Lo scorso anno avevamo pubblicato un “botta e risposta” fra Wolf Bruno e C.L. Lagomarsino dal quale pensavamo potesse nascere una discussione che viceversa non c’è stata. Almeno in redazione. Abbiamo tuttavia ricevuto una serie di contributi (quello sotto è il terzo) nei quali l’amico Corvaglia ci sembra abbia via via precisato il proprio pensiero. Confidiamo ancora debolmente  che qualcuno di noi -

 magari Wolf Bruno con uno dei  suoi “colpi di testa”- si faccia vivo. Ma è poi così importante?

Luigi Corvaglia

anarchia come anti-utopismo

“Mentre nella comunità – scriveva Ferdinand Tonnies – gli individui sono legati malgrado ogni separazione, nella società sono di fatto separati, e restano separati, malgrado ogni legame”(1). .La contrapposizione fra Gemeinshft e Gesellshaft , cioè fra una comunità intesa come società “naturale”, caratterizzata dalla divisione spontanea del lavoro e basata su vincoli di sangue e di vicinato, che vedeva quindi una solidarietà organica fra individui, ed una società invece artificiale, basata sulla divisione coatta del lavoro e in cui i rapporti degradano in una collaborazione secondaria, meccanica, legata all’utile, pertanto disgregante ed alienante, è uno dei concetti più duri a morire ed uno dei luoghi comuni più pregni di suggestione dell’epoca che alcuni definiscono post-industriale. Non pochi sono gli animi contemporanei accesi da una crociata anti-moderna proprio nell’ottica di un recupero di un solidarismo “naturale” che sarebbe soffocato dalle logiche della società borghese e mercantilistica, a “destra” come a “sinistra”. Ciò non dovrebbe stupire perché, contrariamente ad un altro luogo comune che le vuole opposte, le matrici tanto della dottrina “comunista” quanto di quella “fascista”  sono simili. Entrambe le dottrine infatti combattono il mondo borghese del mercato e del libero confronto fra soggetti, entrambe sposano la Gemeinshaft contro la Gesellshaft, entrambe quindi avversano l’individualismo che è il portato del disincanto del mondo, cioè della modernità,  e sono fautrici dell’organicismo sociale. Entrambe ardiscono a presentare la totalità come antecedente alla parte, la città all’individuo, come espresso nella Politica da Aristotele. La totalità è organica, olisticamente intesa come un soggetto unico dotato di un sentire e di necessità unitarie che ne dirigono l’azione. A fondare queste totalità è quindi un monoteismo etico, allevatore, come tutti i monoteismi, di integralismi ed intolleranze. Le società “organiche” tanto care a molti romantici esponenti del conformismo dell’alternatività, rappresentavano infatti dei sistemi chiusi, delle totalità non riconoscenti alcuna “cittadinanza” a individui, idee e valori esterni al proprio “organismo” sociale. Verso l’esterno vigeva uno spirito predatorio mentre all’interno i decantati vincoli sussistenti “malgrado ogni separazione” erano basati sulla censura sociale resa possibile dalle condizioni di vita pre-moderne. I rapporti di fiducia non si basavano quindi su una opzione personale ma erano obbligatori, cementati da obblighi di riconoscenza, affiliazioni, ossequi, ecc. che avremmo poi rivisto come costituenti del nepotismo e del clientelismo che innervano tanto la più grande rappresentazione storica dell’organismicità, lo Stato, quanto della sua più fiera concorrente per il monopolio dei servizi di protezione, la mafia.   E’ Hegel l’autore moderno che ha ripreso il modello organicistico e quello la cui influenza è stata maggiore. Infatti il suo fantasma aleggia sulle rovine dei vari incubi collettivistici di destra e di sinistra  del XX secolo.  In questa ottica il fine dell’agire politico è un qualche obiettivo sociale a cui sacrificare l’individuo, un bene comune, sempre considerato unico e non barattabile.  Se lo Stato è una totalità organica anteriore e superiore alle parti non può riconoscere alcuna distinzione fra sfera pubblica e sfera privata (giustificando in tal modo il proprio culto panottico, di voyerismo poliziesco) né il diritto di perseguire l’interesse individuale a scapito di un interesse supposto “pubblico”. E’ attraverso questo tipo di anti-individualismo che sono passate praticamente tutte le ideologie e le pratiche totalitarie. L’esempio più vivo ed efficace ne è il comunismo sovietico. Questo ha comportato l’accentramento di tutti i mezzi di produzione e culturali nello Stato e la proibizione e abolizione forzata della proprietà e delle idee private. Stesso discorso vale anche per il fascismo ed il nazismo, dottrine assolutamente assimilabili nella pratica comportando la nazionalizzazione delle proprietà e il soffocamento del “dissenso”. I dissidenti sono quelli che non apprezzano il bene di cui sono fruitori in quanto elementi costitutivi del tutto (Stato, Chiesa, Comunità, Patria, Etnia, ecc.), l’unica cosa che realmente conta. Che sia la ragione, un mito o un sentimento (generalmente è la commistione di tutto ciò)  a guidare un progetto di edificazione di una società basata sulla logica del bene comune ciò che conta è la totale mancanza di considerazione per il bene individuale, per le aspirazione ed i valori  degli individui sacrificati sull’altare delle Verità ultime ed assolute che fungono da faro per la società tutta.  La conseguenza  logica di questa considerazione è che l’utopista, cioè l’architetto della società giusta che dovrebbe perseguire il bene che egli, l’architetto stesso, ha individuato, è un totalitario.

