Luigi Corvaglia
ideologia e mercato. Un'analisi
costruttivistica
Premessa: mindfucking
- Quando io uso una
parola, - disse Humpty Dunty in tono d'alterigia, - essa significa ciò che
appunto voglio che significhi: né più né meno. - Il problema è, - disse Alice,
- se voi potete dare alle parole tanti diversi significati. - il problema è, -
disse Humpty Dunty, - chi è il padrone.... Lewis Carroll, Attraverso lo specchio
Alle parole, al contrario che ai numeri, possiamo dare il senso che
vogliamo. Non è necessario frequentare persone che hanno avuto la sventura di
essere definite psicotiche per rendersene conto. Si pensi all’etichetta “guerra
preventiva”. Una delle migliori strategie di riprogrammazione e riforma del
pensiero utilizzata da chi voglia far persuasione coercitiva (in
slang americano, mindfucking) è proprio la ridefinizione del linguaggio. Tale
ridefinizione, come superbamente messo in rilievo da Orwell, è un modo di
ridefinire la realtà stessa. In 1984, in un totalitarismo in cui è
contemplato lo “psicoreato”, gli inventori della “neolingua” mirano a
“semplificare al massimo le possibilità di pensiero”. Esistono sicuramente
forme “benigne” di inganno linguistico. La Groenlandia, “terra verde”, è una
distesa di ghiacci, l’Oceano Pacifico è decisamente poco pacifico, il Capo di
Buona Speranza è un posto che lascia invero poche speranze al navigatore. Qui
il ribaltamento ha connotati, se vogliamo, chiaramente - e pertanto venialmente
– truffaldini.
La benignità è nel fatto che basta sottoporre a verifica la nostra aspettativa
di trovarci in una terra verde, in un mare placido o in una rilassante regata
lungo costa con l’esperienza sul campo per invalidare l’idea precedente. Se
sopravviviamo, sulla nostra mappa ci è facile annotare che il Capo di Buona
Speranza è un posto consigliabile solo ai nemici. E’ ciò che Popper definiva
“falsificabilità”. La nostra conoscenza procede appunto in questo modo. La
nitidezza della nostra visione del territorio aumenta aggiornando di
continuo le nostre “mappe” grazie alle invalidazioni. Ne deriva che il vero
motore della conoscenza è l’errore. E’ l’errore che ci informa sulla non
validità della nostra “mappa cognitiva” e ci impone di rivederla. Detta
diversamente, cioè con un personaggio de Il nome della rosa di U. Eco,
“il dubbio è il nemico di ogni fede”, pertanto è il dubbio, non la certezza, la
spinta di ogni ricerca, di ogni indagine. L’importante, quindi, è che le idee
siano almeno in potenza invalidabili. Altrimenti la cosa diventa maligna e, in
taluni casi, porta a vere metastasi cognitive. E’ il caso delle fedi religiose
e politiche. Incluso l’anarchismo.
Ossimori falsi e ossimori veri
Kevin Carson, individualista americano, definisce la propria visione
politica, cioè una sorta di mutualismo di stampo proudhoniano, “libero mercato
anti-capitalista”. A prima vista, soprattutto ad un europeo intriso di
marxismo, la definizione può apparire un ossimoro. Come dire “Capo di Buona
Speranza Negativa”. E invece no. Perché si abbia ossimoro è necessario che le due
parti della definizione confliggano in termini concettuali. Cosa che si pone
solo se ai termini “libero mercato” e “capitalismo” diamo delle connotazioni e
non se ne diamo altre. Lo abbiamo detto, alle parole, come Humpty Dunty,
possiamo dare il significato che vogliamo. Il problema qui, però, è che a
inchiodare indelebilmente le etichette sui legni dove sono crocifissi i
concetti è il martello delle ideologie. E le ideologie non sono propense a
modificarsi neanche in base alle evidenze che potrebbero invalidarle. Le
ideologie sono certe, non si discutono, non ammettono dubbi. Cioè, sulla scorta
di quanto detto, non ammettono la crescita della conoscenza.
