Luigi Corvaglia
appunti di psicopatologia per
corpi liquidi
ipocondria securitaria
Incertezza
vuol dire paura. In psicologia cognitiva si definisce da anni “strategia
iperprudenziale” quel comportamento che i sociologi scoprono solo ora. Davanti
all’intollerabilità dell’incertezza, ci si costruisce un illusorio controllo
separando nettamente l’ambiente minaccioso, perché incerto, da un luogo
psicologico e fisico su cui si ipotizza di avere un controllo totale.
Presupposto di tale processo patologico, quindi, è la percezione di incertezza.
L’ipocondriaco si percepisce perennemente a rischio di morte, non perché sia
certo di esser malato, ma perché non tollera di non possedere la certezza di
non esserlo. L’ossessivo ritiene di dover ripetere continuamente il proprio
rituale rassicurativo, non perché sia certo che se non si attiene
scrupolosamente al protocollo autoprescrittosi succederà l’irreparabile, ma
perché non tollera di non essere certo di aver fatto tutto quanto necessario
per evitare che ciò che teme si verifichi. I non ipocondriaci e i non ossessivi
si prendono, in genere, crudelmente gioco di queste sofferenze. Ciò, però,
denota una consapevolezza della non funzionalità di questi processi psicologici
e comportamentali. A livello sociale, invece, questa consapevolezza non sembra
esistere. La società contemporanea è “ossessionata” dal problema della
sicurezza. Gli occidentali contemporanei hanno strutturato circoli viziosi
psico-comportamentali tali da produrre una mole di rituali compulsivi a
carattere assicurativo e preventivo. Eppure, il sociologo Robert Castel lo dice
chiaramente nella sua analisi sull’angoscia sociale: “viviamo senza dubbio –
perlomeno nei paesi sviluppati – nelle società più sicure finora mai
conosciute”. Gli individui più viziati di ogni tempo approcciano l’informazione
mediatica con lo stesso spirito con cui un ipocondriaco legge un testo di
patologia medica. Terrorismo islamista, immigrazione clandestina, statistiche
sulla microcriminalità, sono tutti segni di una ipocondria di massa equivalenti
alle macchie sulla pelle, agli sbandamenti e alle tachicardie dell’ipocondriaco
clinico. Sono i “dati oggettivi” di cui si necessita per contrastare ben altri
dati oggettivi (negatività clinica, “numero oscuro” criminologico, criminalità
dei colletti bianchi, ecc.). L’ansioso attua, quindi, una strategia di prudenza
estrema che, lungi dal produrre rassicurazione, comporta un aumento delle sue
ansia. Castel sembra descrivere lo stesso processo quando afferma che, a
livello sociale, ciò che produce l’angoscia non è “l’assenza di protezione, ma
piuttosto il loro rovescio: la loro ombra, proiettata in un universo sociale
che si è organizzato attorno a una richiesta senza fine di protezioni o attorno
una travolgente ricerca di sicurezza”. La sovrapponibilità è totale. Il bisogno
di controllo che l’ansioso percepisce è basato su un’ idea di fondo
irrazionale, cioè che, oltre che utile, possedere il controllo sia doveroso e,
soprattutto, possibile. Da un testo di psicologia clinica: “ciò che determina
la patologia non è il desiderio di controllare “per quanto possibile”
l’andamento delle cose, ma la certezza di poterlo fare” (S.Sassaroli, R.
Lorenzini, G.M. Ruggiero (a cura di), Psicoterapia cognitiva dell’ansia,
Raffaello Cortina, 2006, pag. 134). Se ne deduce che, se un individuo si rende
conto di non riuscire a raggiungere la certezza, ritiene che il problema sia
suo, perché non si applica abbastanza o è incapace. L’effetto è l’aumento del
controllo con aumento della frustrazione e dell’ansia. Da un testo di
sociologia: “L’acuta e inguaribile esperienza dell’insicurezza è un effetto
collaterale della convinzione che la sicurezza assoluta sia raggiungibile,
con le giuste capacità e con uno sforzo adeguato (“si può fare”, “possiamo
farcela”). E così, se viene fuori che non ce la si è fatta, l’insuccesso
si può spiegare soltanto con un atto malvagio e malintenzionato. In questo
dramma, un cattivo ci dev’essere” ( Z. Bauman, Modus vivendi, Inferno e
utopia del mondo liquido, Laterza, 2007, pag. 63). . L’effetto è l’aumento
del controllo con aumento della frustrazione e dell’ansia. Qui, in più, c’è la
costruzione di quelle che in criminologia si chiamano le “nuove classi
pericolose” (immigrati extracomunitari, soprattutto). La strategia
iperprudenziale si manifesta in tre tipi di processi: percettivi, cognitivi e comportamentali.
