Luigi
Corvaglia
difendere il difendibile
la sola
libertà che non abbiamo è quella di non essere liberi (J. P. Sartre)
premessa
Quando, nel 1976, Walter
Block dava alle stampe il suo Defending the Undefendable, lo
faceva con un intento divulgativo e con la certezza che epater les borgoises fosse un modo divertente ed efficace per
volgarizzare e diffondere le proprie idee, nello specifico quelle di un
“anarco-capitalista”. La storia, consegnando il suo divertente ma ben poco
fondamentale libretto allo scaffale dei classici sul tema, gli ha dato ragione.
L’operazione condotta da Block è stata in pratica quella di difendere con
l’armamentario libertarian tutte le figure generalmente additate al pubblico
disprezzo come la prostituta, il lenone, lo spacciatore di droga, l’usuraio,
perfino il ricattatore (cioè il “venditore del suo silenzio”) perché attori
operanti attraverso liberi accordi fra individui adulti e consenzienti non
implicanti danno a terzi. L’opera, in pratica, si pone in antitesi al senso
comune, prodotto del pregiudizio, per legittimare razionalmente quanto il senso
comune, l’ “opinione pubblica” resiste ad accogliere e giustificare. Il
proponimento del presente scritto è simile ma mentre il canadese ha avuto gioco
facile a scandalizzare i benpensanti che costituiscono la maggioranza della
società con la sua immoralità “anarchica”
facendosi partigiano di ciò che una società liberal-democratica trova
“indifendibile” restando però un rispettabile interlocutore, dato che scriveva appunto
in un ambito culturale liberale, chi
scrive si trova a sfidare una mentalità ben
più moraleggiante ed espulsiva difendendo con argomenti “libertari” ciò
che solo i “libertari” ( personaggi che,
parafrasando Lenny Bruce, sono pronti a
capire tutti tranne chi non li capisce ),
ritengono indifendibile. L’utilizzo strumentale dell’argomento della
devianza psichica diventa quindi l’espediente per mettere in risalto varie
aporie delle “dottrine” anarco-socialiste ed anarco-capitaliste, e difendere molto di quanto queste avversano
(oltre che rifiutando molto di quanto
auspicano). L’intento è quindi quello di
contribuire almeno minimamente ad abbattere quella cortina mista di
ingenuità e pregiudizio religioso che offusca spesso la psiche di quanti bazzicano
l’ambiente che suole definirsi “libertario” facendone una splendida
inutilità.
lo
schizofrenico è capace di tutto, perfino di comportarsi bene (M. Gozzano)
1. devianza e giochi a somma zero
“I chimici non si
definiscono anti-alchimisti, né gli astronomi anti-astrologi”, scrive Thomas
Szasz rifiutando l’etichetta di anti-psichiatra e facendolo nell’ottica di chi
considera la psichiatria “una specializzazione non della medicina ma della
mitologia” e una “religione alternativa”, lecita come ogni fede in quanto
ognuno ha il diritto alle proprie credenze ma come ogni fede pericolosa perché portatrice di incontrovertibili verità
indimostrabili da imporre ai miscredenti e ai riluttanti a bere dal calice
della supposta “normalità”.
“Anti-psichiatra”, a rigor di logica,
dovrebbe quindi essere l’ individuo scevro da ogni pregiudizio o
missione normalizzatrice, ossia l’attore di una delle performances più
riuscite dello scetticismo. Basta in
realtà scorrere le fortunatissime pubblicazioni di Ronald D. Laing e David
Cooper, padri putativi dell’obiezione psichiatrica, per rendersi conto della
fallacia di questa idea. I loro scritti
trasudano una retorica rivoluzionaria di stampo guevarista, in pratica un’altra mitologia attrezzata, come tutte le
mitologie che si rispettino, di altri (
differenti ma speculari ) miti. Così, se il simbolo sacro della psichiatria
tradizionale è la schizofrenia, la malattia che la permette e la giustifica,
quello dell’anti-psichiatria è l’ “inautenticità”, la patologia sociale a cui
malato e anti-psichiatri si oppongono stretti fianco a fianco nella comune
trincea. Dall’altra parte della
barricata l’artefice di questa inautenticità, il capitalismo, il nemico che permette
e giustifica l’azione anti-psichiatrica. Laing e Cooper creano quindi un tipico
ribaltamento di prospettiva per cui il malato è il vero sano perché “autentico”
– affermazione che è un paradosso di I tipo come la celeberrima di Proudhon
circa la proprietà che sarebbe un “furto” - e la società è malata perché
falsata dal modello capitalistico dominante. La cura? E’ presto detta dallo
stesso Cooper che prescrive un trattamento in cui “…dovranno fare la loro comparsa gli
scioperi, accortamente predisposti, le bombe e le mitragliatrici impugnate con
spirito di compassione, ma anche in un modo che sia del tutto reale e
oggettivo, visto e percepito dagli agenti della società borghese nei confronti
dei quali possiamo essere compassionevoli solo in un secondo momento” . Gli
anti-psichiatri, armati di libretto rosso e di pochi bignami di
marxismo-leninismo, ripropongono l’idea terzo-mondista del saccheggio operato
dai ricchi nei confronti dei poveri – ad esempio, da parte dell’occidente nei
confronti dei paesi colonizzati – ricontestualizzandolo alla psichiatria con il
modello della “mente depredata” dalla famiglia e dalla società, agenti del
capitalismo. Così il mito della maggior
virtù dello psicotico non è altro che l’ennesima riproposizione del curioso mito
pseudo-socialista della maggior virtù dell’oppresso che aveva già richiamato
l’attenzione di Bertrand Russell. In
definitiva, psichiatria ed anti-psichiatria sono due facce della stesa
medaglia, o meglio, due delle infinite
facce del fideismo. Questo fa dell’una e
dell’altra due ideologie. Un’ideologia è una teoria del mondo che i seguaci
considerano vera pur in assenza di prove e che, in ragione della sua “verità”,
deve necessariamente imporsi agli altri (i matti, gli psichiatri, i
capitalisti, i comunisti, gli infedeli, ecc.). Insomma, si sta parlando di
religione. Non importa quali sentimenti e quali intenzioni trovino alloggio
alla base di un credo, ciò che conta è che chi ne è portatore detiene la verità
e che tutti gli altri brancolino nel buio.
Karl Popper ha evidenziato come a produrre questa certezza sia l’eccezionale potere
esplicativo delle ideologie caratterizzate dalla infalsificabilità dei
costrutti di base. Popper notava come i suoi amici marxisti trovassero in
qualunque evento una conferma alla teoria della storia descritta dal filosofo
di Treviri e mai delle smentite, così come gli psicoanalisti leggevano ogni
sintomo, senza possibilità di smentita,
in termini di conflitti inconsci a carattere sessuale o aggressivo (1).
L’ombra del dubbio non turba mai la fronte del marxista o del freudiano che
anzi ingloba e piega a suo piacimento ogni nuovo imput per confermare la sua
“verità”. Se possiedi la verità – faceva giustamente notare Hans Kelsen – la
devi imporre, e addio alla tolleranza. Non esistono infatti religioni tolleranti.
Una teoria che abbia una qualche funzione di interpretazione del mondo deve
invece essere falsificabile in potenza, ossia deve possedere dei “falsificatori
potenziali”, cioè dei costrutti importanti su cui questa visione si basa che,
se venissero un giorno falsificati, farebbero crollare la teoria. La teoria
della terra piatta lasciò il posto a quella della terra sferica dopo il viaggio
di Colombo che ne falsificò il costrutto della impossibilità di “buscar il
levante pel ponente”. La teoria della terra piatta era quindi una buona teoria
scientifica perché spiegava il mondo fino allora noto e possedeva dei
falsificatori potenziali che l’hanno fatta abbandonare. Esiste però negli Stati
Uniti una setta religiosa i cui adepti sono ancora oggi convinti che la terra
sia piatta perché ne hanno fatto un elemento fondamentale del loro credo e non
sono pertanto disposti ad abbandonarlo, pena il crollo di tutta l’impalcatura.