Galileo sapeva di poter dimostrare quanto diceva, se solo i preti avessero
voluto guardare nel suo cannocchiale. Ma non vollero. Così, secondo una
preponderante massa di critici del sistema economico vigente, libero mercato e
capitalismo sarebbero pressoché sinonimi. Il motivo è che l’uno e l’altro
vedono la proprietà privata – cioè il “furto” proudhoniano, l’ “appropriazione
originaria” di Rousseau – quale base di effettualizzazione. Se si rigetta la
proprietà - brutta, sporca, cattiva -, da rifiutarsi sono anche le sue
conseguenze. Pensare ad un mercato anticapitalista è, dunque, uno “psicoreato”.
Di cui, probabilmente, si è macchiato perfino Proudhon, che dello scambio fu un
apologeta. Secondo, invece, i partigiani del liberismo duro e puro (esempio più
compiuto gli "anarco-capitalisti" seguaci di Murray Rothbard), dirsi
anti-capitalisti ed essere collettivisti è tutt’uno. Pertanto, persone come
Carson – o lo scrivente – sono da contemplare nell’elenco dei parassiti per
motivi di attitudine e di dignità.
Esistono molti argomenti logici atti a smontare queste semplicistiche
concezioni, se gli interlocutori fossero disposti ad accrescere la loro
conoscenza, a migliorare la propria mappa cognitiva. Ma, in genere, questi
signori, mai sfiorati dall’ombra del dubbio, si palesano quali varie
incarnazioni dei preti che rifiutarono di guardare nel cannocchiale di Galileo.
Se ci guardassero vedrebbero che l’etichetta “libero mercato” descrive la
concezione di autopoiesi, libero confronto e sperimentazione, sociale ed
economica, che è cara ai libertari di ogni “obbedienza”. Il capitalismo, di
contro, è termine storico che designa lo strutturarsi di un sistema
sclerotizzato di sfruttamento grazie all’intervento statale nell’economia,
cioè, non più come sistema autopoietico e cibernetico. In definitiva, il
capitalismo è esattamente l’opposto del libero mercato. Lo diceva
Korzbinsky in un abusato aforisma: la mappa non è il territorio e il nome non è
la cosa designata. Sono i concetti vivi che scalciano una volta imbrigliati
nelle etichette morte.
Un esempio storico renderà più chiara la distinzione.
Ode alla Grecia ( la storiella mi assolverà)
Con la rivoluzione del
1821 la Grecia si liberò della dominazione turca che si protraeva da circa
quattro secoli. Estremamente interessante leggere una descrizione di quanto
avvenne nella fase di "vuoto di potere" succedutosi alla cacciata
degli ottomani. La gestione del territorio, infatti, fino ad allora in mano ai
rappresentanti del potere ottomano, una volta cacciate le nobili famiglie
turche che detenevano le terre presso le quali gli autoctoni lavoravano in
condizioni di semi schiavitù, erano diventate res nullius.
Se in Oklahoma furono organizzate delle competizioni per accaparrarsi la terra
durante la corsa all'Ovest, in Grecia, nella provincia dell'Elide, il problema
della distribuzione della terra fu risolto dividendola in lotti, ad opera degli
stessi abitanti, e, come procedura per l'assegnazione, si organizzarono delle
corse con i cavalli.
La cosa funzionava così: ogni famiglia esprimeva un cavaliere, e terminata la
gara, il vincitore avrebbe scelto la porzione a lui più congeniale. Il secondo
classificato sceglieva un altro lotto, e così via, fino che tutte le terre
coltivabili non fossero state divise.
Le vedove e gli orfani, affinché anch'essi potessero avere una fonte di
sostentamento, non dovevano attendere la fine della gara, in quanto le comunità
avevano stabilito quali terre assegnargli in precedenza.
In questo modo, cioè in modo autopoietico, senza intervento esogeno e senza
particolari frizioni, la vita prese un suo stabile ritmo, e i braccianti, per
la prima volta dopo secoli, divennero “proprietari” delle terre che
coltivavano. Il surplus di produzione che in pochi anni fu realizzato grazie
alla fertilità della terra rese possibile l’inizio degli scambi con altre
regioni e paesi stranieri. La vita procedeva tranquilla. L’amministrazione
delle comunità affidata alle riunioni di rappresentanti non professionisti
(capifamiglia, anziani, ecc.) e, cosa che dispiacerà ai fans di Hobbes, pur in
totale assenza di polizia, gli atti di reciproca aggressività assolutamente limitati.
