anarchia
come anti-utopismo
“Mentre nella comunità – scriveva Ferdinand Tonnies –
gli individui sono legati malgrado ogni separazione, nella società sono di
fatto separati, e restano separati, malgrado ogni legame”(1). .La
contrapposizione fra Gemeinshft e Gesellshaft , cioè fra una comunità
intesa come società “naturale”, caratterizzata dalla divisione spontanea del
lavoro e basata su vincoli di sangue e di vicinato, che vedeva quindi una
solidarietà organica fra individui, ed una società invece artificiale, basata
sulla divisione coatta del lavoro e in cui i rapporti degradano in una
collaborazione secondaria, meccanica, legata all’utile, pertanto disgregante ed
alienante, è uno dei concetti più duri a morire ed uno dei luoghi comuni più
pregni di suggestione dell’epoca che alcuni definiscono post-industriale. Non
pochi sono gli animi contemporanei accesi da una crociata anti-moderna proprio
nell’ottica di un recupero di un solidarismo “naturale” che sarebbe soffocato
dalle logiche della società borghese e mercantilistica, a “destra” come a
“sinistra”. Ciò non dovrebbe stupire perché, contrariamente ad un altro luogo
comune che le vuole opposte, le matrici tanto della dottrina “comunista” quanto
di quella “fascista” sono simili.
Entrambe le dottrine infatti combattono il mondo borghese del mercato e del
libero confronto fra soggetti, entrambe sposano la Gemeinshaft contro la Gesellshaft,
entrambe quindi avversano l’individualismo che è il portato del disincanto del
mondo, cioè della modernità, e sono
fautrici dell’organicismo sociale. Entrambe ardiscono a presentare la totalità
come antecedente alla parte, la città all’individuo, come espresso nella Politica da Aristotele. La totalità è
organica, olisticamente intesa come un soggetto unico dotato di un sentire e di
necessità unitarie che ne dirigono l’azione. A fondare queste totalità è quindi
un monoteismo etico, allevatore, come tutti i monoteismi, di integralismi ed
intolleranze. Le società “organiche” tanto care a molti romantici esponenti del
conformismo dell’alternatività, rappresentavano infatti dei sistemi chiusi,
delle totalità non riconoscenti alcuna “cittadinanza” a individui, idee e
valori esterni al proprio “organismo” sociale. Verso l’esterno vigeva uno
spirito predatorio mentre all’interno i decantati vincoli sussistenti “malgrado
ogni separazione” erano basati sulla censura sociale resa possibile dalle
condizioni di vita pre-moderne. I rapporti di fiducia non si basavano quindi su
una opzione personale ma erano obbligatori, cementati da obblighi di
riconoscenza, affiliazioni, ossequi, ecc. che avremmo poi rivisto come
costituenti del nepotismo e del clientelismo che innervano tanto la più grande
rappresentazione storica dell’organismicità, lo Stato, quanto della sua più
fiera concorrente per il monopolio dei servizi di protezione, la mafia. E’ Hegel l’autore moderno che ha ripreso il
modello organicistico e quello la cui influenza è stata maggiore. Infatti il
suo fantasma aleggia sulle rovine dei vari incubi collettivistici di destra e
di sinistra del XX secolo. In questa ottica il fine dell’agire politico
è un qualche obiettivo sociale a cui sacrificare l’individuo, un bene comune, sempre considerato unico e
non barattabile. Se lo Stato è una
totalità organica anteriore e superiore alle parti non può riconoscere alcuna
distinzione fra sfera pubblica e sfera privata (giustificando in tal modo il
proprio culto panottico, di voyerismo poliziesco) né il diritto di perseguire
l’interesse individuale a scapito di un interesse supposto “pubblico”. E’
attraverso questo tipo di anti-individualismo che sono passate praticamente
tutte le ideologie e le pratiche totalitarie. L’esempio più vivo ed efficace ne
è il comunismo sovietico. Questo ha comportato l’accentramento di tutti i mezzi
di produzione e culturali nello Stato e la proibizione e abolizione forzata
della proprietà e delle idee private. Stesso discorso vale anche per il
fascismo ed il nazismo, dottrine assolutamente assimilabili nella pratica
comportando la nazionalizzazione delle proprietà e il soffocamento del
“dissenso”. I dissidenti sono quelli che non apprezzano il bene di cui sono
fruitori in quanto elementi costitutivi del tutto (Stato, Chiesa, Comunità,
Patria, Etnia, ecc.), l’unica cosa che realmente conta. Che sia la ragione, un
mito o un sentimento (generalmente è la commistione di tutto ciò) a guidare un progetto di edificazione di una
società basata sulla logica del bene comune ciò che conta è la totale mancanza
di considerazione per il bene individuale, per le aspirazione ed i valori degli individui sacrificati sull’altare delle
Verità ultime ed assolute che fungono da faro per la società tutta. La conseguenza logica di questa considerazione è che
l’utopista, cioè l’architetto della società giusta che dovrebbe perseguire il
bene che egli, l’architetto stesso, ha individuato, è un totalitario.