La fede non si può falsificare perché non ha falsificatori; i suoi costrutti
non si falsificano neppure davanti alle evidenze. La faccenda funziona così:
mentre la conoscenza scientifica ritiene che ciò che non può essere
potenzialmente falsificato non possa
neppure essere verificato, nella
fede ciò
che non può essere
verificato non può essere neppure falsificato. In realtà questo è quello che
succede anche nelle psicosi. E’ inutile portare al delirante le prove del suo
non essere un extra-terrestre o il
Cristo redivivo (ancora?) perché questi fagocita ogni obiezione e la
piega a dimostrazione del suo delirio (non fu forse anche Gesù maltrattato e
non creduto?). Il delirio è, per definizione, infalsificabile. I trattamenti psichiatrici sono in genere il
prodotto di teorie dello stesso rigore scientifico. Per restare ai concetti
patrimonio comune dell’età psichiatrica, si pensi a cose come il “complesso
edipico” o agli archetipi junghiani. Così i trattamenti biologici si basano
molto spesso su ipotesi mai validate. Eppure convincere uno psichiatra di non
essere un medico non è meno arduo di convincere uno psicotico di non essere il
nazareno. L’anti-psichiatria poi presenta gli stessi difetti della psichiatria,
la stessa alterigia con in più un nuovo pregiudizio, quella della maggior virtù
del matto che, quanto a infalsificabilità, non scherza neppure questa.
Imporre i propri
particolari valori al mondo tenendo in alcuna considerazione il criterio
popperiano di falsificabilità sembra essere il tratto comune tanto della
psicosi (la supposta malattia), quanto della psichiatria (la supposta cura) e,
perfino, dell’anti-psichiatria (la supposta anti-cura o “cura della cura”).
Prendere posizione per l’una, l’altra o l’altra ancora appare quindi più una
scelta di campo ideologica che non una conclusione che origina da una logica
scientifica. In altri termini, l’anti-psichiatria non gode di maggior validità
scientifica della dottrina di cui ha l’ardire di criticare gli assunti di base,
anzi è animata da una furia fanatica ed epurativa, inquisitoria e invasata da
farla porre ai primi posti fra i fondamentalismi religiosi. Dati questi attori,
la trama diventa scontata: la guerra di religione. A rendere ovvio tutto ciò è
il fatto che la fede sostituisce la prova col sentimento e ne fa certezza.
Nessuno ha mai fatto una guerra per dimostrare che due più due fa quattro
perché l’aritmetica non è sentimento ma è dimostrabile e perché il giorno che
ciò venisse falsificato empiricamente nessuno potrebbe più affermare, per
ragioni sentimentali, che due più due fa
ancora quattro. E’ invece
infalsificabile tutto ciò che è non dimostrabile ma creduto per fede, cosa che
porta invariabilmente al conflitto perché la gente ha fedi diverse. I cattolici
hanno fede nella transustanziazione, i marxisti nella teoria del
plus-valore, gli islamici nella parola
del profeta, gli psichiatri nella schizofrenia. I cattolici si sentono
superiori ai protestanti, i marxisti a chi “non ha coscienza di classe”, gli islamici ai cristiani, gli psichiatri un
po’ a tutti. Gli anti-psichiatri si sentono superiori perfino agli psichiatri. Troppa gente “superiore” per un mondo solo.
Ad ognuno dei gruppi privilegiati non resta che imporsi agli altri. Il paradosso è che l’inattacabilità delle
loro certezze deriva proprio dalla impossibilità di dimostrarle razionalmente,
cosa che le mette al riparo dalla falsificazione, unico strumento di
validazione e creazione di conoscenza.
La storia, inascoltata maestra, ci ha già insegnato quali frutti porti
tutto ciò. Non ammettere la libertà di religione significa soffocare anche chi
si discosta di pochissimo dai propri unici e veri dettami di fede (si veda
l’antico odio fra le religioni gemelle dei cattolici e degli ortodossi) e, nei
casi migliori, porta alla sostituzione di vecchi dogmi con nuovi dogmi,
generalmente peggiori ( la sindrome “Romanov-Lenin”). Ciò avviene grazie alla
antica pratica della conversione religiosa involontaria – ma anche del
trattamento medico involontario – attuata mediante l’uso della forza per
“convincere” chi è nell’errore. Si, perché quando un profeta (perché questo è colui che porta la verità
agli ottusi) non riesce a convincere gli altri (è indisponente l’ottusità degli
ottusi!) ben presto si assume il ruolo del chirurgo messianico destinato dalla
provvidenza a intervenire col sacro bisturi nell’interesse dell’umanità (o
della parte privilegiata che lo contiene).
I benefici effetti di
questa concezione e di questo tipo di interventi sono stati ben conosciuti dalle popolazioni
pre-colombiane in America Latina, dai kulaki russi sotto Stalin e dai
dissidenti durante l’intera vita dell’ Unione Sovietica, dagli ebrei spagnoli
sotto l’ inquisizione come da quelli russi sotto lo zar (per tacer
dell’imbianchino austriaco), dai bevitori di olio di ricino di un certo
ventennio italiano, dagli omosessuali rieducati tramite scariche elettriche
dagli psichiatri d’inizio secolo in Europa e da quelli contemporanei della Cuba
odierna, e via discorrendo. Paul Watzslavick
(uno psichiatra), ha definito “ipersoluzioni” tali risposte obbligate e
radicali, ossia queste ipotesi di
risoluzione definitiva di un male identificato con precisione (ad esempio, la
follia o la psichiatria o il capitalismo) mediante l’applicazione – con
precisione appunto chirurgica - di un
bene altrettanto ben identificato ed incontrovertibile (ad esempio, la psichiatria,
l’antipsichiatria o la dittatura del proletariato) tenendo assolutamente in non
cale gli effetti collaterali dell’operazione che generalmente si hanno a
verificare (secondo il bon mot medico per cui l’intervento è riuscito ma il
paziente è deceduto). Psichiatria ed anti-psichiatria sono due
“iper-soluzioni”, la “soluzione finale” hitleriana anche, così come la
rivoluzione bolscevica. Perché si arrivi a praticare un’ ipersoluzione è
necessario che si diano poche condizioni. Innanzitutto l’assoluta sicurezza di
essere dalla parte del bene - cioè il non esitare nel proclamare il “Got mit uns” – e la contestuale chiara identificazione del
male, che sono certezze che solo una fede, cioè una teoria
infalsificabile, può dare, congiunte con
la sensazione che il duello che si è chiamati a combattere sia un “gioco a
somma zero”. Un gioco a somma zero è una situazione in cui, dati due attori,
ciò che uno vince l’altro lo perde. Il caso più classico è quello di una
scommessa. Chi perde paga all’altro. La somma vinta e la somma persa danno
appunto come somma zero. Vincita e perdita sono indissolubilmente legate l’una
all’altra, non si ha l’una senza l’altra. Esiste una vastissima letteratura
sulla cosiddetta “teoria dei giochi” (Axelrod ) ma ciò che qui mi preme
sottolineare è come il giocatore a somma
zero riesca ad imporre le proprie regole anche agli altri, che essi vogliano
giocare oppure no. Non c’è scelta, non c’è “mercato”. Neanche il più pacifico degli uomini si può
godere la sua tranquillità se i suoi vicini non glielo permettono. Il giocatore a somma zero deve vincere. Fino alla bomba di Hiroshima anche la guerra
era un gioco a somma zero perché i territori persi da un paese venivano
acquisiti (vinti) dal paese nemico. Eppure proprio in situazioni di
belligeranza si sviluppano spontaneamente “giochi” alternativi. E’ noto quanto
avvenne nelle Fiandre durante la I guerra mondiale. Pur gettati nel bel mezzo di un gioco a somma
zero come la guerra, gioco deciso dai
monopolisti della violenza (gli stati), il fervore bellico dei due
schieramenti, inglese e tedesco, era
veramente basso. Le trincee distavano spesso una quindicina di metri per cui
una semplice granata a mano poteva produrre seri danni alla parte avversa, con
il rischio però di una risposta ugualmente gravida di potere distruttivo. Il
risultato di questa condizione fu che si stabilirono tregue di intere settimane
e rapporti addirittura amichevoli fra i soldati dei due eserciti, evidenti
soprattutto in occasioni come il Natale. Pian piano, in forma assolutamente
autonoma, si svilupparono altri rituali di non aggressione come il reciproco
ignorarsi delle pattuglie nemiche che si incrociavano di notte. Lo stato
maggiore britannico infuriato da questa
situazione proibì ogni intesa con il nemico e minacciò la corte marziale per i
trasgressori. Una classica ipersoluzione. La soluzione che invece i “belligeranti” misero in atto in risposta a
questo ordine del giorno -, classico dei giochi a somma zero per il fatto di
non prevedere terze soluzioni ma solo l’opzione “obbedire o morire” - fu invece proprio una terza soluzione:
obbedire senza eseguire. In pratica si sparava ma si mancava il bersaglio e il
nemico, grato, faceva altrettanto.