Ma il giorno arrivò. il governò centrale di Atene finalmente si diede una
struttura, emanò le prime leggi, e formò un esercito nazionale. il potere, in
altri termini, si coagulò nella forma della dominazione. “Stato” è il termine
che indica "chi ha il monopolio della forza su un dato territorio".
La definizione è di Walter Benjamin. Una delle prime leggi emanate riguardava
la nazionalizzazione delle terre. Procedura molto democratica. Infatti, durante
la gloriosa guerra di Spagna, anche gli anarchici parteciparono al governo che
emanò il decreto di collettivizzazione operaio del governo autonomo di
Catalogna. “In nome del popolo greco”, tutte le terre divenivano proprietà
dello stato.
Il primo compito dell'esercito ellenico neoformatosi fu di espropriare con la
forza le terre ai contadini che nel frattempo le avevano lavorate. In nome del
popolo, ovviamente.
Quelle stesse terre, poi, furono rivendute dal governo, e finirono in gran
parte in mano ai grandi latifondisti dei quali il governo stesso era espressione
ed emanazione. Qualche contadino riuscì a ricomprarsi la propria terra, ma le
tasse che nel frattempo il governo aveva imposto rendevano impossibile trarre
guadagno dalla coltivazione diretta di piccole proprietà. Per tale motivo,
questi dovettero subito rivendersele per ritornare a fare i braccianti. Ma ora
i padroni non parlavano più turco, parlavano greco. Su queste basi è nato il
moderno stato greco, liberale, democratico e capitalista (fino alla parentesi
del regime militare).
Questa storia greca ha, come le favole del conterraneo Esopo, una morale.
Questa storia istruisce. Non ci insegna certo che l'optimum sia l’arcadia
agricolo-pastorale, la “buona selvatichezza” rousseauiana o simili romanticismi
da salotto radical-chic. E’, infatti, una storia che riguarda una
organizzazione sociale che è più "comunità" che "società",
nel senso di Tonnies, con tutti i difetti connessi a ciò. Ciò non toglie che le
vicende dell’anarchia greca offrono numerosi spunti di riflessione. Ad esempio,
sembra che l' "ontogenesi" dello stato greco ricapitoli, per così
dire, la "filogenesi" della statualità storica. In altri termini,
rappresenti la replica a uso e consumo dei moderni dell'opera di conquista del
territorio che generò il leviatano. Non già, quindi, di quella evoluzione
darwiniana dalla selvaggia orda primordiale allo stato perfettamente evoluto
che sarebbe avvenuta a seguito di un' improbabile accordo universale; cioè
quella cosa che Rothbard definì ironicamente "l' immacolata concezione
dello stato". Ciò che, però, più conta ai fini del nostro discorso è che
la divisione dei “mezzi di produzione” e delle ricchezze non avveniva mediante
atti violenti (i "mezzi politici" di cui parla Hoppenheimer), ma in
base ad un comune accordo (i "mezzi economici"). Questo accordo si
può, senza pudori, definire mercato, ma si ha estrema difficoltà a
definirlo capitalismo. Non nel senso “volgare” del termine.
Con ciò, si ribadisce, non si vuol affatto dire che sia auspicabile un ritorno
a forme sociali più semplificate e, quindi a sistemi di scambio meno soggetti
allo “sfruttamento capitalistico”. No, le preferenze sono individuali e la
società non fa che organizzarsi sulla base di queste. Solo il moralismo che
contraddistingue chi è uso rifiutare di guardare nei cannocchiali può ardire di
porsi a missionario che annunci questo o quel rigore. Di questa schiera fanno
spesso parte gli anarchici classici, di tradizione socialista, i quali, invece,
spacciano per alternative alle logiche di mercato situazioni di mercato primitive,
compra-vendita equa e solidale, autoproduzioni. Queste, in realtà, sono piena
espressione del libero scambio, cioè di un sistema basato su incentivi
individuali. Il "mercato" non è dotato di una moralità sua propria o
addirittura di una (im)moralità esogena impostogli, è bensì espressione
dei valori dei singoli partecipanti al sistema. Si tratta di mercati, solo più
piccoli e meno redditizi. Minor godimento, si deduce, minor peccato. Una comune
in cui viga la gratuità rientra perfettamente nella logica di un “mercato”
similmente inteso.
