Luigi Corvaglia

talebani libertari

note antropologiche ed epistemologiche

La mia opinione di oggi non è un vincolo per il domani,
non voglio girare come un cadavere avvolto
nel sudario delle mie antiche opinioni.
Emile Armand

Un recente saggio antropologico si apre con la citazione di una scena, non propriamente storica, tratta da un film di cassetta degli anni ottanta, “Mr. Crocodile Dundee”. In questa sequenza, una giornalista occidentale sta puntando la sua Reflex su un aborigeno australiano quando quest’ultimo la ferma dicendo: “non puoi fotografarmi”. Lei: “Ah, capisco, perché temi che la fotografia ti rubi l’anima”. L’aborigeno : “no, perché hai il tappo sull’obiettivo”(1). In effetti, la gag individua ed esprime in modo esemplare le difficoltà relazionali derivanti dalla comune tendenza a proiettare sugli altri, supposti “diversi”, le proprie stereotipate concezioni di come questi dovrebbero essere. Da qui, da questi a-priori epistemologici, il fallimento di molti incontri possibili. L’interesse che tale considerazione riveste in questa sede deriva dal fatto che una simile inclinazione a by-passare la prova empirica, resa superflua dall’idea precostituita (e coadiuvata spesso da uno stile di pensiero improntato alla weberiana “etica dei principi”), è riscontrabile in ogni ambito culturale, ivi incluso quello che, per definizione, dovrebbe essere scevro da ragionamenti di tale fatta: l’anarchismo. Il pensiero libertario, in effetti, è riuscito più di qualunque altra idea “politica” a disinnescare le possibilità disgregative insite nella incompatibilità delle differenti anime che si agitano al proprio interno. Si pensi all’individualismo anti-organizzativo e all’anarco-sindacalismo, per esempio. Eppure, esiste un cuore intangibile nell’anarchismo europeo del novecento - Lakatos lo definirebbe un “nucleo metafisico” -, un presupposto inconfutabile che ne impedisce quella rottura epistemologica che è condizione necessaria per l’aumento di complessità e esplicatività di tutti i sistemi; ciò, è chiaro, funge da baluardo all’identità del tipo antropologico che si suole definire “anarchico”. Tale nucleo, come le teorie infasificabili di popperiana memoria (o i deliri dello schizofrenico), è impermeabile alla critica, non suscettibile di revisione. Questo nocciolo duro è la negazione della proprietà e dello scambio. Chiunque provi a intaccarlo è un nemico e, se si presenta sotto la bandiera libertaria, un falso, un totalitario sotto mentite spoglie. La cosa, curiosa quant’altre mai, ha trasformato gli apostoli della libera sperimentazione in una supponente setta di illuminati sempre pronta a epurare l’eretico e a mandare anatemi verso l’esterno, chiusa al confronto in nome di un fondamentalismo anti-scambista intransigente, non dissimile da un integralismo di marca religiosa. Le scomuniche, e questo è piuttosto ovvio, sono rivolte primariamente a quell’area culturale che è stata definita “anarco-capitalista” e che prende le mosse dall’opera di Murray Rothbard, portatrice di un liberalismo “totale”, fautrice del libero mercato e della concorrenza in ogni ambito, incluso quelli storicamente attribuiti allo stato, quali la produzione del diritto e i servizi di sicurezza. Non è stato difficile liquidare la cosa come “anarchismo di destra”. Forse un po’ meno ovviamente, tali crucifige sono indirizzati, non solo alle singole individualità di area “socialista” che, allontanatesi dalla strada dell’ortodossia, si dimostrano attente e pronte al dialogo con tale casta di intoccabili, ma perfino - e qui si dimostra una originale retroattività -, a quegli autori (Joshua Warren, Lysander Spooner, Benjamin Tucker, ecc.) che i free-market anarchists citano, a proposito o a sproposito, quali nobili riferimenti storici e precursori. 
Probabilmente non prefigurava l’emergere di questi gesuiti dell’anarchia Emile Henry, personaggio che certo non si avrebbe l’ardire di tacciare di scarsa determinazione o eccessiva tenerezza, quando, nella sua cella di condannato a morte, scriveva: “ … guardatevi bene dal credere che l’anarchia sia un dogma, una dottrina inattaccabile, indiscutibile, venerata dai suoi adepti come il Corano dei mussulmani. No. La libertà assoluta che noi rivendichiamo sviluppa le nostre idee senza sosta, le eleva verso nuovi orizzonti (secondo le menti dei diversi individui) e le spinge fuori dagli stretti quadri di ogni regolamentazione e di ogni codificazione…”(2) . A fargli eco, in una cornice ben diversa, fu un uomo che Henry non avrebbe gradito come compagno di prigionia, Camillo Berneri, che fu fautore dell’anarchia come “regno della tolleranza” ( e infatti fu, ed è, molto mal tollerato), e che, in perfetta linea con l’antidogmatismo di questo individualista “fattivo”, ricordava che “sul terreno economico gli anarchici sono possibilisti (…) sul terreno politico (…) sono intransigenti al 100%”(3) . Dicendo ciò, il pensatore ucciso dai comunisti durante la guerra di Spagna descriveva un chiaro quadro epistemologico. Egli affermava, cioè, con una certa coerenza, che assioma centrale dell’azione anti-autoritaria è la lotta all’autorità, che le altre sono allora battaglie sotto-ordinate e da questa dipendenti, che per il libertario non esistono tabù, nessuna dottrina economica e nessuna codificazione. I sistemi economici, quindi, saranno da contrastare qualora si pongano quali causa di oppressione, e non in relazione a valutazioni o dogmi di altro genere. Se allo sguardo disincantato del lettore non avvezzo alla logica “incantata” degli anti-autoritari di cui si parla - persone che, come ebbe a dire Stirner degli atei, “sono gente pia” - , la cosa può apparire lapalissiana, ciò è dovuto proprio alla scarsa dimestichezza con il credo fondamentalista di certe rumorose conventicole che si propongono in spettacolari contorsionismi mentali dai quali si può facilmente cogliere come il nucleo metafisico non sia affatto l’inimicizia per lo stato, ma quella per la proprietà; che, quindi, sia l’anti-statalismo ad essere sotto-ordinato all’antiproprietarismo. Si vedano in proposito le esibizioni di Noam Chomsky e Hakim Bey. Il primo, in particolare, si è auspicato un aumento delle attività dello stato, “per quanto illegittime”, a difesa di “alcuni aspetti della società libertaria” attaccati dal dominate liberismo economico (4). Il secondo, ritiene che lo stato nazionale sia da difendere dagli attacchi delle istituzioni sovra-nazionali. Questi autori hanno ampio seguito nel “movimento” odierno e pochi o nessuno sembra scandalizzarsi delle uscite filo-stataliste di questi “anarchici”. Ciò dimostra la maggior pregnanza, nella cultura dominante in certi circoli “libertari”, dell’anti-proprietarismo rispetto al secondario anti-statalismo, ridotto ad un “life-style”, per dirla con Bookchin, ad un vezzo, per dirla più chiaramente.