In altri termini: sto attento, ci penso sempre ed evito. La continua scansione
dell’ambiente caratterizza il primo processo: attenzione e memoria selettiva
(individuale e mediatica) fanno percepire l’ambiente sempre più minaccioso. Nel
secondo processo rientra la fissazione cognitiva sul pericolo, cioè la
valutazione positiva della preoccupazione (rimuginio dell’ansioso), pena
il rischio di essere sopraffatti dalla disgrazia o malattia o orda barbarica.
Ciò aumenta l’ansia. I processi comportamentali, invece, consistono
nell’evitare luoghi, persone, circostanze in cui si teme che l’evento
pericoloso possa verificarsi. Ben nota conseguenza dei disturbi di panico,
questo processo prende il nome di agorafobia.
agorafobia per un mondo liquido
Il
tema dell’agorafobia induce a una riflessione di particola interesse se si
ricorda che già Isahia Berlin, noto per la celeberrima distinzione fra libertà
positiva e libertà negativa, aveva azzardato un paragone “clinico”
al riguardo. Alla luce della metafora del riccio (che egli immaginava monista)
e della volpe (supposta pluralista), Berlin instaurava
un parallelismo tra monismo, che è ricerca d’unità e sicurezza, e agorafobia, che è ricerca di un luogo chiuso e
rassicurante. L’agorafobico si ubriaca d’ossigeno e chiede porte chiuse. Al
contrario, il pluralismo è frutto di claustrofobia, cioè di una condizione di
conformismo e di ristagno intellettuale. Il claustrofobico chiede aria, porte
aperte, luce. Berlin non ha esitato a dare al monismo la responsabilità di
tutte le feroci dittature che hanno funestato il XX secolo. La fede,
popperianamente infalsificabile, è certezza. La certezza diviene zelo
messianico. Ciò di cui l’umanità abbisogna, dunque, non è unità, perfezione,
certezza, bensì scetticismo, pluralità, vale a dire incertezza e claustrofobia.
Ciò detto, torniamo a considerare l’ossessione securitaria. Data
l’incontrollabilità del plurale, del “non territorializzato” e del “nomade”
(secondo le suggestive definizioni di Deleuze e Guattari) , la strategia di
prudenzialità abnorme tende a costruire pacchetti unitari, colonie di sicurezza
caratterizzate dal monismo, dall’uniformità, dallo statico. E a definire chiari
confini fra tale ambito controllato e tutto ciò che ne è fuori. L’ansioso teme
le novità, perché non previste dal proprio protocollo e tutto ciò che non
rientra nel pacchetto sicuro è, senza graduazione alcuna, assolutamente
pericoloso. E’ un pensiero dicotomico. La dicotomia è fra ordine – sempre
artificiale, improbabile e temporaneo - e – costitutiva - entropia.