No, con questo discorso si vuole portare l’attenzione soprattutto sull’altro
polo della questione, quello statale, cioè sul fatto che il primo gesto che lo
stato appena formatosi ha compiuto è stato togliere le terre ai contadini che
le coltivavano e il concederle ai ricchi protettori latifondisti, che con i
loro mezzi avevano permesso la formazione della elite governativa. E le tasse,
imposte dal governo centrale per il proprio mantenimento, hanno fatto in modo
che non risultasse più vantaggioso per i piccoli proprietari il mantenimento
dei loro limitati possedimenti. Ciò ha posto le basi per un’economia, quella
che ha poi prodotto Onassis, che, per quanto più “arretrata” rispetto alla gran
parte di quella dell’Occidente residuo, può dirsi di tipo capitalistico, anche
se si ha difficoltà a definire “di libero mercato”. Messa così, si badi, sono
anti-capitalisti anche i cosiddetti anarco-capitalisti. Insomma, il dato
storico ricalca perfettamente il noto criterio che David Friedman utilizza per
descrivere cosa è mercato e cosa no. E’ mercato qualunque situazione in cui le
risorse vengono utilizzate in base a regole condivise – qualunque regola,
inclusa la corsa coi cavalli – ed è non-mercato ogni situazione in cui il
problema venga risolto con la forza. Quest’ultimo, dice Friedman, è talmente
poco conveniente che “viene utilizzato solo da bambini piccoli e grandi
nazioni”. Appunto.
La questione sulla quale questa storia ci invita a riflettere, in definitiva,
è: favorisce di più il privilegio e l'accumulazione illegittima la libera
contrattazione - da sempre accusata di essere il terreno di coltura del
"capitalismo da rapina" - o la regolazione dell'economia sotto la
tutela di organizzazioni sovrapersonali – sia uno stato (liberal-democratico a
proprietà privata diffusa o socialista a “capitalismo di stato”) o anche
un governo su modello del "Comitato delle Milizie" spagnolo -,
teorico garante dei "diritti" di tutti i "cittadini"?
Ognuno è libero, ovviamente, di pensarla come vuole, ma chi ritiene che la
prima condizione sia auspicabile e la seconda deleteria persegue un “libero
mercato anti-capitalista”. Grazie di aver guardato nel cannocchiale.
Conclusioni: la realtà non è vera
"Abbiamo una regola. Marmellata domani e marmellata ieri, ma mai
marmellata oggi." "Ma qualche volta ci deve essere il giorno della
‘marmellata oggi’," obiettò Alice. "No, no, impossibile," disse
la Regina. "La marmellata è prevista a giorni alterni e oggi, sai, non è
affatto giorno alterno, lo vedi da te." Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie
Alice al tè dei matti dice “è certamente la mia lingua ma io non la capisco”.