Robert Nozick in Anarchia, Stato, Utopia(2) si è divertito a stilare un lungo elenco
di personalità in qualche modo eminenti, da Wittgenstein a Frank Sinatra, da
Picasso a Buddha, passando per Angela Davis, dopo di che ha chiesto al lettore
di immaginare che tutta questa gente vivesse in una qualunque delle società
utopiche storicamente descritte, quindi governate da una ragione illuminata e
il cui fine fosse un bene incontrovertibile. Potrebbe una sola di quelle utopie
accontentare tutti? Ci sarebbe in questa società il matrimonio? Sarebbe
monogamico? Ci sarebbero mode di abbigliamento? E la proprietà privata? I bambini verrebbero
allevati dai genitori o da istituti deputati a trasmettere il culto utopico?
Ecc. Nozick ha risposto : "l’dea che ci sia una risposta composita
migliore di ogni altra a tutte queste domande, una società in cui tutti possono vivere nel mondo migliore,
mi parrebbe incredibile”(3). Ne deriva che non esiste un bene
“incontrovertibile”, un bene il cui valore sia parimenti riconosciuto da ogni
individuo. In pratica non esiste la società “migliore” perché i valori e
i progetti individuali sono estremamente diversi per cui ogni tentativo di
imporre una unica visione del mondo è un arbitrario gioco a somma zero in cui
un gruppo di individui decide di aggirare il libero mercato delle idee per
imporre il proprio monopolio. Ne deriva che unica via percorribile sia quella
di una “impalcatura per utopie”, cioè “un posto in cui la gente è libera di
associarsi volontariamente per perseguire e tentare di attuare la propria
visione di una vita bella in una comunità ideale, ma in cui nessuno può imporre
agli altri la propria visione utopistica”(4).
Secondo il ben noto concetto di Amartya Sen
lo sviluppo delle comunità non è misurabile dall’aumento del benessere, del
PIL, dell’istruzione o della sicurezza, tutti obiettivi generali di un supposto
organismo sociale dotato di una comune concupiscenza verso i fini detti, bensì
dall’aumento delle opzioni a disposizione di ciascun individuo, cioè
dall’aumento di capacità, di potere e di possibilità di cui i singoli
dispongono di scegliere la vita che vogliono(5). E’ curioso invece notare a tal proposito come
tutte le comunità “ideali” finora pensate, dai filansteri di Fourier,
all’Utopia di More, alla città del sole di Campanella siano accompagnate da
ossessive prescrizioni riguardo a infiniti aspetti della vita degli individui, come l’istruzione,
l’accoppiamento, ecc. fino ad aspetti
marginali ed infimi come l’abbigliamento. La tendenza all’interpretazione
organicistica è infatti il giusto compimento della speculare idea della
malleabilità e immobilità del consorzio sociale. La cosa è incongruente perché,
come faceva notare Frederick Bastiat, alcuni
pensatori dividono il mondo in due classi, quella che include tutti gli
individui tranne loro stessi e l’altra costituita da loro, i pensatori. Tra
queste due classi vi è il rapporto esistente fra l’argilla e il vasaio. Se ne
deduce la improbabile conclusione che il vasaio sia costituito da altra
materia. “Essi ci mostrino i loro titoli”, disse il francese. Se l’umanità è
inerte cosa rende così (intellettualmente) dinamici i pensatori-vasai? Se le tendenze dell’umanità sono cattive al
punto che si ritiene giusto organizzarle e controllarle come è possibile che
siano così buone quelle degli organizzatori? Dunque, facendo riferimento ad
alcune delle proposte utopiche sue coeve, Bastiat notava argutamente: “Come
dunque la Legge interverrebbe per sottomettermi ai piani sociali di MM.