Robert Nozick in Anarchia, Stato, Utopia(2) si è divertito a stilare un lungo elenco di personalità in qualche modo eminenti, da Wittgenstein a Frank Sinatra, da Picasso a Buddha, passando per Angela Davis, dopo di che ha chiesto al lettore di immaginare che tutta questa gente vivesse in una qualunque delle società utopiche storicamente descritte, quindi governate da una ragione illuminata e il cui fine fosse un bene incontrovertibile. Potrebbe una sola di quelle utopie accontentare tutti? Ci sarebbe in questa società il matrimonio? Sarebbe monogamico? Ci sarebbero mode di abbigliamento?   E la proprietà privata? I bambini verrebbero allevati dai genitori o da istituti deputati a trasmettere il culto utopico? Ecc. Nozick ha risposto : "l’dea che ci sia una risposta composita migliore di ogni altra a tutte queste domande, una società in cui tutti possono vivere nel mondo migliore, mi parrebbe incredibile”(3). Ne deriva che non esiste un bene “incontrovertibile”, un bene il cui valore sia parimenti riconosciuto da ogni individuo.  In pratica non esiste la società “migliore” perché i valori e i progetti individuali sono estremamente diversi per cui ogni tentativo di imporre una unica visione del mondo è un arbitrario gioco a somma zero in cui un gruppo di individui decide di aggirare il libero mercato delle idee per imporre il proprio monopolio. Ne deriva che unica via percorribile sia quella di una “impalcatura per utopie”, cioè “un posto in cui la gente è libera di associarsi volontariamente per perseguire e tentare di attuare la propria visione di una vita bella in una comunità ideale, ma in cui nessuno può imporre agli altri la propria visione utopistica”(4). 

Secondo il ben noto concetto di Amartya Sen lo sviluppo delle comunità non è misurabile dall’aumento del benessere, del PIL, dell’istruzione o della sicurezza, tutti obiettivi generali di un supposto organismo sociale dotato di una comune concupiscenza verso i fini detti, bensì dall’aumento delle opzioni a disposizione di ciascun individuo, cioè dall’aumento di capacità, di potere e di possibilità di cui i singoli dispongono di scegliere la vita che vogliono(5).  E’ curioso invece notare a tal proposito come tutte le comunità “ideali” finora pensate, dai filansteri di Fourier, all’Utopia di More, alla città del sole di Campanella siano accompagnate da ossessive prescrizioni riguardo a infiniti aspetti  della vita degli individui, come l’istruzione, l’accoppiamento,  ecc. fino ad aspetti marginali ed infimi come l’abbigliamento. La tendenza all’interpretazione organicistica è infatti il giusto compimento della speculare idea della malleabilità e immobilità del consorzio sociale. La cosa è incongruente perché, come faceva notare Frederick Bastiat, alcuni pensatori dividono il mondo in due classi, quella che include tutti gli individui tranne loro stessi e l’altra costituita da loro, i pensatori. Tra queste due classi vi è il rapporto esistente fra l’argilla e il vasaio. Se ne deduce la improbabile conclusione che il vasaio sia costituito da altra materia. “Essi ci mostrino i loro titoli”, disse il francese. Se l’umanità è inerte cosa rende così (intellettualmente) dinamici i pensatori-vasai?  Se le tendenze dell’umanità sono cattive al punto che si ritiene giusto organizzarle e controllarle come è possibile che siano così buone quelle degli organizzatori? Dunque, facendo riferimento ad alcune delle proposte utopiche sue coeve, Bastiat notava argutamente: “Come dunque la Legge interverrebbe per sottomettermi ai piani sociali di MM. Mimerel, di Melun, Thiers, Louis Blanc, piuttosto che sottomettere questi signori ai miei piani? Crede qualcuno che io non abbia ricevuto dalla natura abbastanza di immaginazione per inventare anch'io una utopia? È forse il compito della Legge operare una scelta tra tante chimere e mettere la forza pubblica al servizio di una di esse?”. Stante la diversità delle umane aspirazioni di cui nell’esempio di Nozick, è chiara la necessità della “forza pubblica” per imporre l’utopia ma a questo punto il paradiso sognato diviene l’inferno realizzato, la distopia delle cataste di cadaveri. La lotta fra libertà e costrizione si concretizza quindi in quella fra individuo e totalità.

