Luigi Corvaglia
il cretinismo anarchico. Aggiornamenti
(ovvero perché non sono
anarco-capitalista; perché gli anarco-capitalisti, spesso, non sono anarchici;
perché gli anarchici, talvolta, sono fascisti)
Le volpi sanno molte
cose,
ma il riccio ne sa una
grande.
Archiloco
Le malelingue
del villaggio globale
Confesso che ho molto
peccato. Ovunque una ortodossia si sia palesata pretendendo indiscutibilità, ho
discusso. Confesso di aver peccato in tutti i modi canonici: in pensieri,
parole, opere ed omissioni. Ho peccato contro la Chiesa, lo Stato e la
Democrazia. E mica ho finito. Ho peccato contro le religioni e le ideologie e
perfino contro l’ideologia anti-ideologica che ci ostiniamo a chiamare
anarchismo. I miei ventisette lettori ora si chiederanno il perché di un outing
così suggestivamente pregno di spirito congregazionale, da confessione pubblica
di setta riformata. A chi interessa? Beh, intanto a me. A nessuno piace l’idea
di essere trovato cadavere in una posizione poco dignitosa. Nessuno gradisce la
sconveniente condizione di essere oggetto delle malelingue che
pettegolano ad libitum confortate dalle supposte imbarazzanti situazioni
in cui si sarebbe stati colti. Ogni “deviazione” o “relazione incongrua”
secondo il catechismo vigente risulta utile alle allegre comari e facile
bersaglio per il bigottume corredato di quelle madri sempre prone
all’inseminazione e sempre degne di attenzione eugenetica. Pertanto, vorrei
evitare, nel caso il mondo restasse improvvisamente “orbo di tanto spiro”, di
fornire occasione per il chiacchiericcio che già talvolta produce un fastidioso
brusio nelle sacrestie dell’ anarchismo “de noantri”. Bisogna fare chiarezza
per non dare adito a pettegolezzi che superino la reale entità dell’infrazione.
Quindi lo dico: si. Ho avuto relazioni contro natura con il pensiero altrui! E
mi è piaciuto. Ho perfino cercato di trovare quanto di buono potesse esserci. E
l’ho trovato! Per esempio, ho letto Rothbard e Friedman, anche qualche altro
membro della casta di intoccabili (da parte dell’elite dei comunisti sedicenti
anarchici) stupidamente definita “anarco-capitalista”; talvolta, non
pentito, mi intrattengo ancora con alcuni di questi paria. Chi tocca un
intoccabile diventa intoccabile anch’egli, per un fenomeno simile a quello che,
in una stramba liturgia, tramuta il vino in sangue, anche per chi emana olezzo
di vespasiano. Infatti, ci sono dei signori che, pur non avendo la minima idea
di ciò che gli altrettanto bislacchi anarco-capitalisti propagandano, ritengono
intellettualmente degno pontificare e emanare scomuniche contro questi supposti
fautori del capitalismo da rapina, protettori dello status quo di sfruttamento
e contro “chi non glielo dice” (come si esprimono a Roma). Ora, rientrando il
sottoscritto nella seconda categoria (quelli che, secondo loro, non glielo
dicono e, anzi, fraternizzano), per spiegare il reale motivo di uno scritto
altrimenti autoreferenziale, vorrei far notare un paio di cosette, tre. Quattro
al massimo. Innanzitutto, vorrei spiegare perché parlare di sushi con un
giapponese in giapponese non mi rende giapponese, né mi fa abiurare alla
carbonara. Di certo, però, mi permette di aumentare la lista di possibili
opzioni per la cena e di parlare di pesce con maggior competenza di chi del
pesce sa solo che puzza. In secondo luogo, ci tengo a sottolineare che il
rifiutare di conoscere il giapponese (o il sushi) non fa più italiano (o
più buongustaio), ma solo più limitato. Poi vorrei rispettare il sottotitolo di
questo scritto e spiegare i motivi per cui i vari pontefici dell’ ecclesia
anarchica prendono una cantonata quando mi accostano al “libertarismo”
rothbardiano. Spiegherò, insomma, perché non sono anarco-capitalista. Facciano
attenzione le malelingue del club della canasta socialista. Per finire, last
but not least - anzi, principale motivo di questo lavoro -, intendo
mostrare ai miei ventisette lettori quali siano le vere “relazioni pericolose”
di chi si professa partigiano della libertà. Insomma, quella di premunirsi
dall'essere colto in castagna a rigor mortis sopraggiunto era solo
un pretesto. E’ che mi preme piuttosto sottolineare che sicuramente meno
comprensibili di quelle con gli epigoni del pensiero liberale che ha prodotto
la modernità sono le relazioni che i moralisti duri e puri dell’inquisizione
anarcoide riescono a tenere – i ventisette si tengano forte - con la destra più
estrema! Non la (supposta) destra “liberale” che fa loro storcere la bocca, ma
quella nazi-fascista che fa loro tornare il sorriso ed il colore sulle livide
gote. Loro però no. Loro non si vergognano e non si confessano. C’è, però, una
scusante. E’ che, in molti casi, non se ne rendono proprio conto. Ma procediamo
con ordine.
Le affinità
elettive e le relazioni pericolose
Mi appresto, con
insolita pazienza, e col pensiero rivolto a ciò che Berneri definiva il
“cretinismo anarchico”, a spiegare che non esiste concezione libertaria che non
contempli la libertà. Dato l’anarcocretinismo imperante, la cosa non è così
scontata come potrebbe apparire.
Cominciamo dai miei
sulfurei rende vouz col demonio capitalista. Intanto, vorrei cominciare
con alcune precisazioni. Innanzitutto, scindiamo liberalismo da “capitalismo”.