Ma, anche facendo finta di non cogliere l’incoerenza interna del sistema epistemologico di questi signori, la questione interessante da porsi si può dare in questi termini: che si tratti di un fondamentalismo è cosa provata dalla totale chiusura alle ragioni addotte da altre concezioni, ma, in considerazione del fatto che con questa definizione si intende niente altro che un ritorno ad una purezza primaria, cioè, ai fondamenti, appunto, di una data fede, così come rivelati in un Testo rivelato, si impone la ricerca delle “fondazioni” sulle quali si erge l’edificio di questo talebanismo libertario. E’ presto detto. Il mito si regge sui versetti dei padri fondatori e dei loro profeti. Non è forse uno slogan da t-shirt, al limite del luogo comune, quello proudhoniano secondo il quale “la proprietà è un furto”? Ora, non dovrebbe neppure valere la pena, tanto la cosa è scontata, di affermare che basterebbe leggere sul serio Proudhon, anche in un Bignami, per rendersi conto che niente fosse più alieno al tipografo di Besancon della teorizzazione collettivistica. Per Proudhon, il comunismo, limitandosi a trasferire la proprietà dal privato al pubblico, non fa che produrre la massima aberrazione che sia possibile collegare alla proprietà stessa, ossia il monopolio. “I membri una comunità è vero, non hanno niente di proprio– scrive –; ma la comunità è proprietaria, e proprietaria non solo dei beni, ma anche delle persone e della volontà”(5). Con quest’ultima osservazione, Proudhon centra l’attenzione su quella che sarebbe la logica conseguenza della collettivizzazione, cioè la negazione delle antinomie, del pluralismo, perché il collettivo, non tollerando altro da sé, non permetterebbe attività aliene ai sui precetti. Quella che egli propone è, quindi, l’ “universalizzazione della proprietà”, intesa come “possesso” generalizzato, fondato sul lavoro. Siamo all’ABC, al compendio ad uso dell’aspirante libertario, all’ “anarchism for dummies”. Eppure, chi scrive ha esperienza dell’utilizzo della vulgata proudhoniana quale arma impropria – nel senso di non adatta – nel dibattito su anarchismo e mercato da parte di rinomati “anarchici” di specchiato pedigree “socialista”. Interessante notare che il povero Benjamin Tucker, colpevole di essere citato quale proprio antenato  dagli anarco-capitalisti odierni, e quindi oggetto di una congiura del silenzio – e dell’ignoranza – da parte di tanti estimatori del Proudhon, soleva esprimersi in termini assolutamente sovrapponibili a quelli del francese. Ciò avveniva, ad esempio, quando ironizzava sulla soluzione marxista per il monopolio, che sarebbe il monopolio stesso, oppure quando riprendeva completamente da Proudhon l’idea di rispondere al monopolio statale della moneta con la creazione del credito gratuito. Insomma, il richiamo alle fondamenta contro la corruzione “liberale” è alquanto incoerente. Sia detto per inciso, ma Tucker si dichiarò per tutta la vita “socialista”(6).