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Totalitario quindi ogni sogno di imposizione di un monoteismo etico che abolisca la ricerca e il libero confronto e scambio di idee e valori fra gli individui, non escluso quello apparentemente più lontano da teorie e prassi autoritarie, ossia  l’anarchismo che, nella prevalente vulgata socialista e bakuniniana, si propone quale una sorta di miscela di etica cristiana laicizzata e lettura naturalistica. Lettura, peraltro, non di rado venata di correnti mal amalgamate che producono ora accessi positivistici, ora accenti anti-positivistici che si esprimono in un pericoloso  relativismo radicale derivato dalla mal digerita lezione dell’epistemologia moderna letta in chiave post-modernista. L’intolleranza politica si nutre infatti, al di là dei monoteismi etici che sempre le fanno da fondazione, anche di altri elementi di giustificazione. Fra questi di  fondamentale importanza sono le  filosofie storicistiche. Dei buoni esempi ne sono il positivismo, l’hegelismo e il marxismo.  Tali schemi di pensiero disegnano un chiaro destino per l’uomo, per la società e la scienza facendo ricorso a ineluttabili leggi di progresso e ferree leggi dialettiche. La scienza è destinata a svelarci la Verità, la storia ha un andamento razionale, il proletariato è destinato a schiacciare il capitalismo. Sembra quasi che queste dottrine ci svelino un disegno prestabilito che spetta solo alla ragione svelare. Si può quindi parlarne come di “teologie” e, in quanto tali,  il vero problema è la loro l’impermeabilità alla confutazione o, come descritto da Karl Popper, la loro  “infalsificabilità”. Se esiste un progetto ed un fine, se la ragione lo può cogliere, è la ragione stessa a ordinarci l’azione, a indicarci la strada obbligata per il Bene e la Verità; e non si discute. Si tratta cioè ancora una volta di teorie totalizzanti, onnicomprensive ed assolutistiche che pretendono di presentarsi come griglie di lettura di tutti gli aspetti della realtà e della sua dinamica in modo inconfutabile. Hayek ha definito “scientismo” il tentativo di applicare i metodi delle scienze naturali alla società intesa come organismo naturale(6). In quest’ottica compito delle scienze sociali, e quindi anche della “politica”, è scoprire la cosiddetta legge dell’evoluzione della società. E’ poi da dire che, pur assumendo l’applicabilità del metodo scientifico ai fatti sociali, la natura  può solo essere “scoperta” dalla scienza ma la scienza – che non è l’etica - descrive, non prescrive. Invece quanto più la descrizione dei dati  si  presenta come “scientifica”, tanto più l’elemento prescrittivo è potente. La lettura del “socialismo scientifico”, ad esempio, è strettamente legata all’ imperativo di inverare l’ineluttabile processo storico del tracollo capitalistico tramite un “assalto al cielo”.  In realtà questo salto logico dalla descrizione alla prescrizione è impossibile perché la conclusione di un sillogismo aristotelico può essere all’imperativo solo se lo sono anche le premesse. E’ la cosiddetta “Legge di Hume”.  Il filosofo inglese ha infatti chiaramente espresso l’impossibilità logica di derivare asserti prescrittivi da proposizioni descrittive. L’informazione non produce imperativi. Eppure la storia del mondo non è che una continua successione di imposizioni basate su questo errore gnoseologico. La storia è storia del potere. Il potere è intolleranza per l’essere in nome di un dover essere la cui ricetta è  custodita dai depositari della verità. Ciò che meravigliava quell’anarchico sui generis che fu l’epistemologo Paul Feyerabend era come questo tipo di preconcetti positivistici, prescrittivisti e storicisti avessero attecchito anche nell’anarchismo, addirittura ponendosi quali elementi fondanti di alcune visioni libertarie come quella collettivistica di Kropotkin il quale scriveva che “Anarchismo è un concetto del mondo fondato su una spiegazione meccanica di tutti i fenomeni. Il suo metodo di investigazione è quello delle scienze naturali esatte”(7). Il fatto è che, non solo l’idea della società come un tutto organico, dotato di autonoma coscienza e volontà,  “seguibile” e prevedibile nelle sue mosse è un falso, ma anche e soprattutto che la “scientificità” delle scienze sociali è più presunta che reale, puramente ideologica  e pertanto inconfutabile secondo il metodo scientifico. Questa inconfutabilità, dovuta alla mancanza di “falsificatori potenziali” che una volta invalidati metterebbero in crisi la struttura stessa dell’ideologia, diviene quindi la giustificazione lampante, di per sé evidente, degli eventi sociali e del potere di questo o quel ceto, individuo o classe. Ora, nonostante l’apparenza contraria data dall’organicità di queste filosofie e, anzi, proprio a causa di un eccessivo potere esplicativo dei fatti che queste pretendono di avere, queste giustificazioni sono incapaci di qualsivoglia previsione in mancanza di quello che Popper definisce un auto-predittore scientifico. Così Marx è il disvelatore “scientifico” delle leggi della storia che esorta i proletari di tutto il mondo a prendere coscienza di essere il popolo eletto destinato ad inverare la fine della storia, ossia il socialismo.  Si ha così il paradosso per cui le teorie storicistiche e “razionali”, proprio per il fatto di spiegare troppo, finiscono per assomigliare spaventosamente alle visioni mistico-religiose ed irrazionali.  Hitler fu il messia inviato per portare la storia alla sua giusta conclusione, il Reich millenario che avrebbe imposto la giusta gerarchia universale.