Le mie simpatie vanno al primo, non al secondo. Ulteriore messa a fuoco: a cosa
mi riferisco quando parlo di “liberalismo”? Forse allo zarismo monopolistico e
mediatico col quale abbiamo dimestichezza? Niente affatto. In buona compagnia
di personaggi che ai preti dell’ordine radical-chic non dovrebbero
dispiacere (Merlino, Chomsky, Goodman, Ward, ecc.), mi riferisco con questa
etichetta allo spirito di autodeterminazione dell’individuo, alla lotta contro
ogni totalità, ogni assolutismo, politico come religioso, all’ethos che ha
sovvertito la staticità pre-moderna fondata sul dato immutabile, sulla
gerarchia, sul privilegio per rivendicare autonomia e libera scelta. Insomma, a
tutto ciò che funse da motore per le rivoluzioni liberali che hanno portato
l’occidente nella modernità (e la cui mancanza ha lasciato parte del mondo al
medioevo della teocrazia). Ovvio che un libertario non può considerarsi
soddisfatto dalla libertà che abbiamo, però, se non si riconosce che la
relazione fra il liberalismo e le istanze di cui i cosiddetti anarchici si
fanno portavoce è una relazione incestuosa, tutta compiuta all’interno delle
medesime mura domestiche, vuol dire che si appartiene ad un’altra famiglia. A
quale famiglia e quale ne sia l’albero genealogico lo si vedrà più in là.
In soldoni, se indice
relativo di libertà è la scelta (di oggetti, stili di vita, di condotte
sessuali, di sistemi economici, di riferimenti morali, di servizi, di
organizzazioni sociali e così via), è chiaro che l’esistenza di un ente
centrale e monopolistico di produzione di norme e/o di beni comporta una forte
riduzione della libertà. Allora tutto ciò che va nella direzione opposta a
questa è liberatorio, ergo “libertario”. Cosa va in direzione contraria al
monopolio e all’assolutismo centralista? Il decentramento, il federalismo, il
confronto, la libera sperimentazione. Ora, tutto ciò è possibile solo se la
proposta alternativa non è un altro monopolio confezionato in un pacchetto “all
inclusive”, tipo l’abolizione della proprietà e, faccio per dire, il lavoro a
rotazione o l’abolizione del lavoro stesso. E’ vero che, se, utopisticamente,
tutti gli abitanti del pianeta fossero concordi, quella sarebbe realmente una
condizione “anarchica”, perché anarchismo, alla fine della fiera, è socialismo
liberamente scelto; ma, oltre a prevedere un mutamento antropologico dell’uomo,
questa concezione non ci spiega come si gestirebbe l’eventuale ribelle che
decidesse di abbandonare la società anarchica e proponesse ad altri dodici
congiurati di diffondere il vangelo della produzione e dello scambio. Una
volta, un noto rivoluzionario di professione (di professione intellettuale,
perché di mestiere fa il ragioniere) mi rispose citando la soluzione
prospettata dal “magnifico Bakunin”: “cappio, veleno e coltello”. Insomma si è
tutti liberi di scegliere quello che l’avanguardia anarchica ha scelto per voi
(“ Una nuova vita vi attende nelle colonie Extra-Mondo. L’ occasione per ricominciare
in un Eldorado di buone occasioni e avventure, un nuovo clima, divertimenti
ricreativi…” recitava un cartello pubblicitario nel film
"distopico" Blade Runner). Non sembri strano, però,
perché ciò è tipico di ogni concezione “democratica”, cioè di quella che
il massone Constant (quello di “impiccheremo l’ultimo re alle budella
dell’ultimo prete”) definiva la “libertà degli antichi”, ossia quella
della polis ateniese, poi ripresa dai giacobini, in cui le libertà non
preesistono alla organizzazione sociale ma sono prodotte di questa, pertanto,
chi si trova fuori dalle mura della polis è escluso dal godimento di
questo diritto calante dall’alto.
Che fine ha fatto la
libera sperimentazione con la quale ci si sciacquava la bocca negli “spazi
occupati”? Fabbri e Gori? Berneri e Merlino? Proudhon e Goodman? Spooner e
Tucker? A ballare il twist nei rispettivi sacelli, immagino. Perfino Malatesta
non avrebbe apprezzato (si leggano i passi sulla libera sperimentazione) , ma è
meglio non dirlo per non scatenare crisi d’identità in molti nichilisti di
professione (sempre intellettuale, of course). Ecco perché, come altrove
ho avuto modo di esprimere, concordo con Ibanez, che è un anarchico, mica un
portavoce del ministro degli Interni, quando dice che quella anarchica, se male
intesa, è una concezione totalitaria, perché idea “che non tollera altra da
sé”. Nulla da stupirsi, quindi, se questi signori, nell’unica occasione
fornitagli dalla storia di gestire qualcosa di più della propria camera, cioè
durante la rivoluzione spagnola del ’36, hanno prodotto ben quattro ministri,
vari tribunali che sarebbero stati apprezzati dagli anarco-capitalisti più
conservatori e si siano distinti anche per la persecuzione degli omosessuali.