Alcuni duri e puri meno sprovveduti, invero, si dicono, con maggior coerenza, avversi tanto alle “derive” liberali quanto allo stesso Proudhon, considerato un difensore degli interessi piccolo-borghesi. Questi, generalmente, portano nel taschino i santini di Bakunin e Malatesta. Non è forse quasi altrettanto noto dello slogan proudhoniano il motto a firma Bakunin “la libertà senza il socialismo porta privilegio ed ingiustizia, il socialismo senza la libertà porta schiavitù e brutalità”? Costoro scordano l’entusiasmo che comunque il russo manifestava per Proudhon e ignorano la svolta “libero-sperimentale” del casertano. Malatesta, infatti, pur essendo sempre ricordato come l’apostolo della rivoluzione anarco-comunista, merita un posto di riguardo nel novero di quegli autori che abbandonarono la logica escatologica e il determinismo storicista che rende tanti “anarchici” classici più marxisti di Marx. Fu il critico del positivismo kropotkiniano, ad esempio. Egli, adottata l’idea anarchica quale “lume regolatore”, ritenne - seppur non sganciandosi mai dal mito della rottura violenta della società attuale - che l’anarchia fosse un principio euristico che avrebbe dovuto guidare le azioni degli uomini verso un graduale avvicinarsi a detta sfuggente linea d’orizzonte, essendo invece l’anarchismo esattamente quel “metodo di vita e di lotta” che, tramite la libera sperimentazione ( inclusa quindi la sperimentazione economica,) opera in modo compatibile col desiderio di raggiungerla. (7) Malatesta, quindi, che pure è noto per essere stato un rivoluzionario e un socialista, di certo non può essere definito un intollerante ed un integralista della collettivizzazione come non si ha invece difficoltà a definire tanti sedicenti suoi apologeti, dimostrando così in cosa consista la differenza fra un gigante e dei nani. Stesso discorso si può fare con tanti teorici socialisti dell’anarchismo, da Armando Borghi a Luigi Ferri fino all’anarco-sindacalista Rudolf Rocker, titolare di un altro aforisma di una certa fama: “Molte strade portano alla dittatura dalla democrazia, nessuna dal liberalismo”(8). E’ probabilmente con Francesco Saverio Merlino, comunque, che riappare in modo realmente non equivoco la congiunzione proudhoniana di socialismo e mercato. Egli scrive: “Il socialismo sta nell’equità dei rapporti, nell’abolizione dell’usura, dei monopoli, delle speculazioni, delle frodi, [ma] non nell’interdizione di ogni concorrenza”(9). Come in Tucker, al quale mosse comunque critiche che qui non rivestono interesse, per Merlino, il socialismo è la condizione di eguaglianza nell’accesso al credito ed ai mezzi di produzione senza che la casta politica dei “capitalisti” impedisca la libera concorrenza e produca monopoli legali e rendite parassitarie; è un’ottica, quindi, in cui il socialismo non è rovesciamento del liberalismo, bensì suo superamento (10). Per uno strano caso, sembra che l’avvocato napoletano sia, per i socialisti libertari e gli anarchici in genere, argomento degno sul quale discutere e magari accapigliarsi, mentre quello del New England sia a-priori indegno di considerazione perché “filo-capitalista”. E’ una storia di aborigeni e macchine fotografiche.