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Tutte le forme di totalitarismo passano quindi per un acceso anti-individualismo e per una prescrittività che è spesso un esercizio romantico di rimpianto del bel tempo andato, o perlomeno di una perduta “naturalità” traviata dai volgari giorni nostri. Questo quando il sorgere della modernità coincide con l’emergere di quell’autonomia dell’individuo di cui il liberalismo classico si fece alfiere, un’ autonomia contrapposta al mondo dell’uomo medievale, il quale trovava ancora fuori da sé la misura delle cose e i valori: nella Scrittura, nella tradizione, nelle auctoritates.   Max Weber fu molto chiaro. La modernità è secolarizzazione. E’ trasformazione laica, disincanto del mondo. L’uomo acquisisce la coscienza della propria autonomia – quindi della sua pressante libertà – nel lento processo che lo porta dall’ essere infima parte di una totalità organica, un cosmo etero-organizzato ed incomprensibile, magico, irriflessibile, a divenire un tutto individuale riflessivo, indagatore ed auto-organizzato. La modernità è smagia, emancipazione dalla visione magica ed incantata di cui erano custodi le religioni rivelate, in cui tutto era stato detto e nulla da scoprire, e quindi sganciamento della zavorra di quella  certezza, di quella immutabilità per acquisire uno sguardo indagatore  e personale. Questo è il disincanto (entzauberung) del mondo, essenzialmente quella possibilità di dire “io” che fonda poi il concetto di responsabilità individuale. Modernità è quindi nascita dell’individuo. Tale nascita si ha nel momento in cui ogni singolo si appropria del potere di sottrarsi alla pressione della totalità, qualunque forma essa assuma. Battesimo, comunione e cresima storiche del neonato individuo furono la Riforma protestante, l’ Illuminismo e le rivoluzioni francese, inglese ed americana. Il pensiero liberale di queste fratture storiche è stato  ora figlio, ora  genitore. E’ contro tale “obbrobriosa pratica” di esercizio del libero arbitrio, ostetrica della rivolta ad ogni autorità data e allevatrice del dubbio e del relativismo che l’orda della conservazione si è scagliata negli ultimi tre secoli. Agli occhi, ad esempio,  di un De Maistre, che della conservazione e della reazione è il vero campione e prototipo,  appare assurdo il concetto che individuo e comunità, natura e società appartengano a sfere diverse, che l’arrangiamento degli individui fra loro sia o possa essere frutto del libero arbitrio dei singoli e soggetto al libero scambio di idee e di pretese individuali. La società è qualcosa di dato. Il bersaglio preferito di de Maistre è pertanto “la pazza asserzione: l’uomo è nato libero”. Ai giorni nostri il suo erede italiano, Augusto  Del Noce, ha potuto lanciare strali contro la società moderna tutta edonismo ed opulenza affermando l’esistenza di “razze morali irriducibili” la cui gestione  non può essere affidata alla “falsa soluzione  della tolleranza”, trovandosi la via di fuga invece in un reimpianto dell’organismo politico gerarchico e teocratico dei bei tempi andati. Questi i nemici della modernità, i compagni di tanti moderni utopisti “di sinistra”, reincantatori del mondo e apocalittici della società di mercato, pertanto, senza andare a cercare altri casi ovvi di volontà di reincanto nella melma della restaurazione  teocratica più estrema (si pensi che l’incensato Agostino Gemelli si scioglieva alla sola parola “medievalismo”), è bene considerare  che simili spinte verso il mondo pre-moderno possono assumere forme apparentemente opposte a queste in termini di principi espressi ma assolutamente assimilabili in quelli pratici. Si tratta di una sorta di  ritorno all’utero, ad una totalità anteriore al suo disciogliersi negli individui che è il segno della modernità da parte di autori cosiddetti laici che non cessano di essere illiberali e anti-libertari per il solo fatto di ricercare tale  reincanto, piuttosto che nel sacro, in un supposto solidarismo autentico che passa per  comunismo originario perché comunque pone  un bene comune come irrinunciabile, un totale sovra-individuale. Il livello di intolleranza di questi profeti del totale non cambia. Non sono poi rari i casi in cui il rimpianto assume realmente i connotati arcadici di un ritorno all’età dell’oro.  Il romanticismo della Gemeinshaft che ancora ammalia certi primitivismi anarchici, ad esempio,  è quanto di più vicino ad un desiderio di reincanto sia dato di vedere al giorno d’oggi. Murray Bookchin ne presenta una visione invero piuttosto raffinata ma alla fine gli elementi fondanti della sua società anarchica ed ecologista sono la comunità e la sua volontà generale espressa da una democrazia diretta su basa municipale che ha un acre retrogusto di plebiscitarismo. John Zerzan invece, messa da parte ogni finezza, ha deciso di insegnare ai poveri insipienti che costituiscono la maggioranza dell’umanità che la madre di ogni infelicità è stata l’invenzione dell’agricoltura che introduceva la divisione del lavoro, retrodatando quindi la società organica di parecchio rispetto all’idea corrente e proponendo un neo-luddismo incongruente, sua personale versione di bene comune incontrovertibile(8).  Nell’ottica missionaria di chi detiene la ricetta per la società giusta non c’è spazio per idee e pratiche che se ne discostino, eppure certo socialismo “anarchico” non è mai riuscito a spiegare come intenda evitare la devianza costituita dagli appropriatori di risorse in una società collettivistica libertaria, meglio, come fare a gestirla senza intaccare la propria candida veste libertaria. Certe versioni un po’ naif dell’anarchismo non rappresentano altro  se non  una sorta di populismo alla russa che ha subito il processo di risciacquo nello spirito del ’68, quello marcusianamente apocalittico circa la società moderna e tutto teso all’instaurazione di una società naturale e ludica. E chi non vuole giocare?  Il problema è tutto qui. Siamo di nuovo di fronte al by-passaggio della legge di Hume, alla pressante necessità di instaurare una condizione in base alla lettura di un dato ontologico, ad esempio il collettivismo in nome di una essenza naturaliter socialista dell’uomo. In realtà è impossibile immaginare una società comunista libertaria perché rappresenta un ossimoro logico. Società “naturale” non significa che esiste un ordine naturale e che questo sia quello collettivistico; la società naturale, cioè la società che non disponga di sovrastrutture imperative che ne alterino il corso, è un sistema in cui gli individui si confrontano e bilanciano le loro reciproche pretese in un gioco sempre attivo ed autopoietico che può arrivare ovunque e produrre di tutto. Questa condizione può rozzamente essere definita come “mercato”. In tale logica è assolutamente concepibile l’idea di una società collettivistica, comunista, ma solo se è il frutto di del desiderio di tutti gli individui componenti e sempre se questa società non obbliga i non contraenti il patto collettivistico (che altrimenti reinventerebbe la totalità indiscutibile) e se l’opzione di uscita rimane possibile anche per i contraenti che avessero riveduto la loro posizione. Diventa  quindi evidente che questa società “comunista” che dipende dagli individui e non si impone sugli individui è in realtà, paradossalmente, una società “di mercato”.   