Vediamo, invece,
un’altra situazione. In una condizione in cui gli uomini non si propongono in
esibizioni intellettuali che distinguano libertà “civili”, da salvaguardare, e
libertà “economiche”, da abolire sulla base di un moralismo tutt’altro che
laico, è possibile immaginare vari gruppi umani che si organizzano in base alla
convergenza di preferenze, “gruppi di affinità” ( per usare un’espressione
in voga fra certi “compagni”), e si danno a modalità concordate di conduzione
delle interazioni e delle proprie esistenze, sperimentando e riservandosi
l’opzione di spingere per modificare gli equilibri sistemici di cui sono
elementi, come di uscirne e entrarvi a piacimento. In questo caso ci troviamo
in una condizione di libera sperimentazione, di confronto e concorrenza fra
diverse opzioni. Insomma, in una situazione “liberale”, in cui non esiste una
unica Verità, totale, grande, stabile e immutabile, bensì minuscole verità
individuali e temporanee. Il primo caso ha gli stigmi della religione, il
secondo, della laicità. Questa situazione non è democratica e, sempre secondo
il Constant, ha a che vedere con la “libertà dei moderni”. E’ tenendo conto di
tale differenza che un grande pensatore anarchico del passato, Rudolf Rocker,
mica un ragazzino di un centro sociale, ha potuto pronunciare la famosa frase
“molte strade portano alla dittatura dalla democrazia, nessuna dal
liberalismo”. Tale quadro può essere definito Mercato, laddove quello
precedente può essere definito Monopolio.
Ma abbracciare una concezione “liberale” significa contemplare l’aberrazione
della proprietà privata, sbotterà qualcuno dei ventisette. Si. Come abbracciare
la concezione di restare in vita contempla l’aberrazione del defecare. Per
forza. L’unica alternativa ad un sistema centralizzato di allocazione delle
risorse, che ripropone l’istanza centrale e totalitaria, è il libero gioco di
interazioni, di reciproche scelte, l’autopoietico equilibrio di relazioni,
pretese ed aspettative fra individui e fra comunità. Però c’è una bella
differenza fra il fare una apologia del capitalismo e limitarsi a notare il
fatto sotto gli occhi di tutti che può anche darsi capitalismo senza libertà,
come nel Cile di Pinochet, ma mai libertà, per quanto relativa, senza il
capitalismo. Che l’esistenza del mercato sia condizione tutt’altro che sufficiente,
ma sicuramente necessaria, per la libertà è concetto espresso recentemente, per
esempio, da un noto intellettuale anarchico, nonché docente universitario,
senza che il “politburo” libertario gli revocasse la patente di anarchico
(credo che gli abbiano solo tolto una decina di punti) , probabilmente per il
prestigio di cui gode il professore. Del resto, lo stesso signore che ebbe a
dire che “la proprietà è un furto”, cioè Proudhon – che non è certo un Carneade
per gli anarchici -, affermò anche che questo furto era comunque “uno strumento
di garanzia, di libertà, di giustizia, di ordine”. Cosa spetta, allora, ai
libertari? Sfruttare e mantenere le potenzialità liberatorie e impedire quelle
autoritarie implicite in ogni forzatura dell’esistente, in ogni atto di
violenza, quale appunto la proprietà è. Come disse Goodman, fare in modo che le
libertà passate non si tramutino nelle schiavitù di oggi.
Immaginiamo, ancora,
che, nella condizione pluralistica descritta, un più o meno vasto gruppo di
individui condivida l’idea di vivere fuori dalla logica dello scambio, in una
condizione di socialismo liberamente scelta e sempre rivedibile. Bene, come si
era detto, non è forse l’anarchismo il socialismo consensuale in assenza di
autorità centrale? Dov’è, allora, la differenza con la situazione
precedentemente considerata? Non ci sarebbe differenza nella situazione in cui
l’opzione anarco-socialista fosse accolta da tutti. Enorme differenza nel più
probabile caso in cui non tutti fossero entusiasti sostenitori del mutuo
appoggio e della messa in comune del mondo. Nell’anarchismo “tradizionale”, a
carattere religioso, non esiste spazio per opzioni appena meno libere della
libertà totale, al punto da vietare la schiavitù liberamente scelta (extra
ecclesiam nulla salus); nella società “liberale”, laica e “di mercato”,
ognuno sceglie ciò che vuole. Basti pensare che nella società di mercato è
possibile vivere senza mercato, mentre nella comunità anti-mercato è
impossibile vivere producendo e scambiando per capire quale delle due opzioni
sia la più “libertaria”. Lo scambio contiene il non scambio, ad esempio. Che il
“più” contenga il “meno” dovrebbe essere acquisizione ovvia per chiunque abbia
visto una matrioska. Molti gesuiti della “A cerchiata” non l’hanno mai
vista. Il pluralismo è base della libertà. Il grande liberale Isaiah Berlin,
autore della celeberrima distinzione fra “libertà di” (democratica) e
“libertà da” (liberale), proponeva un parallelismo fra il monismo delle
concezioni democratiche, inclusa quella pseudo-anarchica precedentemente
considerata, e l’agorafobia, cioè fra la ricerca di una unità compatta, sicura
e includente e la ricerca nevrotica di un luogo chiuso e rassicurante. Il
pluralismo è figlio di una irrefrenabile claustrofobia.