Quanto a Bakunin, precedentemente evocato, andrebbero fatte alcune precisazioni. La prima è che è vero, con l’agitatore russo la società nuova auspicata arriva a coincidere con la società collettivizzata, ma bisogna ricordare che con ciò egli rompe completamente con la tradizione anarchica precedente, quella che, dopo di lui, continuerà parallela e marginalizzata. Come scrive lucidamente Massimo La Torre, con Bakunin “ l’anarchismo soffre, per così dire, di una torsione ideologica che lo spinge verso una direzione non ancora impressa al pensiero libertario nelle sue precedenti manifestazioni e ciò che l’anarchismo con lui guadagna in visibilità e forza utopica - e, mi si consenta, in ‘tono di voce e volume di suono’ -, perde in contatto con una delle sue più importanti fonti d’ispirazione”. E ancora: “ con lui irrompe nella filosofia politica libertaria una ventata di romanticismo - già annunziata, invero, anche da Max Stirner - e tramite essa irrompe un certo irrazionalismo e la tentazione dell’estetizzazione della politica”. Se ne conclude che solo l’atto rivoluzionario, per il nichilista di Priamouchino, come un vento che spazza il mondo vecchio, un fuoco che purifica dal peccato, può instaurare il mondo della cornucopia libertaria e socialista. “Gli elementi romantici – continua La Torre - tendono così a farsi gnosi, atteggiamento manicheo, attesa messianica dell’era nuova.” (11) Con Bakunin, quindi, si ha la costruzione del tipo antropologico dell’anarchico così come lo conosciamo, cioè un rivoluzionario ottocentesco che circola per il mondo moderno con le istruzioni per la palingenesi nella tasca del panciotto. Conclude, infatti, l’autore del testo citato: “Duole dirlo, ma in Bakunin si ritrova una critica della democrazia e del parlamentarismo simile a quella antimoderna e antiegualitaria del romanticismo politico.”(12) Bakunin, in pratica, si differenzia da Marx solo per i mezzi, non per i fini. C’è nel russo lo stesso sacrificio alla teologia, lo stesso ottuso ottimismo, la stessa credenza hegeliana nel compimento della storia, l’identico odio per la proprietà privata che, ci ricorda Onfray (13), è ereditato dal padre di tutti i totalitarismi, Rousseau, dal quale entrambi prendono in prestito la loro critica della modernità e il discredito gettato sulla tecnica, idea che si inscrive in un filone di pensiero che ha l’indubbia colpa di aver permesso, ai giorni nostri, ad un personaggio della mediocrità di John Zerzan di essere venerato come un guru da una tribù di anti-autoritari alla ricerca dell’autorità dei guru. Da tutto ciò Malatesta seppe tenersi alla larga.

