Marisa Saracino
La Dea Bianca di Robert Graves ovvero il Corpo Migrante della Poesia
Quando le cose della natura finiscono nelle mani dei poeti, allora esse, finalmente nominate, appaiono, rivelandosi in tutto il loro splendore, significate da un alone luminoso, la bellezza e la forza, l’energia che da esse emana. Lo sapeva bene T. S. Eliot quando, direttore della casa editrice londinese Faber, pubblicò La dea bianca di Robert Graves, difficile da proporre nel 1948; lo sa bene oggi Adelphi che ripropone questa Dea Bianca più forte e smagliante che mai in un’epoca bisognosa di riinventariare le smarrite forze, le potenze sempre più inesplorate che presiedono al cammino dell’umanità.
Era il 1944 quando Robert Graves, sfollato di guerra da Maiorca a Galmpton, villaggio del Devonshire, abbandonava La nave degli Argonauti, il romanzo storico al quale stava lavorando, per obbedire a un irrestistibile richiamo, travolto e interrotto da una improvvisa ossessione che prese la forma di una non cercata illuminazione su un argomento del quale sapeva poco o nulla: “Cessai di tracciare sulla gran carta del Mar Nero la rotta che, secondo i mitografi, l’Argo aveva seguito dal Bosforo a Baku e viceversa, e incominciai a meditare su una misteriosa Battaglia degli Alberi combattuta nella Britannia preistorica”.
La misteriosa battaglia è un antico mito che rivive nei racconti della tradizione bardica e dei menestrelli gallesi e irlandesi, collegato con le imprese di Taliesin, l’eroe che anima molti dei racconti superstiti contenuti in un manoscritto del Duecento, detto Libro Rosso di Hergest, nel tempo variamente manipolato. Taliesin è anche il nome di un poeta vissuto nel secolo VI e di un altro anteriore, primo fra i poeti, una sorta di Apollo celtico che ritroviamo alla corte di Re Artù. I miti, per Graves, non sono soltanto, come per i menestrelli gallesi, il primo arricchimento del poeta, ma sono anche la severa testimonianza di antichi usi o eventi religiosi, e rappresentano elementi storici attendibili, una volta che se ne sia compresa la lingua e si sia tenuto conto degli errori di trascrizione, dei fraintendimenti e delle modifiche introdotte di proposito per fini morali o politici.
Alla comprensione di questa lingua e alla possibile ripulitura dei reperti lavora dunque Graves, nell’analizzare e ricostruire due frammenti, La Battaglia degli Alberi e Il Racconto di Taliesin, un complesso di versi, gruppi di poesie deliberatamente mescolati, sopravvissuti ai racconti in prosa largamente scomparsi cui si riferiscono, col dichiarato intento di ri-scoprire i fondamenti perduti della poesia e illustrare i principi attivi della magia poetica che li sottendono. È questo il tema di La Dea Bianca, grandissimo libro tutto febbrilmente teso a ricondurre le disiecta membra, i brandelli superstiti, a un’unica grande trama: l’antichissima storia della nascita, vita, morte e resurrezione del dio dell’Anno Crescente contro il dio dell’Anno Calante, per amore della onnipotente Triplice Dea, madre di entrambi, loro sposa e seppellitrice. Naturalmente il poeta s’identifica con l’Anno Crescente, mentre l’Anno Calante, suo fratello e rivale, è il suo doppio e destino. In realtà, lungi dall’abbandonare Argo, Graves non fa che estendere fino all’inverosimile i confini del viaggio e delle rotte, tracciando, e al tempo stesso quasi miracolosamente districando, il foltissimo reticolo della grande mappa in cui egli intende ricollocare e rifondere i miti e le storie (non è un caso che il titolo originario della primissima bozza del libro fosse Il capriolo nel folto). Rivivono infatti, in questo libro fantastico, le tradizioni del Mediterraneo e del Nordeuropa. Rivive la lingua magica delle cerimonie religiose in onore della dea-Luna, Musa ispiratrice della poesia. Rivivono i linguaggi dei culti misterici di Eleusi, Corinto e Samotracia, tramandati nei collegi poetici dell’Irlanda e del Galles.
L’istruzione poetica inglese, afferma Graves, dovrebbe iniziare non con i Canterbury Tales o con l’Odissea e neppure col Genesi, bensì con La Canzone di Amergin, antico alfabeto-calendario celtico esistente in parecchie varianti irlandesi e gallesi, ingarbugliate a bella posta, che riassume nelle linee essenziali il mito poetico fondamentale. Si lancia dunque, il poeta, nel folto intrico degli antichi alfabeti, dal Beth-Luis-Nion/Betulla-Sorbo Selvatico-Frassino (il più antico alfabeto arboreo irlandese), all’Ogham, dal nome del dio Ogma volto di sole, venerato dai Goideli come una sorta di Eracle. E poi giù attraverso tutte le varie forme dell’alfabeto greco, fino al Boibel-Loth, tramandato oralmente nei secoli e usato probabilmente solo per la divinazione. Come nella più fascinosa poesia mitologica gravesiana, sfilano davanti ai nostri occhi attoniti, come in un fantastico arazzo, gli alberi, gli astri, gli animali favolosi: tori e serpenti, cinghiali e unicorni, cani infernali, caprioli e pavoncelle, tutti insieme come in un grandioso film della nostra storia fin dai primordi, variamente raccontata.