Ortodossia,
ovvero affinità e divergenze fra me e il compagno Rothbard sulla linea
dell’anti-partito
Tutto quanto detto fa
di me un anarco-capitalista? Assolutamente no. Infatti, esempi lampanti di
logica e consequenzialità ce li avevano dati, molti anni prima dei cosiddetti
anarcocapitalisti, gli intelletti più svegliati dell’anarchismo, diciamo così,
“storico”. Si pensi a Emile Armand ed alle sue associazioni di refrattari in
cui “di qua i socialisti, di là i sostenitori del mercato” o, più
appropriatamente, al già citato Proudhon che considera il “possesso” (e il
libero confronto) quale “unica condizione della vita sociale”, fino a Luigi
Fabbri, Camillo Berneri e Francesco Saverio Merlino. Con quest'ultimo, senza
cogliere alcuna contraddizione, arriviamo alla totale congiunzione fra
socialismo e mercato, una socializzazione – ancora una volta proudhoniana, se
vogliamo – della produzione, dello scambio e del consumo. Volendo, possiamo
citare anche il socialismo di mercato di Bruno Rizzi. Ma congiunzione di
mercato e socialismo la si può trovare anche fuori dall’ambito propriamente
anarchico, ad esempio, si pensi al comunismo liberista di Enrico Leone. Per non
parlare dell’anarchismo individualista americano dei vari Warren, Spooner o
Tucker nelle cui visioni sono in primissimo piano tanto l’identità fra
autonomia individuale e libero mercato, quanto la compatibilità fra questo e il
“socialismo”, che col mercato libero da ogni condizionamento statale e
concentrazione di potere, frutto appunto dell’intervento statale, finisce col
coincidere. Allora perché ho utilizzato a lungo il paradigma anarco-capitalista
nella mia opera da avvocato del diavolo dell’anarchismo? Semplicemente perché
gli autori “libertarians” operano e scrivono, per lo più da economisti e con
rigore anglosassone, in un’epoca posteriore alla “rivoluzione marginalista”
della scuola economia austriaca. Insomma, sono più precisi e meno naif nelle
analisi di quanto talvolta possano risultare molti degli autori precedentemente
citati. In definitiva, l’indubbio merito del pensiero “libertarian” americano è
stato quello di avere sviluppato ed attualizzato la tradizione del free
market anarchism che affonda le radici nel già citato anarchismo yankee ottocentesco
e nelle concezioni del liberalismo francese di Gustave de Molinari (teorico
della affidabilità al mercato di ogni servizio, inclusa la protezione e la
produzione del diritto), Paul Emile de Puydt (teorico della “panarchia”) e
Frédéric Bastiat. Detto questo, però, ritengo che, nelle mani degli anarco-capitalisti,
questo promettente materiale sia stato disinnescato nella sua carica
rivoluzionaria e liberatoria e abbia prodotto degli stenti ma perigliosi
aborti, non di rado illibertari e conservatori. Vediamo, dunque, i miei motivi
di dissenso con l’anarco-capitalismo:
1-Non credo nei “diritti naturali”. Non
è un ostacolo da poco per trovarsi in sintonia con chi crede che esista un
“diritto naturale” alla proprietà di se stessi ed ai prodotti del proprio
lavoro. C’è un che di mistico nel processo di transustanziazione della
terra che, mescolandosi lockianamente al mio lavoro, diviene mia.
Essendo naturale, questo diritto è sacro. La proprietà è, quindi, sacra.
Non concordo affatto. Premesso che per gli ana-cap tutti i diritti sono diritti
di proprietà, un diritto è semplicemente una sorta di salvaguardia messa in
atto affinchè un valido titolo di proprietà non ci venga arbitrariamente
contestato. Ma la “salvaguardia” altro non è se non il riconoscimento da parte
degli altri del fatto che quel titolo è, appunto, “valido”. Altrimenti non
basterebbe alcuna “salvaguardia” morale, fisica o armata. Un diritto è una
aspettativa circa l’altrui comportamento nei nostri confronti che ha una alta
probabilità di essere confermata dai fatti. In altri termini, non esiste
diritto se non riconosciuto. Come diceva Stirner, la proprietà, più che un
furto è “un dono”, perché è l’acquiescenza degli altri che ci permette di
continuare a possedere. E’ allora ovvio che tutti partecipano, attivamente o passivamente,
a definire i diritti vigenti in un dato momento e luogo; ma questo continuo
ridisegnamento del mondo esce dall’ambito della sacralità per entrare in quello
dell’utilità. La proprietà non è sacra, è, al più, utile. Le ricadute pratiche
di due punti di partenza così diversi sono notevoli. Gli anarco-capitalisti,
con il loro giusnaturalismo (escludendo dal novero l’ottimo Friedman) possono,
sulla base di indimostrabili assiomi sulla sacralità di taluni diritti calati
dal cielo, costruire dei sillogismi le cui conclusioni pretendono la stessa
indiscutibile sacralità, grazie al potere mistico dell’originario tocco
metafisico, e perfino la stessa carica di “libertarismo”, indipendentemente
dalle ricadute illibertarie e autoritarie che ne dovessero derivare. Si tratta
di una assurda “etica dei principi”, parlando weberianamente, in cui principi e
procedure contano più dei risultati. Insomma, si è nella categoria di
“l’operazione è perfettamente riuscita ma il paziente è deceduto”. E, infatti,
il paziente decede. Fra gli esiti più grotteschi e paradossali di una logica
simile c’è il fatto che, se un individuo riuscisse, con sistemi validi, a
divenire proprietario di un intero paese in cui imponesse leggi liberticide e
razziste e chiudesse anche le frontiere agli immigrati, essendo il diritto di
proprietà anche quello di disporne a piacimento, tale situazione potrebbe dirsi
libertaria, mentre l’eventuale resistenza armata contro tale situazione,
andando a ledere un diritto “sacro”, sarebbe un grave crimine. Ora, una logica
“anarchica” di tal fatta è ridicola. Si ha, insomma, la netta sensazione che,
più che tutelare il dinamico ed autopoietico mercato, si finisca per difendere
la statica proprietà, più che valutare gli aspetti aggregativi del primo, si voglia
sottolineare quelli di esclusione della seconda. Io, invece, credo che gli
abitanti del paese che non gradissero essere considerati pertinenze della
proprietà rivedrebbero la loro acquiescenza alle aspettative del proprietario,
ritirerebbero il “dono”, essendo venuto meno l’elemento di utilità sociale
dello stesso o la mancanza di danno per loro stessi. Questo è mercato, cioè un
continuo rivedere le proprie posizioni dando luogo, tramite le mutevoli
posizioni di tutti, ad equilibri sempre nuovi. Insomma, se tutto viene dal
mercato, anche la proprietà è un prodotto del mercato. Non gli preesiste
e soggiace alle stesse leggi. Niente prescinde dalla volontà degli individui.