A voler rincarare la dose ( e lo vogliamo), è con Bakunin che l’anarchismo entra in quel cortocircuito che le menti più svegliate e critiche del socialismo libertario hanno evidenziato. Si tratta del fatto che l’anarchismo, così inteso, è una teoria della libertà che si basa su un principio totalitario. Fra gli autori anarchici che hanno centrato il problema, ad esempio, c’è Tomàs Ibanez, una persona sulla cui fedeltà al paradigma socialista non è possibile sollevare sospetti. Vale la pena di leggere quanto questi freddamente nota: “La cultura implicitamente totalitaria che sottende all’esigenza anarchica di libertà si mette in evidenza quando si percepisce che l’individuo socializzato in una cultura libertaria, non dispone, per definizione, di alcun mezzo per affermarsi positivamente contro questa cultura. In effetti, l’anarchismo esclude per principio che qualsiasi altra cultura possa essere preferibile alla cultura anarchica, poiché dall’istante in cui l’esigenza della libertà è posta come valore fondamentale, ogni opinione che implica una minore esigenza di libertà costituisce automaticamente e necessariamente una opzione meno legittima. Dato che la società anarchica rivendica il privilegio di essere la società della massima libertà, ne consegue che nessun’altra forma di società può esserle preferibile! Volendo essere una teoria centrata sulla libertà, l’anarchismo apre su una cultura che esige l’adesione di ognuno per poter esistere e che contesta la legittimità di tutto ciò che non è sé stessa”(14). Che sia insita nella fede nella assoluta preferibilità di un modello rispetto a tutti gli altri la certezza del totalitarismo è cosa ben nota, ma il paradosso qui evidenziato riguarda il rischio di una simile conseguenza nel modello che, per costituzione, dovrebbe essere antitetico ad ogni assolutismo. La conclusione, insomma, è che l’agognata società futura, non “lume regolatore” malatestiano ma eden delle uri che si trova appena svoltato l’angolo della rivoluzione - atto, ci ricorda la Harendt, il giorno dopo il quale ogni rivoluzionario è un conservatore -  si riduce proprio a quel socialismo senza libertà di cui nella nota citazione dello stesso Bakunin, quello che porta schiavitù e brutalità. Infatti, dal cerchio non si esce, o si permette a tutti di fare ciò che si vuole, incluso produrre e disporre dei beni prodotti, e in tal caso, non si darebbe società socialista – almeno non nel senso che Bakunin intendeva -, oppure ciò non si permette, e allora non si darebbe società anarchica. Invischiati in questa impasse, inquadrate in questa cornice, acquistano maggior senso le osservazioni di Nico Berti su “destra” e “sinistra”, sulla collocazione, cioè, dell’anarchismo in rapporto a queste direttrici spaziali assurte a simbolo di posizioni filosofiche ed esistenziali. L’anarchismo non può che essere “oltre la destra e la sinistra”, perché l’una e l’altra sono accumunate da una logica di potere, cioè “esattamente da quella logica di parte, che, in quanto parte, vuole assumere la valenza di essere il tutto”(15). Questa stessa copertura totale, senza residui, questa medesima “reductio ad unum” che è ancora tutta imperniata sul principio di potere è presente nella concezione dominante dell’anarchismo, carica di entusiasmo profetico, messianico e totalizzante, difficilmente distinguibile, quanto ad ethos, dai deliri di un Fourier o un Saint Simon.
Proudhon, privo di questi abiti sacerdotali, ha sviluppato molteplici concezioni assolutamente scevre di tali rischi: mutualismo, federalismo, banche popolari, laboratori in cooperativa, prestiti reciproci, affiancamento di proprietà collettive e laboratori autonomi, compagnie operaie, federazioni di produttori e consumatori, insomma tutto l’armamentario, dirà Onfray, che può dar luogo ad una socializzazione liberale, se non ad un socialismo libertario (16). Certo, non il socialismo marxista, neppure quello marxista senza Marx degli “anarco-comunisti”, ma quello basato sull’individuo e le sue libere scelte in armonico organizzarsi con quelle degli altri. E non si sta parlando solo di scelte e di produzione e scambio di beni, ma di idee, opzioni, etiche, ecc., perché “solo dal più perfetto individualismo può nascere il più perfetto socialismo”(17). Tutte le teorie totalitarie passano, infatti, per un acceso anti-individualismo. Tutte le migliori approssimazioni alla libertà passano dall’individualismo e dal libero scambio, condizione tutt’altro che sufficiente, ma di sicuro necessaria per la libertà. Ciò perché solo la pluralità di visioni e di etiche impedisce che la parte diventi il tutto. Solo così, infatti, è ipotizzabile quel “federalismo delle differenze”, quella “libera sperimentazione” che costituisce la via maestra del progetto anarchico. Eccoci quindi giunti, e ciò non sia motivo di doglianza, dalle parti di Robert Nozick, il “miniarchico” che rappresenta l’ultima fermata del treno liberista prima del capolinea anarco-capitalista. L’autore ci riscalda l’acqua per farcela scoprire calda, affermando, in soldoni, che partendo dal dato acquisito che non esiste la società “migliore”, perché i valori e i progetti individuali sono estremamente diversi, ogni tentativo di imporre una unica visione del mondo sarebbe un arbitrario “gioco a somma zero”(18), nel quale un gruppo di individui decide di aggirare il libero mercato delle idee per imporre il proprio monopolio. Ne deriva che unica via percorribile sia quella di una “impalcatura per utopie”, cioè “un posto in cui la gente è libera di associarsi volontariamente per perseguire e tentare di attuare la propria visione di una vita bella in una comunità ideale, ma in cui nessuno può imporre agli altri la propria visione utopistica”(19). Concezione, questa, niente affatto nuova nel panorama anarchico europeo. Infatti, Emile Armand, autore che si può collocare alla posizione diametralmente opposta a quella di Bakunin ma oggetto di stima a "sinistra", ha tracciato i contorni di un individuo di grande modernità. Oggi si direbbe che il suo è un “individualismo metodologico”, cioè la concezione che la società sia una mistificazione ed una metafora (laddove in Marx, Bakunin e, non scordiamolo, anche in Hitler, il fatto sociale preesisterebbe all’individuo e, in un certo senso, lo creerebbe). Solo gli individui pensano e agiscono, in barba a qualunque “legge sociale”, pertanto va rigettato ogni “organicismo”, sia esso religioso o laico (socialismo, fascismo, anche anarchismo, se inteso male). Egli ha rivendicato “la libertà piena ed intera per ogni essere individuale, isolato o associato – e questo in tutti i campi del pensiero e dell’attività umana – di enunciare, diffondere, sperimentare, applicare tutte le concezioni e i metodi [che riterrà opportuni]”(20) e, tale pratica parallela di ogni sorta di postulato comporta che la società sia, direbbe appunto Nozick, una “impalcatura per utopie”: dal punto di vista economico, “qui ricevendo ciascuno secondo i suoi bisogni; là acquistando ciascuno secondo il proprio sforzo. Qui il baratto: prodotto contro prodotto; là il prodotto messo a disposizione della collettività”. E ancora, da altre angolazioni, “qui i materialisti, là gli spiritualisti (…) qui la ricerca di emozioni artistiche o letterarie; là la ricerca e le argomentazioni scientifiche”(21). Ciò è possibile solo in una società composita, plurale, in una parola, “di mercato”. Una società in cui non ci siano Verità ultime, maiuscole e universali ma ognuno pratichi la sua, minuscola e particolare verità locale in associazione con altri forniti di medesima concezione. Nessun monoteismo etico potrà garantire la libertà, essendo la società per natura antinomica e plurale. Plurali dovranno essere i progetti. Non può allora esistere libertà “integrale” che neghi la possibilità della libertà economica. Basta riflettere sul fatto che in una società “di mercato” nessuno imporrebbe la produzione o l’acquisto di alcunché a nessun altro, ognuno essendo libero di praticare, insieme ad altri, il collettivismo, mentre in una società collettivistica nessuno potrebbe praticare lo scambio di beni che sarebbero “pubblici”, per chiarire quale delle due concezioni sia la più libertaria (e quale quella più “di destra”?). Non è forse questa, in un certo senso, la stessa logica, oggi così a la page, che è sottesa alle “Zone Temporaneamente Autonome” del sufi pret-a-porter Hakim Bey? Perfino Bakunin, che fin qui abbiamo criticato per la sua volontà di monopolio della propria idea di libertà, si lasciò scappare una apologia del libero mercato negli Stati Uniti (prima dei trusts), come riportato nella famosa lettera di Berneri a Gobetti (22).