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Lo spirito della modernità è dunque spirito di emancipazione dell’individuo che mette in crisi l’assolutismo, la teocrazia, i privilegi di casta, le gerarchie e rivendica la propria autodeterminazione. E’ in tal senso che l’anarchismo autoctono americano, alla cui base non trova alloggio il populismo russo bensì il liberalismo dei padri fondatori, ha potuto rivendicare il ruolo di  custode e  continuatore dell’ethos libertario che fonda la modernità. Quando Paul goodman afferma che “dopo l’Ottocento, alcuni di noi liberali hanno scelto di definirsi anarchici”(9) lo fa nella consapevolezza di una esperienza culturale e pratica intimamente individualistica, radicata tanto nel protestantesimo radicale quanto in quel liberalismo americano di cui i vari Lysander Spooner, Josiah Warren e Benjamin Tucker hanno rappresentato la forma più estrema e più compiuta. Questi autori si impegnarono in uno sforzo di rigetto della totalità alla cui radice hanno posto la proprietà privata quale unica garanzia di salvaguardia individuale. Il mercato, in tal senso, non è esclusivamente un sistema economico basato sulla produzione e il capitale, ma assolve fondamentalmente alla funzione di unico sistema che possa garantire la protezione e la sovranità dell’individuo, ponendo al centro, non il capitalista, bensì il consumatore. Solo lo scambio, cioè, porta giustizia e libertà se ne manteniamo inalterati i connotati di libertà in mancanza dei quali il sistema capitalistico può trasformarsi in un sistema di dominio. Da ciò la lotta ai monopoli, alle corporazioni,  alle patenti, ai copyrights (Tucker), ecc. e  proposte come il  free-banking (Spooner), cioè la creazione aperta a tutti di istituti di credito per limitare la disparità di condizioni fra grande capitale e individui comuni, del “costo come limite del prezzo” (Warren) e perfino delle confische dei latifondi (Tucker), tutte cose sulle quali un certo anarco-capitalismo filo-capitalista a senso unico, che della stessa etica si dice figlio e che agli stessi autori esprime esplicito debito di riconoscimento, sembra allegramente  sorvolare. Ciò su cui non è possibile sorvolare è invece come in quest’ottica il mercato, al di là degli elementi giusnaturalistici o utilitaristici che ne fanno da fondazione,  è innanzitutto l’alternativa al monoteismo etico che  informa ogni forma di intolleranza quando, dato l’inconciliabile contrasto fra i diversi valori che presiedono all’ordinamento del modo, non può darsi che il politeismo dei valori. La società libera è quindi la società “plurale”. Il “mercato”, sganciando il termine dal suo esclusivo legame con le merci, è quindi quel sistema che permette ad ogni singolo individuo la sua personale scelta, opzione fra le tante, al di là di ogni scelta definitiva di un unico bene incontrovertibile. In quest’ottica, quindi, l’anarchismo è compimento del liberalismo e, in quanto tale, compimento della modernità.  Compimento che non può porsi se non come negazione dello stato nella sua  qualità di sottrattore delle libertà degli individui e alteratore dei processi sistemici autopoietici che abbiamo fin qui denominato di mercato; questo non solo nella sua accezione economica ma anche per ciò che riguarda il libero gioco di pretese ed aspettative che da luogo alle norme, e quindi  al diritto, che in regime di monopolio statale pretende di imporsi su base territoriale agli individui che hanno la ventura  di calpestarne il suolo.  “Singolare giustizia, che ha come confine un fiume! – disse Pascal – Verità di qua dei Pirenei, errore di là”(10).  Tralasciando le complesse questioni giuridiche, a livello elementare è possibile dire che gli individui che si confrontano creano naturalmente e in modo autopoietico un ordine che è frutto dell’arrangiamento delle pretese e delle aspettative di ognuno, che è quindi un “ordine giuridico”. In cibernetica questo concetto è espresso dal termine “sistema”, ossia “due o più elementi intenti a definire la natura e l’esito della loro relazione”. Un sistema ha delle qualità che sono più della somma delle qualità delle parti costituenti ma che si modificano al mutare anche di un solo elemento (basta la sottrazione di un atomo a trasformare il diamante in grafite) e ciò supera tanto l’individualismo metodologico caro a certo “liberalismo”, quanto l’organicismo caro a certo “socialismo”. Ma i sistemi possono essere chiusi (come nelle società tradizionali o nella mafia), o aperti (come nelle società moderne). Nel primo caso gli equilibri (stati stazionari, in cibernetica) si mantengono a forza di enormi sforzi imperativi di retroazione contro ogni infiltrazione dall’esterno (input, bit di informazione), nel secondo caso il libero accesso di informazione produce il continuo e fluido rigenerarsi e ingrandirsi del sistema. I sistemi sociali aperti sono coscienti della assoluta temporaneità del loro equilibrio. F. Von Hayek ha espresso qualcosa di simile quando ha notato che tutte le società che hanno perseguito una perpetuazione del libero confronto e si siano rette sul continuo afflusso di dati nel sistema si sono espanse, arricchite e articolate sempre più in modo spontaneo e non organizzato. La strutturazione di equilibri fra individui può essere definito, slabbrando le pareti concettuali originarie del termine, “mercato”. Ciò a causa del fatto che si tratta sempre di complessi giochi di domanda e di offerta.