2-Credo che la difesa di diritti naturali
non possa fare a meno dello stato. Ulteriore conseguenza della supposta
sacralità dei diritti proprietari è che è alquanto improbabile che una tale
aprioristica inviolabilità potrebbe mantenersi in barba alle volontà dei
singoli facendo a meno della protezione statale. Nel nostro esempio precedente,
ad esempio, il proprietario avrebbe potuto mantenere il suo ruolo di dittatore,
solo facendo intervenire la soldataglia del paese a massacrare gli insorti,
definiti banditi (esattamente ciò che fecero i colonizzatori piemontesi con i
“briganti”). Si pensi ai “sem terra” brasiliani che espropriano i latifondi. Se
eliminiamo lo stato, beh, stanno dando voce al loro diritto di voto nel mercato
e il mercato ha deciso che la terra non è più del proprietario riconosciuto
fino ad un attimo prima dell’esproprio. Viva il mercato.
3-Credo che lo sfruttamento esista.
Secondo gli anarco-capitalisti il concetto di sfruttamento non ha senso.
Infatti, secondo la logica delle “preferenze dimostrate”, un operaio che
accetta una paga misera preferisce, dimostrandolo con atto concludente, tale
paga a nessuna paga. Certo. La cosa non tiene conto che, oltre all’offerente ed
all’accettante, esiste un terzo elemento, definito bisogno, che fa si da
rendere preferibile e dimostrata la scelta accettante, ma il bisogno non è
stato, a sua volta interrogato. Il più delle volte, però, i bravi “offerenti”
si impegnano a mantenere ben pasciuto il comodo terzo incomodo per poterlo poi
sempre ospitare quale convitato di pietra alle loro trattative. Beh, io lo
chiamo sfruttamento.
4-La predominante cultura
anarco-capitalista è conservatrice. Soprattutto in Italia, domina la
corrente “paleo-libertarian” che unisce a questi elementi di conservatorismo
economico in grado di affossare la carica progressista dell’idea del free
market anarchism, una filosofia reazionaria che nulla ha a che vedere con i
presupposti libertari. Non si capisce per quale motivo, quasi a voler epater
les borgoises, questi autori si lanciano in, per me inammissibili, tirate
filo-cattoliche preconciliari, anti-evoluzionistiche, teo-con e
contrarie ad ogni forma di laicità. Il tutto basato, probabilmente, sulla
balzana teoria che la Chiesa sia sempre stata un contrappeso nei confronti
dello Stato, mentre io credo che questa concorrenza derivi solo dal desiderio
della Chiesa, totalità altrettanto pregna di capacità di soffocamento del
singolo, di farsi Stato.
5-Il secessionismo non mi basta (e, un po’,
mi spaventa). E’ vero che il federalismo è da sempre uno dei cavalli di
battaglia dell’anarchismo, a cominciare da Proudhon (meu amado), ma,
soprattutto nella versione italiota, l’anarco-capitalismo ha preso la fissa del
secessionismo. Ciò sulla base del contraddittorio (rispetto a tutta la sua
produzione individualistica precedente) ultimo Rothbard, autore di un testo
intitolato “Nazioni per consenso”. Cioè, ci associamo sulla base del consenso e
decidiamo i confini, fisici, normativi, etici e spirituali della “nazione”. Del
resto, i proprietari di un territorio non sono forse quelli che pagano le
tasse? I nostri legaioli padanisti ci sono andati a nozze grazie anche, io
credo, alla possibilità di nobilitare un certo razzismo a cui Cattaneo non
bastava. Essere insieme beceri e anarchici è la quadratura del cerchio.
Sennonché, io vorrei puntualizzare tre cose. Niente in contrario al federalismo,
anzi, io arriverei fino alla federazione dei condomini. Ma attenzione. Sembra
che per gli anarco-capitalisti sia più libertaria una piccola patria in cui
viga la discriminazione nei confronti degli immigrati, dei gay, dei
tossicodipendenti di una più larga istituzione, non privata, gestita in modo
più liberale. Insomma, non sono i modi più o meno totalitari a rendere più o
meno libertaria una situazione, ma il fatto se tali atti totalitari uno se li
può permettere o no. Se è il proprietario valido e riconosciuto se li può
permettere e la condizione è libertaria! Eppure Bruno Leoni, a cui le migliori
teste d’uovo del movimento hanno dedicato un istituto di studi, ricordava che
il padrone più vicino non è necessariamente meglio di quello lontano.
Quello che è però
maggiormente da mettere in rilievo è che questa asfittica visione del free
market anarchism non riesce a cogliere le potenzialità insite nel proprio
stesso paradigma. E’ proprio l’abbracciare il mercato che permetterebbe di
superare il problema irrisolvibile dell’anarchismo “classico”, quello delle
“scelte collettive”. Cioè, per quanto in unità piccole e decentrate, si arriva
sempre, anche in condizioni di “democrazia diretta”, a produrre maggioranze e
minoranze che alle prime devono soggiacere. L’idea mercatale di una
concorrenzialità fra differenti sistemi normativi insistenti sul medesimo
territorio, permessa dalla situazione anarco-capitalista, risolve il problema.
L’idea “panarchica” non è nuova (si invitano i miei ventisette lettori a darsi
una scorsa all’anarchico “socialista” Nettlau o a de Puydt) e il libertarianism
è la cornice di riferimento più adeguata per tale concezione. Conclusione:
l’anarco-capitalismo è meglio degli anarco-capitalisti.