Mimerel, di Melun, Thiers, Louis Blanc, piuttosto che sottomettere questi
signori ai miei piani? Crede qualcuno che io non abbia ricevuto dalla natura
abbastanza di immaginazione per inventare anch'io una utopia? È forse il
compito della Legge operare una scelta tra tante chimere e mettere la forza
pubblica al servizio di una di esse?”. Stante la diversità delle umane
aspirazioni di cui nell’esempio di Nozick, è chiara la necessità della “forza
pubblica” per imporre l’utopia ma a questo punto il paradiso sognato diviene
l’inferno realizzato, la distopia delle cataste di cadaveri. La lotta fra
libertà e costrizione si concretizza quindi in quella fra individuo e totalità.
§
Totalitario quindi ogni sogno di imposizione
di un monoteismo etico che abolisca la ricerca e il libero confronto e scambio
di idee e valori fra gli individui, non escluso quello apparentemente più
lontano da teorie e prassi autoritarie, ossia
l’anarchismo che, nella prevalente vulgata socialista e bakuniniana, si
propone quale una sorta di miscela di etica cristiana laicizzata e lettura
naturalistica. Lettura, peraltro, non di rado venata di correnti mal amalgamate
che producono ora accessi positivistici, ora accenti anti-positivistici che si
esprimono in un pericoloso relativismo
radicale derivato dalla mal digerita lezione dell’epistemologia moderna letta
in chiave post-modernista. L’intolleranza politica si
nutre infatti, al di là dei monoteismi etici che sempre le fanno da fondazione,
anche di altri elementi di giustificazione. Fra questi di fondamentale importanza sono le filosofie storicistiche. Dei buoni esempi ne
sono il positivismo, l’hegelismo e il marxismo.
Tali schemi di pensiero disegnano un chiaro destino per l’uomo, per la
società e la scienza facendo ricorso a ineluttabili leggi di progresso e ferree
leggi dialettiche. La scienza è destinata a svelarci la Verità, la storia ha un
andamento razionale, il proletariato è destinato a schiacciare il capitalismo.
Sembra quasi che queste dottrine ci svelino un disegno prestabilito che spetta
solo alla ragione svelare. Si può quindi parlarne come di “teologie” e, in
quanto tali, il vero problema è la loro
l’impermeabilità alla confutazione o, come descritto da Karl Popper, la
loro “infalsificabilità”. Se esiste un
progetto ed un fine, se la ragione lo può cogliere, è la ragione stessa a
ordinarci l’azione, a indicarci la strada obbligata per il Bene e la Verità; e
non si discute. Si tratta cioè ancora una volta di teorie totalizzanti,
onnicomprensive ed assolutistiche che pretendono di presentarsi come griglie di
lettura di tutti gli aspetti della realtà e della sua dinamica in modo
inconfutabile. Hayek ha definito “scientismo” il tentativo di applicare i
metodi delle scienze naturali alla società intesa come organismo naturale(6).
In quest’ottica compito delle scienze sociali, e quindi anche della “politica”,
è scoprire la cosiddetta legge dell’evoluzione della società. E’ poi da dire
che, pur assumendo l’applicabilità del metodo scientifico ai fatti sociali, la
natura può solo essere “scoperta” dalla
scienza ma la scienza – che non è l’etica - descrive, non prescrive. Invece
quanto più la descrizione dei dati
si presenta come “scientifica”, tanto
più l’elemento prescrittivo è potente. La lettura del “socialismo scientifico”,
ad esempio, è strettamente legata all’ imperativo di inverare l’ineluttabile
processo storico del tracollo capitalistico tramite un “assalto al cielo”. In realtà questo salto logico dalla
descrizione alla prescrizione è impossibile perché la conclusione di un
sillogismo aristotelico può essere all’imperativo solo se lo sono anche le
premesse. E’ la cosiddetta “Legge di Hume”.