Situazioni di questo
genere si definiscono “giochi a somma diversa da zero” e il più celebre esempio di questa categoria
utilizzato nella teoria matematica dei giochi è l’abusato “dilemma del
prigioniero”. Si tratta, in pratica, di
situazioni in cui la sconfitta di uno non significa necessariamente la vittoria
dell’altro o viceversa. Possono entrambi perdere (l’esempio migliore è una
guerra termonucleare) o, ciò che più conta, entrambi vincere (come nell’esempio
delle Fiandre o nella scelta “collaborativa” del dilemma del prigioniero). Il
mercato è un buon esempio di questa seconda possibilità. Il missionario portatore di una fede, cioè
l’uomo illuminato dalla infalsificabilità del suo credo, è invece un giocatore
a somma zero. Per l’integralista islamico tutto ciò che viene conquistato dalla
modernità e dal pensiero laico è terreno perso dall’Islam e, per contro, tutto
quanto è distruzione di laicità e relativismo è conquista dell’assolutismo del
Bene e del Vero. Egli necessita l’ipersoluzione della jihad. Come in ogni gioco
a somma zero, l’antagonista viene chiamato in causa come giocatore volente o
nolente.
il più
bell’ordine è un mucchio di rifiuti gettati a caso (Eraclito)
2. elogio dell’entropia
Il rispetto
dell’individuo e della sua assoluta sovranità è pensabile solo tramite la
assoluta libertà di scelta, inclusa quella di chi debba essere, se lo vuole, il
suo padrone o il suo terapeuta. Ciò è
concepibile solo laddove non si dia assolutismo né a favore né contro un dato
prodotto culturale lasciando al singolo la scelta di accedervi o meno. Questo è garantito solo in un sistema
di libero scambio. E un sistema di libero scambio è possibile solo per mezzo
della concorrenza. Noi siamo abituati a considerare il libero scambio
nell’accezione bottegaia di “mercato” e alla concorrenza come alla competizione
economica. Certo, uno scambio riguarda
sempre dei “beni”, ma questi possono essere materiali come immateriali, oggetti
come idee, teorie come opere d’arte o d’ingegno. Un
“mercato” dei prodotti dell’attività umana è sempre esistito per il semplice
fatto che gli uomini si confrontano, pertanto fra questi esiste necessariamente
una “concorrenza”. L’idea della sfericità della terra è vittoriosa nella sua lotta con l’idea della
piattezza che la precedeva grazie al confronto, allo scambio di opinioni e di
prove. Il “mercato” ha deciso per la sfericità tramite un libero confronto fra
idee ma – è questo il dato da sottolineare – non impone ad alcuno di adeguarsi
forzatamente alla teoria della sfericità, restando ognuno libero di immaginarsi
a circolare su un plauteau. Ma le cose non vanno sempre così. L’idea
galileiana, ad esempio, di una terra che ruota intorno al sole non ha potuto
per lungo tempo disputarsi un suo posto sul mercato in quanto l’autorità
ecclesiastica possedeva il monopolio delle idee cosmologiche. Ecco un esempio
di infalsificabilità che ci serve a tracciare il limite che divide l’attività
deputata alla conoscenza (scienza
popperiana) da quella deputata alla conservazione dei miti (religione, psicoanalisi, marxismo,
arianesimo, ecc.). Le verità promulgate dal consiglio di Nicea sono ancora
vincolanti in ambito religioso mentre le idee mediche e scientifiche coeve sono
attualmente considerate dei miti ridicoli e bizzarri, superati dal veloce
scambio di idee, prove, esperienze, validazioni e falsificazioni che produce il
confronto. La conseguenza dei monopoli è l’imposizione d’autorità – in un
rapporto cioè di tipo verticale up-down e in una condizione di potere
contrattuale estremamente sbilanciato – di un limitato mazzo di beni e pertanto
di una drastica riduzione dell’offerta e della concorrenza con grave danno per
gli individui. La situazione di
rapporti di forza più sbilanciata in assoluto è quella che viene a verificarsi
nel regime statale. Lo stato è infatti monopolista dell’uso della forza per
cui, pur giustificandosi tramite l’
argomento della produzione di beni pubblici e della assicurazione del rispetto
delle norme di diritto, impedisce tanto l’offerta di detti beni da parte degli
attori di mercato quanto la spontanea produzione e distruzione di norme da parte dei cittadini, sclerotizzando la
propria limitata “offerta”, universalizzandola e, per di più, imponendola
coercitivamente (2).
*
Ritorniamo quindi
all’esempio dal quale si era partiti, quello della psichiatria. Lo
schizofrenico è colui che presenta idee “incongrue”, ossia non condivisibili,
non scientifiche in quanto non falsificabili. Dei buoni esempi di idee che
rispondono a questi requisiti potrebbero allora essere quella che l’ostia sia
il corpo ed il sangue di Cristo, oppure il
sentirsi membro del popolo eletto, o anche l’idea che Freud fosse uno
scienziato o ancora che esistano guerre umanitarie. Come è facile constatare a
fare di un’idea un delirio schizofrenico non è la sua infalsificabilità
popperiana in quanto simili idee sono attualmente sostenute da moltitudini di
uomini considerati in buona salute psichica pur essendo clamorosamente
rispondenti al requisito di infalsificabilità che le renderebbe razionalmente
da rigettare. Il criterio è quindi un altro ed è da ricercare nel “mercato”. Lo
schizofrenico esprime opinioni minoritarie, residuali, che escono sconfitte dal
confronto, non solo con le evidenze dei
dati oggettivi, ma soprattutto dal confronto con le idee della maggioranza. Se
nel mercato dei beni ogni acquisto è un voto che decide chi debba continuare a
possedere le aziende e chi no, in quest’altro mercato ogni idea è un voto che decide quale visione del mondo
deve continuare a sussistere e quale no.
Molti avversari della psichiatria hanno visto proprio in questo un
aspetto autoritario ed un elemento di pericolo. Riguardo a quest’ultimo non si
può che essere d’accordo se pensiamo alle conseguenze pratiche di una ideologia
che abbia fissato dei rigidi paletti a difesa della desiderabilità psichica e
comportamentale; ciò in considerazione
dell’assoluta relatività di detta desiderabilità che rende pertanto altrettanto
relativi i confini della “normalità”. Nelle cartelle cliniche degli ospedali
dell’ ex URSS
si trovano diagnosi
molto illuminanti in proposito come “mania riformista”, “paranoia ipercritica”, “sindrome antisovietica” e perfino
“ esaurimento nervoso indotto dalla ricerca esasperata di giustizia” .
Questo in un regime palesemente autoritario, ma nel nostro occidente fino a
pochi anni fa sui manuali diagnostici esistevano malattie come l’
“omosessualità” e ancora oggi l’ anarchico risponde piuttosto fedelmente ai
requisiti per un “disturbo di personalità”.
L’assoluto relativismo storico e culturale del concetto di normalità è un grosso limite alla
possibilità di verificabilità empirica dei concetti di salute e patologia
portati dalla psichiatria. Gli studi trans-culturali hanno evidenziato come
altre culture, ad esempio gli indiani d’ America, abbiano istituzionalizzato
quello che per noi è il comportamento schizofrenico. Ora, è qui il problema;
per un pellerossa molti comportamenti
“bianchi” sono patologici. Per fare un
esempio, il concetto di proprietà è per lui fuori da ogni logica. Egli ritiene
di essere “oggettivo” in questo suo giudizio non meno di quanto lo ritenga il
savio occidentale nel giudicare il folle.