Abuso di
sentenze stupefacenti e sostanze inesistenti
Probabilmente non basta
la precedente disquisizione per convincere un credente – non importa se porti
in tasca il santino di Rothbard o di Bakunin - che non si è infedeli a
ragionare in modo relativistico e tollerante, laico, in una parola, liberale.
E’ un discorso che sa troppo di innovazione post-conciliare. Però è utile che i
credenti riflettano su alcuni esiti e a quali convergenze conducano discorsi
prodotti dall’infallibilità papale. Pur nella preponderante esplosione di
scritti pamphlettistici colmi di retorica pantaclastica, ma assolutamente privi
della benché minima sostanza, infatti, sempre più spesso si possono leggere
alcune sentenze stupefacenti che, a non conoscere gli autori, si potrebbero
dire frutto della malata mente di un naziskin dell’ex-DDR. Una volta
individuati, come il mainstream anarchico contemporaneo fa, i nemici nel
mercato, nella globalizzazione, nell’imperialismo americano, nel tecnicismo
moderno, nel sionismo o quant’altro, è facile trovarsi in compagnia dei fautori
per antonomasia dell’anti-individualismo, dei critici della volgare società
mercantile, degli anti-modernisti, degli antisemiti. Sto parlando dei fascisti.
Ci sono personaggi, quali, per esempio, un giornalista di estrema destra (che
ha il cognome di un leader delle destra “presentabile”) creatore di un
movimento anti-modernista, in grado di stimolare imbarazzanti voluttà nel
lettore medio di cose pseudo-anarchiche, e un altro paio di suoi sodali che
vengono spesso rimbalzati dai newsgroups “anarchici”. Uno di questi autori,
molto vezzeggiato dall’aristocrazia punkabbestia, si è espresso in affermazioni
ecumeniche del seguente tenore:
“non ci trovo proprio
niente di strano, che vi sono persone e militanti che provengono da esperienze
trascorse di estrema destra e che aderiscono a piattaforme anti-imperialiste
senza che sia necessario "contrattare" nessun compromesso “ oppure “ Dal
momento che oggi l'equivalente storico e simbolico del fascismo è l'impero
americano massacratore e torturatore, non conosco nessuno di più fascista di
Emma Bonino e di meno fascista di Marco Tarchi (noto fascista, N.d.R.).
“
Insomma, ormai la
destra radicale alligna ovunque, come i baccelli dell' "invasione degli ultracorpi";
questo da quando ha come modello un "nazionalcomunismo" che gli fa
stoltamente accostare alcuni ferrivecchi concettuali del fascismo, quali il
razzismo spiritualista e anarco-cavalleresco di Julius Evola a personaggi
classicamente “sinistri” come Noam Chomsky, così come Zjuganov e Che Guevara,
improbabili sodali della lotta anti-imperialista. Ciò spiega le strampalate
affermazione dello stramboide di cui sopra. "Le piattaforme
anti-imperialistiche" su cui no-global ed anti-mondialisti
concordano senza "nessun compromesso", bisognerebbe però spiegare a
molti dei miei invasati critici, vedono quale base concettuale, per questi
ultimi, l' archefuturismo di Faye (un mix di arcaismo primitivista,
futurismo e volontà di potenza a go-go), il populismo etnonazionalista dei
partiti xenofobi delle piccole heimat europee, il razzismo
differenzialista di Taguieff (un tribalismo reazionario che baratta la razza
con la cultura senza torcere un capello alla sostanza del razzismo meno
ipocrita) , l' etnopluralismo di De Benoist, la più raffinata versione
della difesa della cultura occidentale, intesa però esclusivamente come cultura
europea, che quella attualmente dominante non è cultura occidentale, essendo
inquinata dall'ideologia egualitaria tipica della cultura anglosassone (che,
evidentemente, non è occidentale..).
Pur nelle loro
differenze, queste anime della nuova destra concordano su una visione
“comunitarista”, la riproposizione della gemeinshaft, cioè della
comunità naturale dell’arcadia pre-moderna, e sulla critica al sistema liberale
quale luogo del trionfo dell'individuo razionale che si associa liberamente
agli altri per il conseguimento dei propri obiettivi. Ne criticano, in fondo,
l'aspetto "libertario". Questo vuol dire che, mentre la destra ha ben
chiaro cosa sia l’individualismo liberale, gli anarchici che cinguettano col
comunitarsmo fascista sembra non abbiano capito una benemerita.
I comunitaristi
vogliono sostituire a questa aberrazione "americana" (la libertà
individuale) una nuova antropologia per la quale nessun individuo è separato e
nessuno, avulso dal contesto, è "razionale" e bastante a sé. Altro
che "individualismo metodologico", follia da liberali. Altro che
riconquista dell’individuo contro il totale. E poi, attenzione, che il contesto
dal quale nessuno è separato è soprattutto contesto storico, culturale, etnico.
La comunità è più spirituale che materiale. Lotta alla globalizzazione, quindi,
come difesa della differenza spiritual-etnica dei popoli contro il
totalitarismo subdolo della società dell'assimilazione. Ognuno con la propria
identità, quindi, ma a casa propria, mi raccomando. Del resto è questa la heimet,
la piccola patria cara al nazismo. Sangue, terra e spirito. Alla fine, non
siamo così distanti dal federalismo un po’ fetente degli anarco-capitalisti che
anarchici e no-global affermano di avversare. Da qui nasce il concetto di
"glocalismo" caro agli intellettuali della nuova destra della quale
il "non fascista" Tarchi è parte integrante ed organica. Sul suo
"Diorama Letterario", il fascista più "in" nei circoli
anarco-chic disquisisce forbitamente intorno alla difesa delle identità locali
e rimbotta la sinistra perchè questa si limita a lagnarsi della globalizzazione
economica ma poi, incongruentemente, desidera la globalizzazione dei diritti,
il meticciato culturale, la libera migrazione, ecc.