Il filosofo inglese ha infatti chiaramente espresso l’impossibilità
logica di derivare asserti prescrittivi da proposizioni descrittive.
L’informazione non produce imperativi. Eppure la storia del mondo non è che una
continua successione di imposizioni basate su questo errore gnoseologico. La
storia è storia del potere. Il potere è intolleranza per l’essere in nome di un
dover essere la cui ricetta è custodita
dai depositari della verità. Ciò che meravigliava quell’anarchico sui generis
che fu l’epistemologo Paul Feyerabend era come questo tipo di preconcetti
positivistici, prescrittivisti e storicisti avessero attecchito anche
nell’anarchismo, addirittura ponendosi quali elementi fondanti di alcune
visioni libertarie come quella collettivistica di Kropotkin il quale scriveva
che “Anarchismo è un concetto del mondo fondato su una spiegazione meccanica di
tutti i fenomeni. Il suo metodo di investigazione è quello delle scienze
naturali esatte”(7). Il fatto è che, non solo l’idea della società come un
tutto organico, dotato di autonoma coscienza e volontà, “seguibile” e prevedibile nelle sue mosse è
un falso, ma anche e soprattutto che la “scientificità” delle scienze sociali è
più presunta che reale, puramente ideologica
e pertanto inconfutabile secondo il metodo scientifico. Questa
inconfutabilità, dovuta alla mancanza di “falsificatori potenziali” che una
volta invalidati metterebbero in crisi la struttura stessa dell’ideologia,
diviene quindi la giustificazione lampante, di per sé evidente, degli eventi
sociali e del potere di questo o quel ceto, individuo o classe. Ora, nonostante
l’apparenza contraria data dall’organicità di queste filosofie e, anzi, proprio
a causa di un eccessivo potere esplicativo dei fatti che queste pretendono di
avere, queste giustificazioni sono incapaci di qualsivoglia previsione in
mancanza di quello che Popper definisce un auto-predittore scientifico. Così
Marx è il disvelatore “scientifico” delle leggi della storia che esorta i
proletari di tutto il mondo a prendere coscienza di essere il popolo eletto
destinato ad inverare la fine della storia, ossia il socialismo. Si ha così il paradosso per cui le teorie
storicistiche e “razionali”, proprio per il fatto di spiegare troppo, finiscono
per assomigliare spaventosamente alle visioni mistico-religiose ed
irrazionali. Hitler fu il messia inviato
per portare la storia alla sua giusta conclusione, il Reich millenario che
avrebbe imposto la giusta gerarchia universale.
§
Tutte le forme di totalitarismo passano quindi per un acceso anti-individualismo e per una prescrittività che è spesso un esercizio romantico di rimpianto del bel tempo andato, o perlomeno di una perduta “naturalità” traviata dai volgari giorni nostri. Questo quando il sorgere della modernità coincide con l’emergere di quell’autonomia dell’individuo di cui il liberalismo classico si fece alfiere, un’ autonomia contrapposta al mondo dell’uomo medievale, il quale trovava ancora fuori da sé la misura delle cose e i valori: nella Scrittura, nella tradizione, nelle auctoritates. Max Weber fu molto chiaro. La modernità è secolarizzazione. E’ trasformazione laica, disincanto del mondo. L’uomo acquisisce la coscienza della propria autonomia – quindi della sua pressante libertà – nel lento processo che lo porta dall’ essere infima parte di una totalità organica, un cosmo etero-organizzato ed incomprensibile, magico, irriflessibile, a divenire un tutto individuale riflessivo, indagatore ed auto-organizzato. La modernità è smagia, emancipazione dalla visione magica ed incantata di cui erano custodi le religioni rivelate, in cui tutto era stato detto e nulla da scoprire, e quindi sganciamento della zavorra di quella certezza, di quella immutabilità per acquisire uno sguardo indagatore e personale. Questo è il disincanto (entzauberung) del mondo, essenzialmente quella possibilità di dire “io” che fonda poi il concetto di responsabilità individuale. Modernità è quindi nascita dell’individuo. Tale nascita si ha nel momento in cui ogni singolo si appropria del potere di sottrarsi alla pressione della totalità, qualunque forma essa assuma. Battesimo, comunione e cresima storiche del