In definitiva, tutta questa fiera di personaggi che sembrano usciti dalla copertina del Sgt. Pepper’s beatlesiano, tanto è composito il gruppo, è invece distribuita, con un metodo che sovrasta la follia da cui prende origine, lungo un filo rosso che porta ad una conclusione che si fa ora esplicito invito. Se, cioè, i fautori dell’ anarco-capitalismo non potrebbero che trarre giovamento dalla conoscenza degli autori più “laici”, più “liberali” dell’area libertaria che pigrizia intellettuale definisce “socialista” – e penso a Paul Goodman o a Colin Ward - , se inaspettate analogie con elementi del loro corpus teorico di riferimento questi potrebbero cogliere nei luoghi più impensabili, tanto più importante è, allora, l’invito agli “anarchici” continentali di provata fede ad avvicinare senza pregiudizi, togliendo i tappi dai loro obiettivi per sapere cosa stiano fotografando, un patrimonio di teorie e conoscenze dall’altissimo valore euristico e dall’enorme potenziale libertario, evitando di lasciarlo, come pregiati libri in una cantina infestata dai ratti, in balia dei teorici più deteriori e biechi della distopia che, utilizzando strumentalmente vessilli, armamentario e imparaticcie formule “liberali”, prepara il perfezionamento del mondo che abbiamo. Pongo dunque a sugello di questo scritto, nello stile aforistico che lo ha contraddistinto, la più indicata delle citazioni, la considerazione che Berneri poneva a chiusura del suo articolo sulla tolleranza: “A questo punto qualcuno protesterà. E' per quelli che non sono d'accordo con me che ho scritto questo articolo”(23).