Ecco, questa gente
acquista sempre più rispettabilità in certi ambienti "radicali".
Dimmi con chi vai.. Però guai a parlare con liberali ed anarco-capitalisti, mi
raccomando. Rothbard mai, Evola e De Benoist si. Bah.
Il crepuscolo degli idioti: esoterismo libertario
Il simpatico
guazzabuglio di nietzchismo, archeofuturismo e romanticismo che, al contempo,
turba e riempie l’altrimenti vuoto contenitore posto sul collo di tanti
“anarchici” di cui abbiamo la sventura di essere contemporanei non finisce mica
qui di palesarsi in tutta la sua ridicolaggine. In tale manifestazione sono
coadiuvati dall’essere in una condizione di sintonia sociale. Cioè, esiste
nella dominante “media cultura” (la più grande iattura dei giorni nostri è che
pochi sono i colti e gli ignoranti e quasi tutti i “medio colti”) che, si sa,
si basa sui luoghi comuni caduti dal terrazzo di quelli di sopra (i colti).
Oggi domina nel popolo “progressista”, per esempio, una malintesa idea di
relativismo culturale. Ma quando il già citato leader del movimento
anti-modernista destroide dice che i "popoli" che preferiscono
sistemi autoritari hanno diritto di darsi sistemi autoritari si rifà
esattamente a questa concezione. Evidentemente è una concezione che non tiene
in alcun conto i diritti del singolo dissenziente, che può essere calpestato
(financo infibulato) dalla maggioranza dominante. Nella logica del relativismo
culturale, noi dobbiamo rispettare quelle culture in cui la maggioranza decide
della vita e della morte del singolo: diversamente sarebbero i liberali che
vogliono mettere il becco i veri "totalitari". C'è sicuramente, in
questa rousseiana "volontà popolare" in cui la minoranza soggiace –
non solo in quanto minoranza ma perchè, proprio in quanto tale, è ovviamente
"in errore" -, il nucleo del comunitarismo, questa espressione molto
in voga negli scritti della nouvelle vague fascista con tanta nostalgia
di "Gemeinshaft" e che lotta contro il "mondialismo" per la
salvaguardia delle culture locali. E' proprio nella esaltazione delle culture
"locali", nella premessa di questo "relativismo
culturalista" che sembra tanto libertario, che alligna la mala pianta del
razzismo e dell'autoritarismo. Siamo nuovamente piombati nella libertà degli
antichi, quella della polis.
Si rischia, insomma,
che un anti-individualismo supposto "progressista" si saldi e si
coaguli in un blob immondo con le istanze più regressive e razziste. Questo
anti-individualismo "di sinistra" affonda le sue origini in una serie
di miti assurti a dogmi di fede (antibiologismo e sociologismo in testa) e
arriva a stendere il suo sudario fino all'emergere di quel decostruzionismo
post-moderno e neo-tribale che tanto fortuna ha avuto nella cosiddetta
"media cultura". Gli effetti perversi di questa "logica"
"egualitarista" ed "anti-autoritaria" sono assolutamente
totalitari e razzistici. Da un parte, infatti, nel relativismo culturalista
"politically correct" così in voga oggi, il presupposto per cui non
esistono società migliori o peggiori e quindi tutte le norme e i costumi
meritano rispetto (infibulazione, lapidazione, ecc. incluse), è solo
apparentemente egualitario, infatti, in Sudafrica, costituì un argomento
centrale per giustificare l'Apartheid.
Pierre-Andrè Taguieff
nota che, nell'assumere come un elemento assoluto la differenza culturale si
verifica un passaggio "dalla 'razza' alla 'cultura'" che lascia
assolutamente inalterata la logica del pregiudizio. Così, la rinuncia alla
diffusione del fatal morbo dell'individualismo nel "rispetto" delle
culture "organiche" nasconde l'idea ( razzista ) che questi organismi
siano psicologicamente diversi - quando lo sono solo storicamente - da essere
incompatibili e immunizzati al virus della soggettività. Sarebbe come dire che
si rinuncia a diffondere l'idea libertaria perchè la cultura statalista è
troppo diversa e comunque merita il nostro rispetto.
In secondo luogo,
questa crisi della soggettività che monta, portata in groppa dal destriero
dello scetticismo post-moderno e sponsorizzata anche da tante teste pensanti
dell' "anarchismo" (vedi Bey e, per certi versi, Zerzan), finisce col
raggiungere una sorta di esoterismo che degrada le conoscenze esatte - meglio,
"verosimili", direbbe Popper - a miti condivisi, mentre - con un
percorso inverso - i miti sono rivalutati come forme di conoscenza universale.