In definitiva, la cultura della modernità rompe i confini attraverso i quali si esercitava nelle società tradizionali la possibilità di fidarsi degli altri, possibilità che si basava sui vincoli di sangue e gli obblighi tradizionali. In altri termini, laddove nelle culture pre-moderne la fiducia era basata sul contesto locale, sulla vicinanza, al punto che sul globale e sul lontano vigeva la sfiducia e l’ostilità,  l’attività sociale moderna è invece caratterizzata, come dice Anthony Giddens, da “grandi spazi di interazione non ostile con gli sconosciuti”(11). Nelle società organiche la fiducia è legata a “impegni  di legame” implicanti la compresenza o almeno la vicinanza psichica, mentre solo l’età moderna permette una cooperazione estesa basata su “impegni anonimi”. I primi sono sistemi egemonici, i secondi sono resi possibili dagli “emblemi simbolici” e dai “sistemi esperti”. Il principale emblema simbolico è il mezzo di scambio, il denaro. I sistemi esperti sono invece legati all’organizzazione e alla tecnica. Si può prendere un aereo a Roma e scendere a Los Angeles senza conoscere il pilota, senza sapere come funziona un aereo, senza neppure sapere realmente dove si trova Los Angeles. Saliamo su un aereo e abbiamo “fiducia” nel fatto che atterreremo dopo dieci ore a Los Angeles. Questo perché esistono una serie di sistemi esperti che costituiscono un sapere periferico di appoggio. Ciò che spetta al profano è esclusivamente un gruppo minimo di nozioni quali sapere cos’è un aeroporto, un biglietto aereo, ecc. Ma la sicurezza del viaggio non dipende affatto dal padroneggiare o meno l’apparato tecnico che lo rende possibile o dal conoscere gli individui coinvolti e le loro culture di riferimento. I sistemi di fiducia che presiedono alla modernità sono il prodotto di una rottura con le visioni provvidenzialistiche di tipo religioso come degli affidamenti di tipo sapientistico, oltre che  della decostruzione e de-localizzazione (disembedding) dei sistemi sociali chiusi che colloca le interazioni a livello planetario. Tutto ciò è frutto del sistema di libero fluire ed armonizzarsi di  bisogni, idee, proposte, aspettative, ecc. definito, in difetto di più adeguato termine,  “mercato”. Il mercato stesso, inteso come organizzazione di tali pretese ed aspettative, è un sistema esperto. Non è necessario conoscere la chimica o il procedimento di fissazione dei prezzi per acquistare un detersivo. Il sistema-mercato rende possibile la cooperazione e la fiducia fra sconosciuti altrimenti impossibile al di fuori di sistemi chiusi egemonici.