neonato individuo furono la Riforma protestante, l’ Illuminismo e le rivoluzioni francese, inglese ed americana. Il pensiero liberale di queste fratture storiche è stato ora figlio, ora genitore. E’ contro tale “obbrobriosa pratica” di esercizio del libero arbitrio, ostetrica della rivolta ad ogni autorità data e allevatrice del dubbio e del relativismo che l’orda della conservazione si è scagliata negli ultimi tre secoli. Agli occhi, ad esempio, di un De Maistre, che della conservazione e della reazione è il vero campione e prototipo, appare assurdo il concetto che individuo e comunità, natura e società appartengano a sfere diverse, che l’arrangiamento degli individui fra loro sia o possa essere frutto del libero arbitrio dei singoli e soggetto al libero scambio di idee e di pretese individuali. La società è qualcosa di dato. Il bersaglio preferito di de Maistre è pertanto “la pazza asserzione: l’uomo è nato libero”. Ai giorni nostri il suo erede italiano, Augusto Del Noce, ha potuto lanciare strali contro la società moderna tutta edonismo ed opulenza affermando l’esistenza di “razze morali irriducibili” la cui gestione non può essere affidata alla “falsa soluzione della tolleranza”, trovandosi la via di fuga invece in un reimpianto dell’organismo politico gerarchico e teocratico dei bei tempi andati. Questi i nemici della modernità, i compagni di tanti moderni utopisti “di sinistra”, reincantatori del mondo e apocalittici della società di mercato, pertanto, senza andare a cercare altri casi ovvi di volontà di reincanto nella melma della restaurazione teocratica più estrema (si pensi che l’incensato Agostino Gemelli si scioglieva alla sola parola “medievalismo”), è bene considerare che simili spinte verso il mondo pre-moderno possono assumere forme apparentemente opposte a queste in termini di principi espressi ma assolutamente assimilabili in quelli pratici. Si tratta di una sorta di ritorno all’utero, ad una totalità anteriore al suo disciogliersi negli individui che è il segno della modernità da parte di autori cosiddetti laici che non cessano di essere illiberali e anti-libertari per il solo fatto di ricercare tale reincanto, piuttosto che nel sacro, in un supposto solidarismo autentico che passa per comunismo originario perché comunque pone un bene comune come irrinunciabile, un totale sovra-individuale. Il livello di intolleranza di questi profeti del totale non cambia. Non sono poi rari i casi in cui il rimpianto assume realmente i connotati arcadici di un ritorno all’età dell’oro. Il romanticismo della Gemeinshaft che ancora ammalia certi primitivismi anarchici, ad esempio, è quanto di più vicino ad un desiderio di reincanto sia dato di vedere al giorno d’oggi. Murray Bookchin ne presenta una visione invero piuttosto raffinata ma alla fine gli elementi fondanti della sua società anarchica ed ecologista sono la comunità e la sua volontà generale espressa da una democrazia diretta su basa municipale che ha un acre retrogusto di plebiscitarismo. John Zerzan invece, messa da parte ogni finezza, ha deciso di insegnare ai poveri insipienti che costituiscono la maggioranza dell’umanità che la madre di ogni infelicità è stata l’invenzione dell’agricoltura che introduceva la divisione del lavoro, retrodatando quindi la società organica di parecchio rispetto all’idea corrente e proponendo un neo-luddismo incongruente, sua personale versione di bene comune incontrovertibile(8). Nell’ottica missionaria di chi detiene la ricetta per la società giusta non c’è spazio per idee e pratiche che se ne discostino, eppure certo socialismo “anarchico” non è mai riuscito a spiegare come intenda evitare la devianza costituita dagli appropriatori di risorse in una società collettivistica libertaria, meglio, come fare a gestirla senza intaccare la propria candida veste libertaria. Certe versioni un po’ naif dell’anarchismo non rappresentano altro se non una sorta di populismo alla russa che ha subito il processo di risciacquo nello spirito del ’68, quello marcusianamente apocalittico circa la società moderna e tutto teso all’instaurazione di una società naturale e ludica. E chi non vuole giocare? Il problema è tutto qui. Siamo