In altri termini, i nostri “progressisti” hanno spesso un atteggiamento
anti-scientista per cui ritengono che tutto ciò che è prodotto della modernità
sia empio e funzionale allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (ma anche dell’uomo
sull’animale, come insegnano gli “anti-specisti”). Da qui una rincorsa alle
temibili “società organiche” e il ritorno alla primitività caro ai fascismi
nordici. In tale logica si può affermare che l'astronomia è un ambito tribale
produttore di tradizioni, miti e riti di pari dignità con tutte le altre forme
di sapere tradizionale, astrologia e malocchio incluso. Gli anarchici, che sono
più progressisti di tutti, non ne sono esenti. Ne conosco uno, ovviamente
rivoluzionario di professione (ma di mestiere fa il cantante – leggo dal suo
sito – “di arie religiose”, oltre che operistiche) che congiunge astrologia,
veganesimo ed antisemitismo con scioltezza invidiabile e successo mediatico. E’
facile trovare in rete vari esempi di immondizia mediatica che spara a zero su
ogni forma di sapere esatto. Ciò, senza riuscire a distinguere fra quella
temibile "anonima esperti" di chomskiana memoria e il lavoro di
progressivo disvelamento del reale da parte dell'uomo. Quella logica
"relativistica", per intenderci, quella logica
"egualitaria", aggiungerei, quella logica, per concludere,
"anti-autoritaria", di chi avendo letto Feyrabend solo sulle parole
crociate, regala ad ogni "opinione" la stessa possibilità e forza. A
chi fa notare che alcune teorie sono più verosimili di altre, viene
contrapposta l'obiezione : "chi lo decide?", cioè, provocatoriamente,
"quale autorità". Ma è chiaro che la domanda giusta sarebbe
"quali fatti?". A questo punto si potrebbe anche chiedersi: "
chi decide che l'idea libertaria sia migliore di quella statalista?"
Qual è la ricaduta grottesca di questa seraficità new age? E' ovvio che
il dibattito, rifiutando il valore della logica "occidentale”, delle prove
e dei controlli, sia affidato alle emozioni, all'immaginazione, alla nobiltà di
tutte le idee. E allora accade che, in barba all' egualitarismo
anti-individualista professato da tutti i profeti del comunitarismo, qualcuno
risulti, inevitabilmente, dotato di maggior carisma e finisca per essere più
ascoltato. In definitiva, quindi, non è vero che tutti i pareri siano
ugualmente autorevoli: a qualche individuo più che ad altri viene attribuita
una dose insolita di saggezza. In questo modo, rifiutando gli
"esperti" (a cui Goodman attribuiva non poche responsabilità
negative, ma su cui riversava altrettante speranze) ci si ritrova fra le
braccia dei santoni.
L'antiautoritarismo
anti-individualista, anti-mondialista e anti- moderno dei vari Fini e De
Benoist, quindi, avendo fra i suoi ingredienti fondanti, la comunità organica e
i santoni, appare post-moderno in quanto pre-moderno, nell'accezione meno
piacevole, meno arcadica e più terribilmente a rischio di autoritarismo che sia
possibile immaginare. Da queste radici, salendo per li rami, venne fuori il
comunitarismo del santone-imbianchino austriaco che rallegrava le birrerie di
Monaco. Noto vegetariano esoterista, tra l'altro.
Conclusione: Dietro ogni scemo (totale) c’è un villaggio (globale)
I miei ventisette
preferiti avranno notato come questo aggiornamento del berneriano “cretinismo
anarchico” sia ben più lungo dell’originale. Segno dei tempi. In definitiva,
scopo di questo lavoro è dimostrare come molti sedicenti libertari ragionino
(poco) mediante elementari categorie (poche) di pensiero. La principale cosa da
mettere in rilievo è il mancato rispetto di ciò che Rawls definisce l’
“ordinamento lessicale” dei principi. Esistono, cioè, principi sovraordinati ed
altri sotto-ordinati che non scattano se non a soddisfacimento di quelli posti
in alto. Ritengo, personalmente, che il principio sovraordinato per un
anarchico debba essere la libertà, poi viene l’eguaglianza. Così, nell’ambito
della ricerca di libertà, la lotta all’autorità e allo stato dovrebbe essere
sovraordinata a quella, pur importantissima, alle sperequazioni economiche.
Invece, l’anarchismo si è dato ormai un ordinamento inverso che produce esiti
paradossali. Fra questi ultimi, le dichiarazioni, finalizzate
all’anti-capitalismo, di esponenti di prestigio del pensiero anarchico che
manifestano sentimenti filo-statalisti. Ma Berneri lo aveva detto: “in economia
gli anarchici sono possibilisti, in politica assolutisti”. I cretini, invece,
sono assolutisti in economia e possibilisti in politica. Per tale motivo
ritengono di potersi permettere, dall’alto della loro ascetica purezza socialista,
la sufficienza nei confronti dei “falsi” anarchici che hanno la faccia tosta di
parlare di mercato. Avendo a mente il falso mercato del capitalismo di stato
non si avvedono che la parola cane non morde ma descrive. Basta non tapparsi le
orecchie. Ma "lo fatal morbo" - come direbbe un
Brancaleone difficile da non evocare parlando di certi compagni anarchici
-, alligna anche fra i supposti liberali, di cui ho messo in luce aporie
e paradossi. Riprendendo, anzi, la dicotomia di Berlin fra agorafobia (legata
alla ricerca del luogo chiuso e monolitico) e claustrofobia (legata al
pluralismo liberale) un amico mi faceva notare che, alla sua prima uscita
italiana, quando il vessillo libertarian era tenuto da un
simpatico e geniale comune amico ora dimenticato dai più, la
rivista che lo propagandava si chiamava, appunto, “Claustrofobia”. Ora, invece,
il giornale che raccoglie gli scritti del think tank padano-paleo-libertario si
chiama “Enclave”…..
Però, se relazioni incongrue veramente esistono per chiunque si voglia fare
paladino di libertà e fratellanza senza mostrare solo cipiglio da matamoros
per poi cavalcare un ronzino in compagnia di una corte di mentecatti,
beh, queste sono quelle con il pensiero autoritario, lo dice la parola stessa.
I componenti dell'armata si guardino, allora, dal manifestarsi "a
lo infedele" recitando con arroganza il loro "voi
sapete chi io sia?", perchè qualcuno potrebbe rispondere. Alla ricerca di
immaginarie pagliuzze nell’occhio altrui, in molti non si avvedono della trave
uncinata che, trapassato l’occhio, gli parassita il cervello. Più cretini di
così….