A ripensarci, pur in un momento così triste, è quasi
impossibile trattenere un sorriso. Tanto più dopo aver scambiato i comuni
ricordi di James Crumley con un bel po’ di suoi colleghi scrittori: tutti
quanti (compreso il sottoscritto, che lo traduceva ormai da anni e continuerà a
farlo) l’abbiamo incontrato nello stesso modo. Ovvero entrando in un bar, in
Italia o negli Stati Uniti, che fosse durante un festival letterario o a una convention
di giallisti. Se Crumley era tra i presenti, garantito che potevate trovarlo
appollaiato su uno sgabello, davanti al bancone, oppure seduto a un tavolo in
fondo al locale, circondato da bottiglie quasi sempre vuote. Come a Courmayeur,
in una vecchia edizione del Noir in Festival, quando la sua sagoma da orso in
miniatura – piccoletto, ma con la pancia del grande bevitore e un torace da
peso massimo – era la prima cosa che si scorgeva rientrando in albergo, a
qualunque ora del giorno e della notte.
Il bello è che la gente si teneva a debita distanza,
qui e in America, perché lo scambiava per un tipo inavvicinabile, pronto magari
a far scoppiare una rissa per un nonnulla, proprio come capita nel primo
capitolo dell’Ultimo vero bacio, il suo capolavoro e uno dei romanzi
fondamentali della letteratura americana del Novecento (tutta la
letteratura, intendo, non solo quella di genere). Invece James era una persona
dolcissima e affettuosa con la quale, certo, forse non era così facile andare
d’accordo – e le quattro mogli prima dell’ultima, Martha Elizabeth, sono pronte
a testimoniarlo – e con la straordinaria capacità di non prendersi sul serio,
pur conoscendo benissimo il proprio valore. E, soprattutto, era un grande
raccontatore di storie, forse ancora meglio che su carta: una miniera
inesauribile di aneddoti, di esperienze incredibili (di guerra, di droga, di
alcol) che si stentava a credere potessero essere capitate a una persona sola.
La cosa singolare è che Crumley parlava quasi sempre e solo di se stesso, non
certo per vanità, ma perché anche questo faceva parte della sua attività
letteraria. Mettere le parole su carta era, per lui, un passaggio secondario.
«I miei libri li ho tutti qui in testa,» fu una delle prime cose che mi disse.
«Scriverli è un’altra faccenda, e non è sempre detto che vada a buon fine. Ne
ho uno, per esempio, che mi sto portando dietro dal 1969, un grande romanzo sul
Texas che quasi sicuramente non finirò mai. L’ultima volta che ho dato
un’occhiata al manoscritto ero arrivato a ottocento pagine… e a quel punto le
ho gettate nel fuoco. È vero che mi ero appena fatto una canna, ma ci ho messo
due ore, a bruciarlo tutto.»
Forse è stata proprio la sua perenne insoddisfazione a
produrre almeno due tra le pietre miliari dell’hard boiled: il già
citato L’ultimo vero bacio, uscito nel 1978, e il precedente Il
caso sbagliato, del 1975, che riapparirà tra breve nelle librerie italiane
dopo un’assenza di quasi vent’anni. E, se L’ultimo vero bacio ha
rivoluzionato il genere proprio come si rivolta un calzino, a partire dal suo
leggendario primo capoverso – che Crumley sosteneva di averci messo solo
otto anni a scrivere – Il caso sbagliato rappresentò, per i pochi che
lo lessero all’epoca e per i tanti che lo hanno amato nel corso del tempo, il
primo colpo di piccone assestato alle convenzioni ormai stantie del poliziesco
americano: un improbabile investigatore privato che campa malamente con le
cause di divorzio, fotografando coppiette abusive nei motel, che vive in un
perenne stato etilico rinforzato da larghe dosi di marijuana e, quando capita,
di cocaina, che indaga non per ristabilire la legge ma per amore dei soldi e
per placare la solitudine, che passa da un bar all’altro circondato da una
galleria di personaggi sfigati e marginali, reietti come lui ma ancora pieni di
dignità personale in una società sfasciata dalle tragedie della Corea e del
Vietnam.
È stato James Crumley a cambiarmi la vita. Ho deciso
di fare questo mestiere, anni fa, nella speranza di poter tradurre un giorno L’ultimo
vero bacio. È davvero andata così: e, come dice la celebre canzone di
Gershwin, Who could ask for anything more?
«L’Unità», 19 settembre 2008