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La considerazione che è possibile trarre da quanto esposto può apparire paradossale. Forte infatti di un buon senso atavicamente pigro e di una consolidata tradizione di cultura marxista, il pensiero comune associa l’anarchismo all’utopia, intensa come un romantico vagheggiare l’isola che non c’è. E’ ben strano che questa connotazione allucinatoria sia riservata all’unica pulsione “politica” che non ha dimostrato “scientificamente” il proprio fallimento, come invece è avvenuto a teorizzazioni ben più “razionali”, se non addirittura  sedicenti “scientifiche”. Questo per tacer delle dottrine irrazionaliste quali il fascismo ed il nazismo a cui  la razionale umanità ha comunque concesso di fare un giro sulla giostra della storia.  E’ bene quindi intenderci su un punto.  Una spinta utopica, intesa come un orizzonte a cui tendere, un altrove da edificare differente dal quotidiano,  è presente in ogni motivazione all’intervento sulla storia e sugli uomini, non fosse altro perché altrimenti non esisterebbe neppure la pulsione al cambiamento. Anche il socialismo ed il liberalismo presentano quindi in tal senso un nocciolo utopico. Sempre in tal senso ciò è vero anche per l’anarchismo. Quindi aveva ragione Oscar Wilde quando affermava che un atlante che non contemplasse il paese di Utopia non sarebbe degno di essere stampato. D’altro canto,  commettere l’errore di concepire lo sfuggente orizzonte come un punto d’arrivo definito e sclerotizzare tappe e modi del cammino, dandogli quindi  vesti “scientifiche”, vuol dire costruire una impalcatura utopica in senso deteriore, con ciò intendendo una visionarietà prescrittiva per cui si agogna un altrove prefabbricato nell’iperuranio del visionario e si realizza un catechismo in cui l’ethos si trasforma in episteme, l’intuizione in precetto  e attraverso questo si pretende di modificare  la realtà in un’ottica per cui se i fatti non si adattano alla teoria, tanto peggio per i fatti. Così inteso quello di Utopia è un paese di cui gli atlanti potrebbero tranquillamente fare a meno. A questa deriva non sfugge nessuna teorizzazione politica, neppure l’anarchismo.  Fine di questo scritto è quindi quello di presentare una concezione libertaria che  possa permettersi la stessa ironia che Proudhon palesava nei confronti degli utopisti che volevano fondare la società comunista sulla fratellanza quando la fratellanza  è il fine, non il principio della comunione, e affermava che “essi  cominciano, come dice il proverbio, la loro casa dagli abbaini”(12).  Si vuole quindi sottolineare come l’ anarchismo  sia l’unico modello in grado di disinnescare in sé le cariche negativamente utopiche e porsi quale chiara griglia di lettura e realistica mappa del cammino umano se solo fosse disposto a ricercare le proprie basi epistemologiche lontano dai lidi della retorica naturalistica e teologizzante e cominciasse a sfogliare e riscoprire senza pregiudizi le intuizioni dai migliori esponenti del pensiero di quel  gemello diviso e finito in rovina che è il liberalismo, l’unica concezione sociale nata come anti-utopia.  