Ma l’oggettività è un mito, con buona pace di Ayn Rand e di tutti gli
“anarco-capitalisti” oggettivisti che si abbeverano alla sua “fonte
meravigliosa” . Quando Popper fa il suo
discorso sulla falsificabilità dei costrutti lo fa in un’ottica per cui il
nuovo paradigma non è “oggettivamente” vero ma solo più verosimile, cioè più
adatto e funzionale come criterio esplicativo del mondo. Ma il mondo del navajo dell’Arizona e quello del ragioniere di
Viterbo sono diversi. I loro costrutti esplicativi e previsionali devono essere
ugualmente diversi. Questi costrutti non si producono a caso né sono il
prodotto di un individuo o di un gruppo di individui riunitisi per tale scopo,
bensì il frutto di “interazioni sistemiche”, ovvero quelle che nella “Teoria
Generale dei Sistemi” di Von Bertanlaffy, si chiamano “emergenze sistemiche”,
ossia qualità del sistema derivanti non dal lavoro di uno o più elementi ma dal
loro arrangiamento. Così l’acqua è qualcosa di molto diverso dalla semplice
somma di due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, essendo il prodotto delle
loro legature sistemiche (3). Le idee congrue di un sistema fanno parte di una
più generale “cultura sistemica” che nasce dal disordine come il sistema
stesso. Un sistema e la sua cultura sono un prodotto anti-entropico che deve la
sua esistenza proprio all’entropia, ovvero al disordine, grande utero di ogni
cosa. Senza “perturbazioni”, cioè disordine,
non ci sono incontri (ad esempio, di particelle sub-atomiche, di idee,
di merci) e senza incontri non si hanno aggregati (ad esempio atomi e aggregati
di atomi) e senza aggregati non si hanno sistemi (ad esempio, gli organismi
viventi o il mercato), cioè elementi in reciproca interazione dalle cui
“legature” emergono delle qualità sovra-elementari. Ora, ogni sistema tende all’omeostasi, cioè
allo stato stazionario, cercando di
frenare con dei meccanismi di feed-back
le perturbazioni che lo metterebbero in pericolo. Queste perturbazioni
costituiscono la “devianza”. Ma attenzione: se senza disordine non ci sono
incontri e se senza incontri non si costruisce ordine (sistema) il disordine
diviene dimensione necessaria all’ordine stesso; non solo, se non si immette sempre
nuovo disordine in un sistema questo diventa un sistema chiuso e collassa. In
altri termini, senza il disordine apportato dalla devianza non si hanno
“incontri”, crash di idee e di esperienze,
non c’è coscienza di temporaneità
e assoluta strumentalità dell’ordine, non c’è confronto e quindi non c’è
costruzione. E la libertà è costruzione e relativismo (per quanto ciò possa non
piacere a molti libertari randiani). Una condizione libera è un ordine
temporaneo i cui elementi siano coscienti della temporaneità della loro
improbabile condizione di previsionalità e siano, in quanto sistema,
costantemente tesi alla perturbazione e all’aumento di complessità (sistema
aperto). In questo caso un certo grado di disordine attivo è vitale. Condizione
di mancanza di libertà è quella dell’ordine che pretende di essere definitivo e
che mette in atto forti sforzi di retrozione dall’innaturale fine
anti-entropico (sistema chiuso). A fare la differenza fra le due condizioni è
il tipo di “giocatori” che li costituiscono.
Dove ci sono giocatori a somma zero c’è, o desidera di essere, un
sistema chiuso. Quando Jung osò introdurre nuova informazione (confusione) nel
paradigma freudiano il buon Sigmund lo espulse dal sistema (retroazione) e la
cosa si ripeté con Alfred Adler. Perfino peggio è andata a gente come Giordano
Bruno o Tommaso Campanella nel loro tentativo perturbativo di ben altro e ben
più “retroattivo” sistema. In conclusione, un sistema umano chiuso è portatore
di una cultura sistemica assolutistica, rispondente al criterio popperiano
della “infasificabilità, i cui elementi strutturali hanno la tendenza al gioco
a somma zero, con ciò che ne deriva per tutti i giocatori contro voglia. In un
sistema culturale chiuso l’ordine deve essere stabile perché “giusto” per motivi
ideologici e può mantenersi solo a prezzo di un enorme spreco di energia
diretta alla neutralizzazione del comportamento deviante (ipersoluzione),
il quale acquista tale attributo grazie
alla pericolosità per il mantenimento del sistema stesso. I dissidenti dei vari regimi di destra e di sinistra
sanno di cosa parlo. Il soggetto delirante – e rieccoci alla psichiatria – non
risponde a questo requisito di pericolosità, a meno che non si voglia
rovesciare il discorso e etichettare l’elemento pericoloso per il sistema come
soggetto delirante. Questo è quanto avvenuto nell’ex URSS con le diagnosi a cui
si è accennato ma, più che ad un discorso anti-psichiatrico, questi esempi
forniscono argomenti per un discorso anti-sovietico. Un sistema aperto è invece relativista perché è il mercato ad
esserlo.
In altri termini, la
devianza svolge una funzione fondamentale sia nel consolidamento dei gruppi
sociali sia nella loro evoluzione verso una sempre maggiore apertura e libertà.
Ciò si realizza grazie alla continua falsificazione dei costrutti tipici della
cultura sistemica in cui questa devianza viene a costituirsi come tale.
Questa falsificazione corrisponde al
concepimento di un nuovo sistema più “comprensivo” in termini di quantità di
dati prevedibili in una continua
mescolanza di costruzione e distruzione. Per questo processo è condizione
necessaria quella dello scontro fra una cultura (quella istituzionale) e
un'altra (quella “alternativa”). Ma una cultura dominante non si coagula e non
si definisce se non in opposizione alle idee che la mettono in discussione,
cioè se non contrapponendosi a ciò che in quel luogo e in quel tempo
rappresenta la devianza. La devianza, in un certo senso, definisce i confini del gruppo. Nel processo
di unione contro la devianza, cioè, il
gruppo trova i propri sentimenti comuni e ridefinisce il comportamento e le
idee “normali”. Positivo? Negativo?
Entrambe le cose. Negativo perché sancisce e dà “definizione” della condotta
appropriata e questo presuppone la staticità di questa condotta, una visione
data una volta e per tutte. L’idea dominante gioca quindi a somma zero. Ma
senza questa chiara delimitazione del normale che è il portato della critica
deviante non ci sarebbe neppure il confronto con l’idea nuova, quindi neppure
sviluppo del sistema tramite lo scontro fra paradigmi (4). E’ la devianza che
crea gli attori per coagulazione e gli attori creano la storia per contrasto.
Invece una società esclusivamente “accettante” non è altro che un gruppo umano
che persegue, per propria cultura, una ideologia che prescrive l’accettazione e
la cura. Un buon esempio è la “società degli amici” perseguita dai quaccheri,
gruppo umano che non ha brillato particolarmente quanto ad apertura mentale e
non ha fatto un passo in questa direzione negli ultimi tre secoli. Si può
obiettare che questo secondo tipo di società sarebbe comunque preferibile
perché “tollerante”. E’ un’idea diffusa fra molti “liberals” e anarchici che,
come Camillo Berneri, hanno definito la società libera come la “società della tolleranza”. Ma la società “tollerante” (cioè
“sopportante”) non metabolizza la critica deviante per trarne carburante del
mutamento, la fagocita e la annulla, non accetta l’idea ma accoglie la persona
sulla base di un dovere morale alla fratellanza e alla pace, termini
generalmente abusati da tutti i guerrafondai. La tolleranza diventa quindi l’
imperativo morale cui il comportamento degli individui deve
necessariamente conformarsi e non l’ effetto naturale di una cultura talmente
individualista che non sente neppure l’obbligo della accettazione dell’altro.