di nuovo di fronte al by-passaggio della legge di Hume, alla pressante necessità di instaurare una condizione in base alla lettura di un dato ontologico, ad esempio il collettivismo in nome di una essenza naturaliter socialista dell’uomo. In realtà è impossibile immaginare una società comunista libertaria perché rappresenta un ossimoro logico. Società “naturale” non significa che esiste un ordine naturale e che questo sia quello collettivistico; la società naturale, cioè la società che non disponga di sovrastrutture imperative che ne alterino il corso, è un sistema in cui gli individui si confrontano e bilanciano le loro reciproche pretese in un gioco sempre attivo ed autopoietico che può arrivare ovunque e produrre di tutto. Questa condizione può rozzamente essere definita come “mercato”. In tale logica è assolutamente concepibile l’idea di una società collettivistica, comunista, ma solo se è il frutto di del desiderio di tutti gli individui componenti e sempre se questa società non obbliga i non contraenti il patto collettivistico (che altrimenti reinventerebbe la totalità indiscutibile) e se l’opzione di uscita rimane possibile anche per i contraenti che avessero riveduto la loro posizione. Diventa quindi evidente che questa società “comunista” che dipende dagli individui e non si impone sugli individui è in realtà, paradossalmente, una società “di mercato”.
§
Lo spirito della modernità è dunque spirito di emancipazione
dell’individuo che mette in crisi l’assolutismo, la teocrazia, i privilegi di
casta, le gerarchie e rivendica la propria autodeterminazione. E’ in tal senso
che l’anarchismo autoctono americano, alla cui base non trova alloggio il
populismo russo bensì il liberalismo dei padri fondatori, ha potuto rivendicare
il ruolo di custode e continuatore dell’ethos libertario che fonda
la modernità. Quando Paul goodman afferma che “dopo l’Ottocento, alcuni di noi
liberali hanno scelto di definirsi anarchici”(9) lo fa nella consapevolezza di
una esperienza culturale e pratica intimamente individualistica, radicata tanto
nel protestantesimo radicale quanto in quel liberalismo americano di cui i vari
Lysander Spooner, Josiah Warren e Benjamin Tucker hanno rappresentato la forma
più estrema e più compiuta. Questi autori si impegnarono in uno sforzo di
rigetto della totalità alla cui radice hanno posto la proprietà privata quale
unica garanzia di salvaguardia individuale. Il mercato, in tal senso, non è
esclusivamente un sistema economico basato sulla produzione e il capitale, ma
assolve fondamentalmente alla funzione di unico sistema che possa garantire la
protezione e la sovranità dell’individuo, ponendo al centro, non il
capitalista, bensì il consumatore. Solo lo scambio, cioè, porta giustizia e
libertà se ne manteniamo inalterati i connotati di libertà in mancanza dei
quali il sistema capitalistico può trasformarsi in un sistema di dominio. Da
ciò la lotta ai monopoli, alle corporazioni,
alle patenti, ai copyrights (Tucker), ecc. e proposte come il free-banking
(Spooner), cioè la creazione aperta a tutti di istituti di credito per limitare
la disparità di condizioni fra grande capitale e individui comuni, del “costo
come limite del prezzo” (Warren) e perfino delle confische dei latifondi
(Tucker), tutte cose sulle quali un certo anarco-capitalismo filo-capitalista a
senso unico, che della stessa etica si dice figlio e che agli stessi autori
esprime esplicito debito di riconoscimento, sembra allegramente sorvolare. Ciò su cui non è possibile
sorvolare è invece come in quest’ottica il mercato, al di là degli elementi
giusnaturalistici o utilitaristici che ne fanno da fondazione, è innanzitutto l’alternativa al monoteismo
etico che informa ogni forma di
intolleranza quando, dato l’inconciliabile contrasto fra i diversi valori che
presiedono all’ordinamento del modo, non può darsi che il politeismo dei
valori. La società libera è quindi la società “plurale”. Il “mercato”,
sganciando il termine dal suo esclusivo legame con le merci, è quindi quel
sistema che permette ad ogni singolo individuo la sua personale scelta, opzione
fra le tante, al di là di ogni scelta definitiva di un unico bene incontrovertibile.