 

 note:      

1) F. Ton nies, Comunità e Società, Tr. It., Milano, Comunità, 1963, pag. 4

2) R. Nozick, Anarchia, Stato, Utopia, Le Monnier, Firenze, 1981

3) ibidem, p. 329

4) ibidem, p. 330

5) A. Sen, Etica ed Economia, Laterza, Bari-roma, 1988

6) F. A. Von Hayek, L’Abuso della Ragione, Vallecchi, Firenze, 1967

7) In P. Feyerabend, Contro il Metodo, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 19

8) Per certi aspetti la versione più compiuta e quindi pericolosa di questo voglia di reincanto del mondo e di imposizione di una totalità a discapito degli individui costituenti è la cosiddetta filosofia New Age che pregusta  una Gemeinshaft globale guidata da saggi custodi.

9) Citato in P.Adamo, Mercato, Proprietà, Anarchia, “Rivista Anarchica Online” (www.anarca-bolo.ch/a-rivista/253/35.htm

10) B. Pascal, Pensieri, xxxx, xxx, p. 294

11) A. Giddens, Le conseguenze della modernità, trad. it., Il Mulino, Bologna, 1994, p. 120

12) P.J. Proudhon, Critica della proprietà e dello stato (A cura di. G.N. Berti), Milano, Eleuthera, 2001, p. 89.