Nel primo caso non c’è confronto col deviante ma solo accettazione in una
società “giusta” in base a valori stabiliti di cui la maggioranza è depositaria
in forma monopolistica (una delle tante manifestazioni del “Bene”), nel secondo
caso si sta parlando della cultura di una (vera) società di mercato in cui
tutti gli individui non coinvolti in una questione non vi partecipano neppure
nel ruolo di “tolleranti”. Un’altra obiezione in qualche modo a favore del
quaccherismo potrà venire dall’irriducibile individualista che manifesta la
propria totale indifferenza ai valori che emergono dal sistema e non ha alcun
interesse a conoscerne i confini o a perturbarlo come a modificarne le
strutture ed i vincoli. Gli importa solo la propria libertà in totale
noncuranza per il contesto; per lui l’anarchismo è uno stile di vita, non una
strategia sociale. Questi non si rende conto che la propria individualità da
salvaguardare lo è solo in rapporto ad un sistema, che pertanto ogni azione di
autonomia che egli mette individualisticamente in atto è già una perturbazione
di detto sistema (di valori, di rapporti, di convenzioni, ecc.) e, viceversa,
che ogni perturbazione del sistema ha sempre come ricaduta l’ aumento dei suoi
gradi di libertà. Non è necessario che
egli abbia una visione strategica e sociale della lotta all’esistente perché la
sua autoaffermazione è già una mossa ostile verso la struttura data, anzi è
proprio il conflitto portato autonomamente dalle singole individualità (aumento
d’entropia, che appunto è per definizione non organizzata) a produrre i maggiori mutamenti. Per far questo
è però fondamentale non essere “tollerati”.
Così il gregge del Signore riaccoglie sempre la pecorella, non perché
sia convinto che la pecorella abbia legittimamente agito in base alla propria
propensione individuale ma perché il gregge trae da questa accettazione senso
di unità (rafforzamento del gruppo) in accordo con i precetti di tolleranza
della cultura sistemica, senso di vittoria (il gioco è a somma zero) e di
superiorità, nonché disinnesco del dissenso. Se infatti il dissenso non si
disinnescasse e perdurasse nella sua potenzialità distruttiva dell’omeostasi
sociale, la società degli amici smetterebbe di essere così amichevole e non
potrebbe più pretendere di definirsi quacchera. La classica società quacchera è
quella del socialismo libertario di Kropotkin, Bakunin o Tolstoj. Nella pacifica società che abbia
abolito la proprietà privata (ipersoluzione) l’accaparratore di risorse (cioè
il proprietario) si configurerebbe come deviante con consequenziale – in senso
logico e temporale – repressione di questo
e perdita delle qualità di “pacifica”,
“tollerante” e “libera” di quella (la società “anarchica”). Questa non è
una società libera, fondata sul libero scambio, ma una società che vuole
imporre in un gioco a somma zero (tutto quello che la proprietà conquista il
socialismo lo perde e viceversa) il “Bene” deciso da alcuni, fossero pure la
maggioranza, agli altri. Se invece la scelta socialista fosse realmente condiva
da tutti, come sognato dagli anarchici storici, ci troveremmo in un socialismo
deciso dal mercato all’unanimità.
Il sociologo
Lewis Coser, teorico del conflitto, discrimina quindi una devianza strumentale,
quella del rivoluzionario, dell’inventore, dello scienziato o di chiunque
esprima idee originali nella prospettiva di migliorare il sistema previsionale,
la mappa del mondo, ed una devianza non funzionale che, potremmo dire, non mira
praticamente a nulla perché non è autocosciente. E’ il caso della devianza
psichica. Il paranoico non porta una nuova teoria da immettere sul libero
mercato delle idee ma segue una logica autistica e personale, assolutistica ed
infalsificabile come un dogma di fede. Non produce perturbazione alcuna perché
non si pone quale interlocutore di chi segue un’altra logica. Il famoso
super-individualista – quello che prima manifestava la sua avversione per
l’anarchismo strategico – potrà dire che comunque quell’uomo va lasciato libero
di “manifestare se stesso” e vivere sé ed il mondo come vuole, senza
intromissioni di altri. Trovo questa posizione in linea di massima condivisibile.
la libertà
è la madre e non la figlia dell’ordine (P. Proudhon)
3. Autopoiesi e organizzazione
Ricapitolando, in un
“socialismo volontario” alla Bakunin il proprietario sarebbe un deviante perché
porterebbe ad un livello tale di perturbazione da attivare un meccanismo retroazione,
pena la fine del sistema. Cosa che è il grosso tallone d’Achille
dell’anarcosocialismo. Ritenere giustificabile la retroazione omeostatica della
società socialista e illegittima quella della devianza psichica in una
qualunque società vuol dire utilizzare due pesi e due misure. Tutte le società
hanno delle devianze, ma possono avere le devianze che vogliono, meglio, tutte
le devianze prevedono delle società. Non c’è “sindrome antisovietica” in
mancanza dell’Unione Sovietica. Più che lottare contro l’etichetta deviante
sarebbe opportuno lottare contro il tipo di
società che questa etichetta incolla. Il miglior sistema è la “devianza
autocosciente”, ad esempio un atteggiamento “antisovietico” o semplicemente –
somma devianza – l’abominevole pratica dell’individualismo. Si è infatti visto
come l’ordine imposto (sistema tendente alla chiusura) convogli attivamente le
proprie energie verso pratiche di perpetuazione dell’omeostasi ma come tale
ordine imposto crolli non appena i meccanismi retroattivi vengono meno, mentre
il disordine, tramite incontri e creazione di vincoli, strutturi in totale
autonomia degli ordini funzionali che non necessitano di alcuna spesa per
mantenersi e che, senza ulteriori sforzi, passino ad altri livelli
organizzativi grazie all’immissione di nuovo disordine. Questo avviene, per
esempio, nel mercato. In un sistema umano, infatti, il fenomeno di retroazione si vede all’opera
tanto più palesemente quanto più il sistema tende alla chiusura. Quanto più un
sistema è aperto (cioè capace di introiettare input in gran quantità traendo da
ogni perturbazione che questa informazione porta con sé carburante per una
nuova e più ricca articolazione) tanto più il concetto di devianza perde senso
acquistando solo quello di opzione fra le tante prodotte dal mercato. In altri
termini, non esiste la devianza nota come “omosessualità” se non esiste una
società omofoba come non esiste una diagnosi come “sindrome antisovietica”
senza l’Unione Sovietica, cioè se non esiste un gruppo influente di individui
giocatori a somma zero che intendano e possano imporre la loro verità fuori da
una logica di mercato. Ferma restando l’universalità della devianza, e quindi
dei vari sistemi di gestione della stessa, il vero problema è il tipo di
società che la etichetta in tal modo. La
lotta va diretta verso i sistemi chiusi più che verso i loro strumenti, perché
in un sistema aperto e di libero scambio questi strumenti non verrebbero
attivati fuori da una logica contrattuale (5).
Qualcosa di molto simile
è stato espresso dal miglior allievo di Von Mises, Friederick A. Von
Hayeck. Riprendendo Hume, Hayeck
contrappone l’ordine spontaneo all’organizzazione. Mentre l’organizzazione
necessita infatti di una “mente” ordinatrice, tra l’altro sempre arbitraria
nella definizione della “giusta” organizzazione, l’ordine spontaneo è retto da
leggi che si formano nell’ambito stesso del gruppo per “autopoiesi”. L’idea di
una organizzazione centrale di un vasto numero di individui è irrealizzabile
perché si parte dal fallace assunto di una società come un tutto organico
dotato di una propria razionalità e una propria motivazione quando motivazioni,
conoscenze e capacità sono disperse fra milioni di individui differenti
per cui possono emergere solo dal libero confronto, cioè tramite un meccanismo
“di mercato” che strutturi spontanei ordini funzionali. L’ ordine dal
disordine. Così sono nate tutte le istituzioni sociali, dal linguaggio al
diritto, cioè attraverso lo scambio (“disordinato”) di conoscenze, beni, idee,
servizi. Tutte le società che hanno perseguito una perpetuazione del libero
confronto e si siano rette sul continuo afflusso di dati nel sistema si sono
espanse, arricchite e articolate sempre più riuscendo ad inglobare sempre
maggior informazione senza mettere in atto forti retroazioni. Per contro, tutte le società chiuse e
pianificate si sono estinte. Queste ultime sono le società autoritarie, quelle
rette da uno stato forte o teocratiche. Qui è interessante una doppia
valutazione che sovverte i giudizi del
comune “buon senso” filo-statalista. Innanzi tutto, l’etero-organizzazione -
contrariamente al pensiero comune che ritiene l’auto-organizzazione possibile
solo nei piccoli gruppi ma impossibile per i grandi aggregati che quindi necessiterebbero di
strutture imperative come lo stato - è
possibile solo per piccolissimi gruppi in cui si conoscono tutti gli individui
e in cui conoscenze, motivazioni, caratteristiche personali e valori sono condivisi ma è praticamente
impossibile per ampi gruppi umani, a meno di non avere in mente un piano
totalitario comunque destinato, come visto, alla estinzione. In secondo luogo,
pur ammettendo una unità organica del consesso sociale, uno stato dovrebbe
essere il frutto di un contratto sottoscritto da tutti gli individui, cioè di
una unità d’intenti (cosa che non è). Come ogni patto, lo stato dovrebbe quindi
essere revocabile in qualunque momento. Invece lo stato è considerato
assolutamente necessario perché l’alternativa sarebbe il ripiombare della
società nello stato di natura hobbesiano in cui l’uomo dimostra tutta la sua
scarsa propensione alla cooperazione ed uno stile di vita votato alla
sopraffazione. Non solo la teoria dei giochi ci dimostra la fallacia di questa
idea che ignora che tutto quanto esiste è prodotto assolutamente autopoietico
come la strana guerra delle Fiandre ( ad eccezione dello stato che origina
proprio da quella tendenza alla sopraffazione di cui sopra), ma, soprattutto,
questa idea contrattualistica è assolutamente contraddittoria perché basata su
un giudizio altamente negativo dell’uomo e delle sue capacità, cosa che gioca
assolutamente a sfavore dell’idea di investire una piccola parte di questi
inaffidabili uomini di un potere immane di controllo e direzione. Tra l’altro
non si capisce come esseri così poco collaborativi abbiano ad un certo punto
deciso di sottoscrivere un patto universale, totalizzante ed eterno come lo
stato.