Difatti, una povera organizzazione psichica, oltre a rendere le etichette, i
“significanti”, di scarsa utilità nel definire i significati, comporta anche
che la logica si sviluppi sulla base di sillogismi che hanno come premesse e
come conclusioni sentenze fatue e discutibili. Sentenze espresse sulla base di
“costrutti” poveri, direbbe George Kelly, fondatore del “costruttivismo
cognitivo”. E sentenze povere generano mindfucking. Self-mindfucking. Come già
detto, ci aveva avvertiti Korzbinsky. Non bastasse, ce lo ha poi ricordato
Gregory Bateson. La mappa non è il territorio. Ogni essere vivente, nel
conoscere la realtà, la costruisce. Naviganti nel mare magnum, viandanti nel
paese delle meraviglie, noi tracciamo mappe col solo fine di costruirci uno
spazio per orientarci e prevedere gli eventi. Non esistono mappe più vere di
altre. Esistono però mappe migliori di altre. Esistono mappe più articolate,
più ricche, che reggono meglio alle invalidazioni e riescono ad avere maggiore
capacità predittiva. Che, continuando la metafora, non ci fanno perdere con
troppa facilità. Ora, i costrutti sono binari. Bello e brutto, capitalismo e
socialismo, libero mercato e pianificazione, individualismo-socialismo,
razionalità e trascendenza, ecc. Un sistema di costrutti semplice avrà dei
problemi davanti alle invalidazioni. Per un tizio convinto dell’esistenza del
plusvalore, l’idea che sia più “socialista” il mercato dello stato è cognizione
che si vorrebbe non incontrare, soprattutto se la struttura è semplicemente
“comunismo-capitalismo”. Se cade l’una non rimane che l’altra. Inaccetabile. E'
una "dissonanza cognitiva" (Festinger). Come Bandler & Grinder
dicono di chi si trova in queste impasse, “la difficoltà non sta nel fatto che
essi effettuano la scelta sbagliata, ma che non hanno abbastanza scelte: non
hanno un'immagine del mondo messa a fuoco con ricchezza". Gli Innuit
(eschimesi) dispongono di circa duecento parole per definire la neve nelle sue
diverse manifestazioni, le quali sfuggono a chi non ha tale elemento quale
unico ambiente. La mappa dell’innuit non è più vera, è più adatta a orientarsi
nel suo ambiente. Edward Konkin III, conosciuto per essere il fondatore della
corrente anarco-capitalista nota come “agorismo”, descrive tre tipi di
imprenditore: 1: l’imprenditore (buono), che corre rischi, innova, è vera forza
produttrice e progressista; 2) il capitalista non statalista (neutrale),
relativamente poco innovatore; 3) il capitalista statalista (cattivo) definito
“il più grande male del regno politico”. Non siamo molto distanti dal pensiero
del “socialista” Carson. Bene, quella di Konkin non sarà la ricchezza del
dizionario Innuit alla voce neve, ma è già ben più del costrutto elementare
di imprenditore - sempre cattivo “a sinistra” e sempre buono “a destra” -
generalmente utilizzato. La semplificazione del pensiero, si ricordi, era il
fine della neolingua orwelliana.
La stessa nozione di "proprietà" può articolarsi ben più di quanto in
uso presso le tribù che ne fanno totem o tabù. Ad esempio, Bud Spangler
distingue, in buona compagnia, fra "proprietà nel senso di un
ingiusto stato privilegiato e proprietà nel senso del verificarsi di un
fenomeno etico sostenuto da un ampio consenso" aggiungendo che la
proprietà acquisita tramite libero scambio e sostenuta dal consenso dei
partecipanti "sarebbe difendibile grosso modo come si potrebbe
difendere il “possesso” in un sistema di proprietà usufrutto", concludendo
che "Questa teoria della proprietà, (...) attualmente fornisce
le basi per una rivoluzionaria redistribuzione della proprietà, da una
plutocrazia alleata con lo stato, ai lavoratori."
Preservare costrutti inadeguati, insomma, è possibile solo tramite l’elusione
(“non ci guardo nel cannocchiale”), l’immunizzazione (“sarà una
deformazione della lente”) o l’ostilità (“Il cannocchiale te lo
do in testa”). Crescere in complessità, invece, prevede la disponibilità all’esplorazione,
la tendenza a mettere a rischio i proprio costrutti, invalidarli, creandone di
nuovi più articolati, più comprensivi, più fini, che rendano le successive
invalidazioni più rare e meno traumatiche. Significa, insomma, creare
incessantemente sé stessi ed il mondo anche a costo di dolorosi riaggiustamenti
(gli “accomodamenti” di Piaget). Non è facile, certo, ma è il minimo che si
possa chiedere a chi si definisca “libertario”. Altrimenti, diceva Korbinzsky -
“Ci sono due modi di attraversare facilmente la vita: credere ad ogni cosa o
dubitare di ogni cosa. Entrambi ci salvano dal pensare.”