Note

(1) M. Aime, L’incontro mancato, Turisti, nativi, immagini, Bollati Boringhieri, Milano, 2005

(2) E. Henry, Lettera al direttore del Conciergerie, in D. Guerin, Né Dio né Padrone, Milano, 1971, p. 350

(3) C. Berneri, Per un programma di azione comunalista, in Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, a cura di Pier Carlo Masini e Alberto Storti, Milano, Sugarco, 1964, pag. 98

(4) si rimanda al mio saggio sulla libertà negli USA (L. Corvaglia, La sovranità dell’individuo, Don Juan Ondine Books, 2000, pag. 32) on line: http: www.scaruffi.com/us/corvagli.html

(5) in G. Berti, Il pensiero anarchico dal settecento al novecento, Manduria, Lacaita, 1998, pag. 507

(6) A. Donno (a cura di), America anarchica, Lacaita, Manduroa, 1998

(7) E. Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchismo, “Umanità Nova”, Roma, 27 Aprile 1922

(8) R. Rocker, Nazionalismo e cultura, Edizioni Anarchismo, Catania, 1977, I vol., pag. 155

(9) F. S. Merlino, Pro e contro il socialismo, Esposizione critica dei principi e dei sistemi socialisti, Milano, 1987, p. 41

(10) in N. Berti, op. cit., pag. 967

(11) M. La Torre, Ragionare, discutere, agire pubblicamente, negoziare (II)
"Una Città"n. 88 , Settembre 2000 (edizione on line: www.unacitta.it)

(12) ibidem

(13) M. Onfray, La politica del ribelle, Ponte delle Grazie, Milano, 1998, pag. 92

(14) T. Ibanez, Questa idea si coniuga all’imperfetto, in “Volontà”, Milano, n. 3-4, 12/1996, pp. 271-279, pp. 275 e 276

(15) N. Berti, Oltre la destra e la sinistra, in in “Volontà”, Milano, n. 3-4, 12/1996, pp. 107-112, pag. 110

(16) M. Onfray, op. cit., pag. 97

(17) B. Tucker, in

(18)  R. Nozick, Anarchia, Stato, Utopia, Le Monnier, Firenze, 1981, pp. 329 e 330. Si rimanda anche a L. Corvaglia, Anarchia come anti-utopismo, “Clio- Rivista Trimestrale di Studi Storici”, Napoli, IV, 2004

(19) sulla teoria dei giochi si rimanda al mio Difendere il difendibile, http://digilander.libero.it/biblioego/CorvDifDif.htm, 2003

(20) in N. Berti, Il pensiero anarchico…, pag. 780

(21) ibidem, pag. 783

(22) Berneri che cita Bakunin: “La libertà dell'industria e del commercio è certamente una gran cosa, ed è una delle basi essenziali della futura alleanza internazionale fra tutti i popoli del mondo". E ancora: "I paesi d’ Europa ove il commercio e l'industria godono comparativamente della più grande libertà, hanno raggiunto il più alto grado di sviluppo".(Il liberismo nell’Internazionale, in “Rivoluzione Liberale”, n.11, 1923). Sempre in tema della coerenza di Bakunin, vale la pensa conoscere ciò che disse all’Internazionale di Basilea nel 1869, quando si disse favorevole "alla costruzione di uno Stato internazionale di milioni di lavoratori, uno Stato che sarà compito dell'Internazionale costruire".

(23) C. Berneri, Della tolleranza, “Fede” (Roma), 20 Aprile 1924.