il tutto è
incerto
(E. Morin)
4. normalità di mercato. Oltre il
giusnaturalismo
In definitiva, autopoietico è pure il processo di
costruzione dei sistemi di significato degli individui di una data cultura
nonché la strutturazione del loro stile comunicativo. La “normalità” è un
prodotto del mercato come la lingua o il folklore. In altri termini, il rischio
di “normalizzazione” è presente ma paragonabile a quello che “corre” lo
straniero che decide di vivere in un paese di cui non conosce la lingua. Può
decidere di non comunicare ma ciò gli creerà notevoli limiti e problemi, può
decidere di imparare la lingua del paese ospitante (cioè di venire
“normalizzato”) oppure decidere di parlare solo la sua lingua patendo però l’
incomunicabilità e i fraintendimenti che derivano da questa scelta. In pratica
lo schizofrenico è quello straniero. Ciò non risolve la questione dell’
autorità. Anche questo problema è in parte vero perché la scelta della maggioranza
è un atto di autorità ma è un’ obiezione valida per qualunque scelta perché,
per quanto individuale, ciò che conta per il successo di un’opzione è il dato collettivo che la trasforma sempre
in un voto a maggioranza (ad esempio, i consumatori hanno premiato Microsoft e
bocciato la concorrenza), quindi in una dittatura della maggioranza (sempre a
mò d’esempio, gli indici d’ ascolto televisivi premiano dei programmi
deficienti imponendoli anche allo spettatore più raffinato che gradirebbe
intrattenimenti più elevati). La vera differenza, però, fra una “dittatura”
della maggioranza realizzatasi in uno spazio istituzionale che ne sacralizza
gli out-puts facendone obbligo per tutti e la decisione a maggioranza in un
ambito libero come il mercato è che la minoranza non viene realmente costretta
ad obbedire ad alcunché. Lo spettatore coltivato, in altri termini, può
adattarsi alla tv spazzatura come
spegnerla saggiamente per sempre, ma, ancora, può abbonarsi ad una tv
tematica, persino associarsi ad altri per realizzare un canale culturale, dar
luogo ad una crociata anti-televisiva e boicottarla, ecc. Pur nella montante prevalenza del cretino può
ritagliarsi uno spazio autonomo ed autogestito che rimane assolutamente non scalfito
dalla banalizzazione della produzione imperante (la versione colta delle “zone
temporaneamente autonome” di Akim Bey?). Il problema, ancora una volta, si ha
quando lo scambio non avviene nella piazza del mercato ma in uno spazio
istituzionale che, in quanto appunto istituzione, è sacro e, in quanto sacro,
sacralizza tutto ciò che tocca o che da lui emana e, in quanto emanazione della
sacra istituzione, va imposto e rispettato da tutti. E’ il caso dell’enciclica
papale, emanazione del Santo Padre, rappresentante in terra di altra sacra autorità,
ma anche delle leggi dello stato, emanazione di altrettanto sacra ed
altrettanto vaga autorità, quella del “popolo” (per mezzo dei suoi
“rappresentanti”) in accordo con le sacre scritture costituzionali. Tutto ciò
rappresenta la morte del mercato come qui inteso. E’ interessante notare come,
nell’uno e nell’altro caso, i “giudizi” e le “norme” emanate pretendono di
imporsi in modo imperativo anche a chi non ha dato esplicito assenso né alle
norme né alle entità di emanazione delle stesse. Le leggi cristiane pretendono
di essere imperative anche per i non cristiani (si vedano le questioni
dell’aborto o del divorzio) e quelle dello stato anche a chi le trova
assolutamente ingiuste (tassazione obbligatoria, coscrizione obbligatoria,
ecc.). Ma l’assurdo non finisce qui. Si consideri la non infrequente situazione
di un referendum popolare in cui i cittadini siano chiamati a esprimere una
preferenza fra due opzioni si/no. Accade molto spesso che l’elettorato si
spezzi in due, come avvenne in Irlanda col referendum sul divorzio, nel 1995.
In quell’occasione ben metà degli irlandesi si sono visti imporre un sistema
familiare che non condividevano per un numero veramente esiguo di voti . Questo
dato rende l’idea dell’assolutismo di un
sistema normativo fuori dal contesto del “mercato”. Il fatto da notare, però, è
che mentre i “non divorzisti” , giocatori “a somma zero” guidati da una morale
che deve imporsi all’universo mondo, intendono obbligare anche chi non è d’
accordo con loro al rispetto dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale, i
“divorzisti” esprimono solo un giudizio personale e non pretendono di imporre a
nessuno di divorziare se non lo vuole fare. L'esempio è utilissimo per rivelare
il carattere autoritario tanto dei sistemi di diritto “unitari”, che si
impongono cioè su base territoriale trattando gli individui come “pertinenze”
della proprietà dello Stato (situazione di morte del mercato), quanto delle
missioni morali (iper-soluzioni) di chi pretende di possedere il monopolio del
Bene e del Vero da imporre in giochi a somma zero. E’ altresì evidente come ben
si sposino le due cose, cioè come un sistema di monopolio statale del “giusto”
sia funzionale ai gruppi umani monopolisti perché entrambi pretendono – e lo
Stato ha il potere di farlo sul serio – di imporre il proprio volere agli
altri.