L’evitamento agorafobico è completo quando gli spazi fisici
di sicurezza sono limitati a quelli familiari e quelli fuori da detti confini
sono fuggiti o affrontati con disagio o solo se accompagnati da persone di
fiducia (in genere, familiari, nel caso clinico individuale, forze dell’ordine,
nell’agorafobia sociale). Esiste un chiarissimo correlato di massa, un
isomorfismo lampante, fra agorafobia di interesse clinico e i comportamenti da
angoscia sociale contemporanea. Si tratta della tendenza in atto alla
separazione fisica. L’alienazione urbana della Los Angeles descrittaci anni fa
da Davis (M. Davies, L’agonia di Los Angeles, Datanews, 1994) come vero
laboratorio della medievalizzazione dei tessuti metropolitani, con tanto di
cittadelle indipendenti, ponti levatoi, bravi prezzolati dai proprietari e
telecamere ad ogni angolo a definire l’avverarsi della distopia del
“panoptikon”, è ormai dilagata al resto delle metropoli. San Paolo del Brasile
ne è uno degli esempi più eclatanti, ma la parcellizzazione armata è processo
dal quale nessuna città è immune. I fossati, le palizzate distinguono “noi” da
“loro”, dividono l’ordine dalla natura selvaggia. Si tratta di una spinta verso
delle comunità di simili, allontanamento agorafobico dall’alterità esterna e,
al contempo, di rinuncia all’interazione interna, riducendosi l’interno ad
essere un blob uniformato e indifferenziato. La “comunità degli identici” è una
polizza assicurativa contro i rischi del plurale, della polifonia del mondo esterno,
ma anche, ci ricorda Berlin, assicurazione di eccesso di zelo. Ad esempio, zelo
nell’allontanare, in base allo ius excludendi alios connesso alla
proprietà. In Italia, certo secessionismo “padano”, commistione di reazione e
rivoluzione, di autodeterminazione western e culto identitario destroide, è l’
espressione strapaesana di questi fermenti metropolitani. Qui gli spazi da
delimitare diventano quelli di indefinite “nazioni per consenso” uniformate dal
compattamento artificiale delle paure agorafobiche delle province minacciate
dalla globalizzazione. “Mixofobia” è il termine utilizzato da Zygmunt Bauman
per definire questa reazione “iperprudenziale” per gestire l’ingestibile, ossia
la connaturata diversità dell’umano. Una utopia, come tutte le utopie destinata
a produrre molte infelicità, come ben sa l’agorafobico. La mixofobia, quindi, è
l’agorafobia del mondo liquido , di quel mondo, cioè, in cui la velocità
dei processi è tale da impedire la cristallizzare i fatti sociali in dati
strutturali, in cui le modalità sono cangianti e inafferrabili e in cui sono
venute meno le agenzie collettive di sicurezza (welfare state ecc.). Ora, la
reazione allo stato di cose prodotte dalla modernità può essere di tipo
regressivo o progressivo. Nel primo caso, cioè nella nostalgia per un mondo
premoderno in cui la comunità era la sicura cornice dell’attività umana,
rientra lo stesso Bauman col suo disdegno dell’individualismo “moderno” e la
sua fiducia nel socialismo, ma, paradossalmente, anche gran parte dell’anarchismo
che, con le sue utopie di uniformità e i suoi miti primitivismi, si trova nella
sua stessa trincea contro il medesimo nemico mercatista, visioni entrambe
dimentiche del fatto che le comunità premoderne erano in perenne ostilità
e diffidenza nei confronti dell’esterno, come le città private odierne che essi
aborrono. Si scordano che proprio lo scambio e il confronto hanno
prodotto “le società più sicure mai conosciute” di cui parla Castel. Due
monismi, insomma, due specie di riccio. Quindi due forme di utopismo. Poi c’è
il sistema della volpe. Quello del pluralismo, del meticciato, dello scambio,
della libera sperimentazione. Molti supposti “libertari” si stupiranno di
sapere che è l’opzione liberale. Lo stupore deriva dall’abitudine a vedere
affiancato l’aggettivo liberale ai vari piccoli Cesare e piccoli Bonaparte del
liberismo di stato (se non, addirittura, al leghismo di cui sopra) più che a
Proudhon o a Ernesto Rossi. E’ l’opzione pluralista, quella che non separa, la
claustrofobia. Ogni pensiero ha la sua patologia. Infatti, il liberalismo,
nella sua forma più estrema e, in teoria, più compiuta, quella che arriva a
teorizzare l’abolizione dello Stato stesso, rischia spesso di utilizzare la
prima delle due scelte proposteci da Italo Calvino nel suo Le città
invisibili:
Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a
molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e
sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo
durare, e dargli spazio.
La seconda è la prospettiva di un Paul Goodman, anarchico e
liberale, la prima è quella del cosiddetto paleolibertarismo che, in
Italia, affianca secessionismo padano, mixofobia, teorizzazione
dell’urbanistica securitaria privata, rivolta fiscale e integralismo cattolico.
Ricci e volpi possono non essere così riconoscibili al primo sguardo.
Significativo ed esplicativo notare che, al suo primo affacciarsi, sul finire
degli anni settanta, il libertarismo di mercato si presentava con una rivista
intitolata Claustrofobia. Oggi, il think thank anarco-capitalista
propaganda il proprio pensiero politicamente scorretto da una rivista
denominata Enclave…..