani afroamericani
insorgessero nelle città d'origine. Parve più pratico fare di loro gloriosi
caduti. L'intento politico revisionista è il movente per il quale Spike Lee
gira film.
E ormai sa anche
quando gli conviene abbozzare. Per esempio: il solo morto ammazzato nel
drappello del 1971 è anche il solo militare simpatizzante per le Pantere Nere
che cade per il fuoco amico. La metafora è chiara, tenuto conto che le Pantere
Nere furono realmente sterminate nelle metropoli e nelle carceri. Se ciò non
fosse abbastanza per indurre al mugugno sì, alla rivolta no, il solo reduce che
nel 2019 pensa ancora alla rivoluzione salta in aria su una mina.
Tanti gli omaggi a
vecchi film: Tra cielo e terra di
Stone; Apocalypse Now Redux di Coppola; Tropic Thunder di Stiller; Il
buono, il brutto e il cattivo di Leone; I
guerrieri di Hutton; Le iene di Tarantino. A rammentare che si sta vedendo un nuovo film
del presidente del mancato Festival di Cannes 2020, nonché annunciato
presidente del Festival 2021, ci vogliono le rudi dosi di propaganda contro
Trump. Ma nemmeno in questo Spike Lee arriva primo.
"il
Messaggero", 11 giugno 2020