L’esempio della lingua
non è stato casuale perché si tratta di un classico prodotto culturale
autopoietico, ossia prodotto del libero lavoro congiunto di un gruppo culturale
acefalo. Nessuno si è mai seduto a tavolino col chiaro intento di inventare
termini e regole sintattiche della lingua italiana. Nel senso allargato
descritto sopra, una lingua è un prodotto del “mercato”. Similmente nessuno ha
mai organizzato lo stock di idee plausibili in una data cultura. Lo psicotico
non si ribella contro nessuno, è solo una persona non in grado di comunicare e
di essere compresa nel proprio ambito culturale, pertanto un individuo privo
della prima libertà, quella comunicativa e relazionale. L’uomo che si ostina a
punirsi per un delirio di indegnità o che è costretto a compiere estenuanti
rituali coatti è vittima dei propri costrutti disfunzionali esattamente come un
“primitivo” è vittima di infasificabili teorie sulle energie e le divinità
della natura. In scienza il passaggio da
un “paradigma” ad un altro avviene modificando i costrutti. Siamo tutti molto
bravi a farci partigiani di questo empirismo “liberale” quando si tratta di
contrastare gli stupidi miti ideologici. Non si capisce perché invece quando a
palesare idee siffatte sono gli individui singoli queste teorie assolutistiche
debbano essere ammirate come espressione di purezza e libertà. Strana logica:
le idee non validabili sono pregiudizi e patologiche se collettive ed
espressione di salute se individuali! Portare avanti idee non validabili non è
segno di salute né è particolarmente liberatorio, anzi tutte le idee non
rispondenti ai criteri di falsificabilità sono apportatrici di idee derivate e
di pratiche assolutistiche e costrittive. Buoni esempi ne sono il fascismo, il
nazismo, l’inquisizione, il comunismo. A questo punto portare un individuo alla
capacità di falsificare i propri costrutti, non per adattarsi ad altri
preconfezionati che sarebbero “reali”, ma per permettergli di svilupparne di
nuovi più flessibili, in grado di adattarsi alle contingenze e di farlo vivere
in grado di scegliere le proprie azioni in base a questi e non in base ad un
costrutto rigido significa liberarlo. Lo schizofrenico è libero solo di
scegliere la sua gabbia (6). Piuttosto che lottare per la psicotizzazione della
maggioranza, bisognerebbe lottare per la distruzione dei residui di
infalsificabilità ideologica che esistono nella maggioranza. I recenti sviluppi
“costruttivistici” della psicologia cognitiva, tesi ad eliminare per sempre la
teoria assolutistica di un “universo” oggettivo e a sostituirla con l’idea
libertaria di un “multiversa” (Maturana) che dia dignità alle costruzioni
individuali di significato dovrebbe essere guardata con attenzione da ogni
libertario non sprovveduto, che non voglia lasciare colui che, per comodità,
chiamiamo lo psicotico (ma anche il “nevrotico”) libero di sguazzare nella sua
prigione né lasciare la psichiatria alla mafia dei farmaci neurolettici ed
all’elettroshock.
Ciononostante, in linea
puramente teorica e in condizioni di libertà, niente e nessuno vieterebbe ad
una comunità che condividesse idee fortemente bizzarre e minoritarie di
costituirsi e reggersi su proprie condivise e ricontrattabili regole. Questo
dal punto di vista della coerenza interna del paradigma libertario. La potremmo
immaginare come una secessione dalla psiche dominante. Se io pertanto esprimo
un’idea “bizzarra” come quella per cui la fine del mondo è alle porte, nel mio ambito culturale esprimo un’idea
fuori mercato, non accoglibile dalla maggioranza (a meno che io non sia un
testimone di Geova…) ma, non ledendo alcuna libertà altrui – non producendo
cioè esternalità” - , non dovrei neppure essere indotto ad adattarmi alla idea
prevalente. Questo a meno che la mia affermazione non venga fatta in un sistema
di sacralizzazione del monopolio come descritto sopra. Seguendo la stessa
logica, però la persona sofferente psicologicamente che, in un libero rapporto
di mercato, contratta una terapia, qualunque essa sia, con un terapeuta di un
qualsiasi indirizzo sta dando luogo ad una transazione durante la quale tutti
gli individui non coinvolti si astengono dal voto e che quindi dovrebbero anche
astenersi dall’esprimere giudizi. Le pratiche terapeutiche sono fra le mille
offerte prodottesi autonomamente nel mercato e rispondenti ad una pressante ed
altrettanto autonoma domanda, cosa che anarcocapitalisti avversi alla
psichiatria come Thomas Szasz tendono sorprendentemente a non valutare.
Dimenticare questo significa atteggiarsi a moralisti giocatori a somma zero e
non valutare che più del novanta per cento del disagio psichico non appartiene
alla categoria delle psicosi, cioè delle patologie non autocoscienti. Un
depresso, un ansioso, un ossessivo-compulsivo, una bulimica, ecc. vivono una
profonda sofferenza e sono legittimamente disposti ad acquistare sul libero
mercato quanto il mercato offre. E’ ben strano, ad esempio, che la cultura anti-proibizionista che accomuna libertari di “destra” come di
“sinistra” si scontri spesso con un atteggiamento censorio e moralista di
fronte ai comuni ansiolitici. Ognuno può fare ciò vuole col suo corpo e la
propria mente. Ma c’è il discorso dello
psicotico delirante. Si è detto che in un’ottica libertaria è libero di
pensarla come vuole. Il fatto è che quest’individuo produce comunque
esternalità anche quando non si esprime
in atti di particolare rilievo; ad esempio i sui familiari soffrono
costantemente nel vederlo completamente dissociato da loro, dal mondo e dalla
logica. Falliti gli eventuali tentativi di convincerlo ad un trattamento
antipsicotico cosa resta? Secondo una buona maggioranza dei “libertari” che ho
incontrato la risposta è la più assurda delle ipersoluzioni: la iper-soluzione
del non far nulla. Il “sommo bene” sarebbe
la libertà, ovvero il lasciar correre le cose come vanno perché è nella
loro natura. Una delle tante forme del “cretinismo anarchico”. Qui c’è un
errore di fondo, cioè la confusione fra libertà e mancanza di azione, stasi. Un
laisser faire di tal genere apporta la stessa libertà di cui gode una macchina che si muove in discesa per inerzia.
Il pregiudizio che è alla base è che tutto ciò che si muove è libero e deve
essere lasciato libero di muoversi nel rispetto della suo programma di
esistenza. Ma il presupporre un progetto di vita significa dare per scontato
che il “primo motore”, la spinta di ogni
azione sia razionalmente ed autonomamente causata, oppure “naturalmente”
determinata, cioè per “leggi” naturali. Ma è proprio grazie all’alibi delle
“leggi naturali” che si sono giustificati secoli di sfruttamento e
autorità. La macchina rovina giù per la
discesa per motivi fisici (pendenza) e meccanici (mal funzionamento del freno a
mano) assolutamente non inclusi nel
programma di costruzione. Il programma presuppone la possibilità di muoversi
lungo la discesa, si, ma per decisione
autonoma. Data questa condizione libertà vuole che si lasci fare; in condizioni
invece tali per cui le cause di una data condizione (povertà, sudditanza,
espressione di idee incongrue, ecc.) non sia
da attribuire alla libera scelta dell’individuo ma a motivi fuori dalla
sua volontà, tanto casuali (deficit cognitivi, scarso sviluppo di capacità
pragmatiche o relazionali, ecc.) quanto volute (il sistema di monopolio e
sfruttamento capitalistico, ad esempio) la libertà necessità di una azione
concreta per potersi dare. Un’azione di contrasto dei vincoli. La psicoterapia
e alcune altre pratiche psichiatriche possono, date certe condizioni, esserlo.