Attraverso l’analisi e la ricostruzione magistrale dei due antichi frammenti del secolo XIII nei quali egli intravede, ingegnosamente nascoste, le tracce dell’antico segreto, il genio gravesiano ci conduce in un viaggio a ritroso che ha del meraviglioso, in un’epoca ben anteriore, in una tradizione letteraria che risale all’età della pietra. La mitica Battaglia degli Alberi, sezionata e ricomposta, vagliata e minuziosamente scrutata da uno sguardo altrettanto mitico, si rivela in tutta la sua complessa bellezza e valenza storica. Essa registra una grande rifioritura delle lettere in Nordeuropa – in tutte le lingue celtiche gli alberi sono le lettere – e al tempo stesso racconta di un’invasione e del tentato svelamento di un nome: quello del dio-dea che doveva essere tenuto nascosto perché i nemici non potessero avvalersene a suo danno.
La prima invasione dell’Irlanda da parte dei
Danai, passando per la Danimarca, viene collocata da Erodoto in un tempo
anteriore alla spedizione della nave Argo in Colchide, prima ancora che
“Europa” venisse trasportata a Creta dalla Fenicia e prima del saccheggio di
Cnosso, intorno al 1400 a.C. A questo punto dunque il poeta Graves, il
filologo, il romanziere, lo storico, il mitografo insieme concorrono a un
grande rimescolamento in cui tutti i miti s’innestano e si sovrappongono.
Eracle si confonde con Taliesin. Il Dite dei Celti gallici e dei druidi si
confonde col dio dei morti del pantheon latino e ancora di più col Jahveh
ebraico, poiché, come affermava Luciano nella Farsalia, per i druidi le anime dei morti non sprofondavano
nell’oltretomba latino, ma si trasferivano altrove, essendo la morte solo il
punto di mezzo di una lunga vita. E anche il dio Beli, riconducibile a Belo,
padre di Danao, non potrebbe avere a che fare con Belili, la Dea Bianca dei
Sumeri, più antica perfino di Ištar e
dea non solo lunare, ma anche arborea, nonché dea dell’amore e dell’oltretomba?
Le
storie non vivono mai sole, e Graves le percorre tutte, le figure del mito,
nelle loro innumerevoli vite e nelle morti, attraverso l’intrico della
religione britannica, greca ed ebraica, sempre sulle orme della Grande Dea
misteriosamente avvolta nei suoi innumerevoli nomi: Iside, Ištar, Danae,
Belili, Eurinome, Io, Leucotea, Ino, Syria, Cardea, Rea, Arianna, Callisto…
Grande conoscitore e traduttore dei capolavori classici, Graves riconosce ad
Apuleio il merito di avere dato, nel suo Asino
d’oro, il ritratto più completo e ispirato della Dea di tutta la
letteratura antica. Rimpiange il tempo in cui in Europa non c’era traccia di
divinità maschili. Si rammarica che quello che egli chiama il terzo stadio di
sviluppo culturale, quello puramente patriarcale del giudaismo, del
cristianesimo giudaico, dell’Islam e del protestantesimo, non conservi alcuna
traccia di divinità femminili. Si rallegra che nella poesia medievale la
Vergine Maria sia identificata con la Triplice Musa della poesia Brigit,
diventata in seguito Santa Brigida, venerata come la “Maria dei Gaelici”. È un
mondo wagneriano carico di risonanze e corrispondenze, fascinose presenze e
proiezioni, quello che Graves ci fa giungere dalla dimensione senza tempo della
Dea Bianca. Ma è soprattutto una delle dichiarazioni d’amore più fantastiche
tributate alla poesia di tutti i tempi, al suo corpo migrante e misterioso.
Nella libertà che solo l’amore può dare egli rimescola oralità e scrittura,
storia e mito, metodo scientifico, fantasia e immaginazione. Rivendica come sua
unica dea e domina l’ispiratrice
della sua poesia. Afferma con divina leggerezza che per giudicare un poeta
basta forse soltanto guardare a come egli ritrae la Dea Bianca, considerando
appunto Shakespeare e Donne, Keats e Coleridge. Se il mondo in cui viviamo è
pur sempre ancora quello al quale nel 1944 il poeta esponeva il suo sguardo
immune, quello di “una civiltà in cui gli emblemi primi della poesia sono
disonorati… in cui il denaro può comprare tutto tranne la verità e il poeta
dalla verità posseduto”, possiamo ancora noi, brandelli superstiti di alberi
guerrieri, sperare in un’invasione della poesia che lo salverà?
Strettamente intrecciati, vecchi serpenti
lungamente coniugati, ripartiamo dunque noi, un grandissimo Autore, un
Traduttore valoroso, un Lettore felicemente disperso, arrancante e devoto: una
mitica Triade, che insegue la scia luminosa, quanto rischiosa, del plenilunio.
*Robert Graves, La Dea Bianca. Grammatica storica del
mito poetico, traduzione di Alberto Pelissero, Adelphi, Milano 2009