Una eventuale “terapia” che riuscisse desclerotizzare le visioni
popperianamente infalsificabili dello psicotico avrebbe, per esempio, solo la
funzione di liberarlo. Ma nei casi in cui il “paziente” non vuole essere
liberato più di quanto lo volessero i cubani alla baia dei porci, a chi spetta
la decisione? Alle agenzie psichiatriche private? Ma fra agenzie private e
fruitori vanno stipulati dei contratti che prevedano la possibilità di
trattamenti coatti in situazioni estreme. Il punto è stabilire chi sono i
fruitori. Non potendo essere i pazienti “in crisi”, potranno essere i pazienti
prima di iniziare la loro carriera psichiatrica? Quindi ognuno di noi potrebbe
sottoscrivere un’assicurazione con un’agenzia per premunirsi contro i rischi di
follia. Sarebbe ben strano che si diffondesse
questa usanza data la tendenza degli umani a sottostimare il proprio
rischio al riguardo, a meno di non rendere la cosa obbligatoria e quindi il
venire meno della facoltatività e della libera scelta. Diverrebbe una tassa
come quelle statali. Quindi il contratto potrebbe essere stipulato fra servizio
psichiatrico e familiari del “paziente” designato. In questo caso balza in
piena evidenza che i veri fruitori del servizio sono i familiari, sia in senso
“buono” (sono loro i veri “sofferenti” per la situazione e vogliono far del
bene al loro caro anche contro la sua volontà) che “cattivo” (si possono
liberare temporaneamente del soggetto fastidioso). Ciò non modifica la
questione centrale: il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) è una
privazione di libertà senza il consenso del soggetto. Cosa può quindi dargli
legittimità in un’ottica libertaria? L’utilità (per chi poi ci sarebbe da
discutere a lungo) che ne scaturirebbe? Chi promulga questa norma? Verrebbe
messa in atto comunque anche nel caso in
cui non esistesse un contratto sottoscritto fra agenzie psichiatriche e
familiari dei “pazienti”? Se la risposta fosse si si cadrebbe in uno dei vicoli
ciechi del libertarismo rothbardiano. Ci sarebbe insomma un “padrone”
legislatore fuori dal mercato. Questo è quello che avviene oggi nella
situazione in cui lo stato, vero padrone del territorio nazionale e degli
individui che si trovano per ventura a calpestarlo, svolge questo ruolo ma, nell’ottica di Rothbard, anche in assenza
dello stato, il proprietario di un territorio sarebbe signore assoluto, padrone
cioè anche di promulgare leggi implicanti coercizione verso gli individui. Non
si capisce allora la differenza che esisterebbe con uno stato. Ma la
contraddizione arriva molto più in profondità: In un’ottica giusnaturalistica lockiana,
Rothbard ritiene che per un uomo la
proprietà del proprio corpo sia un dato naturale ed evidente di per sé. Quindi
delle due l’una: o lo psicotico che viene coattivamente privato della libertà
non è un uomo, oppure la proprietà del proprio corpo (o la proprietà tout
court) non è un apriori dato ma il frutto della condivisione, cioè, ancora una
volta del mercato. E’ il mercato che decide cosa è proprietà legittima e cosa
non lo è, perfino quella che i giusnaturalisti ritengono di per sé evidente. Ma
proprio se l’obiezione arriva fino alla più “lampante” e basilare delle proprietà, quella di se stessi, tanto
più il discorso vale per tutte le proprietà derivate, dal frutto del proprio
lavoro fino alla rendita o ai beni ereditati. La legittimità di tutto ciò va
costantemente deciso dalle persone che ne subiscono qualche tipo di
esternalità, ossia che siano in qualche modo coinvolte nelle cose. Questo è
mercato. Lo stesso Rothbard, preso da una stana foga rivoluzionaria, è arrivato
a parlare della legittima possibilità di confische dei latifondi improduttivi,
per quanto “legittimamente” acquisiti.
Dal mercato può venire fuori anche il socialismo. E’ il nostro rapporto
col mondo che decide cosa il mondo sia. Siamo noi che diamo significato ad un
mondo in cui l’ oggettività è mito, pertanto la legittimità di qualcosa non può
essere oggettivamente dimostrata ma valutata caso per caso e decisa
strumentalmente (utilitaristicamente, direi..) nell’unico modo a disposizione
che non rischi di sclerotizzare e universalizzare queste legittimità: il
mercato.
per
raggiungere il punto che non conosci / devi prendere la strada che non conosci (San
Giovanni Della Croce)
conclusioni
Questo strano e poco
lineare excursus nella e intorno alla psichiatria è stato puramente
strumentale. Si è fatto uso del soggetto “privo di razionalità” come espediente
per mettere in luce alcune aporie del pensiero libertario in un discorso in cui
chi scrive ha assunto il punto di vista di chi vede nello psicotico la caricatura di ciò che lo
stato vede nel cittadino: un uomo senza diritti, una propria pertinenza, tanto
che può decidere sulla sua sorte. Ciò per mettere in evidenza, non
l’arbitrarietà delle cure psichiatriche, bensì l’arbitrarietà delle “cure”
statali. Non si è voluto cioè
assimilare, come in genere fanno i libertari, lo schizofrenico al
generico individuo e difenderne pertanto la “libertà” dall’autorità
psichiatrica, bensì facilitare l’accostamento operato dallo stato fra “cittadino”
e “irrazionale”, “incapace”. Il discorso non mira quindi certo a legittimare l’ abuso psichiatrico, rischio
sempre dietro l’angolo, bensì a delegittimare l’abuso statale, che non è un
semplice rischio ma un fatto sempre attivo. Paragonare la psichiatria, braccio
della maggioranza “razionale”, allo Stato serve a notare alcune analogie di “comportamento”, con la
differenza che la prima si mette in moto solo in due condizioni: esplicita
richiesta volontaria del “paziente” o evidente condizione di disfunzionalità
con esternalità negative tanto per il soggetto quanto per terzi. Lo stato
agisce invece sempre. Il vero sfruttato,
più che lo psicotico dalla psichiatria è il cittadino dallo stato, casta totalizzante esclusa, esattamente come quella
psichiatrica, dall’onere della reciprocità del trattamento e che sottopone
quotidianamente i suoi sudditi – di cui si suppone la sanità mentale fino a
prova contraria - a trattamenti coatti.
Il cittadino, quando non è una risorsa
da sfruttare, è un bambino, un minore, un incapace da guidare, come il paziente
psichiatrico. L’istituzione è la fuori, nel mondo fuori dal manicomio e dal
carcere, quello che molti sono abituati a pensare libero. Sulla strada per
giungere a questo si sono incontrati molti “totem e tabù” del pensiero
libertario socialista (psichiatria, proprietà, mercato, devianza, ecc.) e
capitalista (psichiatria, relativismo anti-oggettivista, fallacia dell’idea
giusnaturalistica della proprietà, ecc.) e si è colta l’occasione per rivederli
e rivalutarli in un’ottica alternativa tale da renderli “difendibili” al di là
dell’imperante “buon senso” di cui sono apostoli e depositari quei dissennati
intolleranti che si definiscono libertari. Roba da far tremare i polsi a
Block…..
_____________________________________________
[1] In particolare, Popper racconta di un
incontro con Adler, teorico di una setta eretica analitica, quella della
psicologia individuale, elemento questo che ci fa capire la natura
eminentemente "chiesastica" delle dottrine non falsificabili, a cui raccontò di un caso che l’analista non
ebbe difficoltà a leggere in base alla sua teoria sui sentimenti di
inferiorità, senza neppure vedere il soggetto. Sconcertato, Popper gli chiese
come poteva essere così sicuro e Adler gli rispose: “a causa della mia
esperienza con mille casi simili”. Popper concluse, un po’ sprezzantemente, “e
con questo ultimo, suppongo, la sua esperienza vanta milleuno casi”.
[2] Se un privato viene da me e mi dice
“ti offro un servizio, che tu lo voglia o no, e mi devi pagare” – osserva David
Friedman – parliamo di estorsione; se uno stato fa la stessa cosa si chiama
tassazione.
[3] Il fenomeno è anche molto studiato in
psicologia della percezione dove le unità complesse organizzate prendono il
nome di Gestalten.
[4] Qui si sta semplificando in quanto
Lakatos ha dimostrato che la conoscenza non evolve marxianamente per un
processo dialettico di “tesi, antitesi e sintesi” secondo il paradigma di Kuhn,
bensì per “rotture epistemologiche”. Ciò
non toglie che conditio sine qua non rimanga l’opposizione dei paradigmi.
[5] Qualche ingenuo anarcoide che volesse
obiettare qualcosa riguardo al permanere del concetto di devianza anche nella
società anarchica farebbe bene a darsi una scorsa alle proposte molto
pragmatiche portate nel corso del tempo dai vari pensatori anarchici per la
gestione della devianza. Potrebbe stupirsi nello scoprire, ad esempio, un
Errico Malatesta fautore delle ronde notturne in stile ex Germania dell’Est e
un Proudhon che non escludeva la possibilità della pena di morte..
[6] Von Glaserfeld ci fornisce l’esempio
più chiaro di cosa comporti l’adozione di questa visione scevra da utopie e
missioni: egli mette a confronto i termini match (“corrispondenza”) con fit
(“adattamento”). Il realista cerca una conoscenza che corrisponda alla realtà (quello
che conosco è una copia identica di ciò che è fuori) ma se diciamo invece che
una cosa è adatta, ciò corrisponde ad una diversa relazione: “una chiave è
adatta se apre la serratura. L’adattamento descrive una capacità della chiave,
non della serratura. Grazie agli scassinatori di professione, sappiamo anche
troppo bene che esistono molte chiavi che, pur avendo delle forme molto
differenti dalla nostra, aprono le nostre porte”. Insomma, questo non ci dice
niente sulla serratura, su chi l’ha costruita e su come sarebbe meglio
modificarla. Ancora, ci può solo dire se una chiave sia “non adatta”, ma non
detta leggi su quale sia la chiave ideale.