In quest’ottica, quindi, l’anarchismo è compimento del liberalismo e, in quanto
tale, compimento della modernità.
Compimento che non può porsi se non come negazione dello stato nella sua qualità di sottrattore delle libertà degli
individui e alteratore dei processi sistemici autopoietici che abbiamo fin qui
denominato di mercato; questo non solo nella sua accezione economica ma anche
per ciò che riguarda il libero gioco di pretese ed aspettative che da luogo
alle norme, e quindi al diritto, che in
regime di monopolio statale pretende di imporsi su base territoriale agli
individui che hanno la ventura di
calpestarne il suolo. “Singolare
giustizia, che ha come confine un fiume! – disse Pascal – Verità di qua dei
Pirenei, errore di là”(10). Tralasciando
le complesse questioni giuridiche, a livello elementare è possibile dire che
gli individui che si confrontano creano naturalmente e in modo autopoietico un
ordine che è frutto dell’arrangiamento delle pretese e delle aspettative di
ognuno, che è quindi un “ordine giuridico”. In cibernetica questo concetto è
espresso dal termine “sistema”, ossia “due o più elementi intenti a definire la
natura e l’esito della loro relazione”. Un sistema ha delle qualità che sono
più della somma delle qualità delle parti costituenti ma che si modificano al
mutare anche di un solo elemento (basta la sottrazione di un atomo a
trasformare il diamante in grafite) e ciò supera tanto l’individualismo
metodologico caro a certo “liberalismo”, quanto l’organicismo caro a certo
“socialismo”. Ma i sistemi possono essere chiusi (come nelle società
tradizionali o nella mafia), o aperti (come nelle società moderne). Nel primo
caso gli equilibri (stati stazionari, in cibernetica) si mantengono a forza di
enormi sforzi imperativi di retroazione contro ogni infiltrazione dall’esterno
(input, bit di informazione), nel secondo caso il libero accesso di
informazione produce il continuo e fluido rigenerarsi e ingrandirsi del
sistema. I sistemi sociali aperti sono coscienti della assoluta temporaneità
del loro equilibrio. F. Von Hayek ha espresso qualcosa di simile quando ha
notato che tutte le società che hanno perseguito una perpetuazione del
libero confronto e si siano rette sul continuo afflusso di dati nel sistema si
sono espanse, arricchite e articolate sempre più in modo spontaneo e non
organizzato. La strutturazione di equilibri fra
individui può essere definito, slabbrando le pareti concettuali originarie del
termine, “mercato”. Ciò a causa del fatto che si tratta sempre di complessi
giochi di domanda e di offerta.
In definitiva, la cultura della modernità rompe i confini attraverso i
quali si esercitava nelle società tradizionali la possibilità di fidarsi degli
altri, possibilità che si basava sui vincoli di sangue e gli obblighi
tradizionali. In altri termini, laddove nelle culture pre-moderne la fiducia
era basata sul contesto locale, sulla vicinanza, al punto che sul globale e sul
lontano vigeva la sfiducia e l’ostilità,
l’attività sociale moderna è invece caratterizzata, come dice Anthony
Giddens, da “grandi spazi di interazione non ostile con gli sconosciuti”(11).
Nelle società organiche la fiducia è legata a “impegni di legame” implicanti la compresenza o almeno
la vicinanza psichica, mentre solo l’età moderna permette una cooperazione
estesa basata su “impegni anonimi”. I primi sono sistemi egemonici, i secondi
sono resi possibili dagli “emblemi simbolici” e dai “sistemi esperti”. Il
principale emblema simbolico è il mezzo di scambio, il denaro. I sistemi
esperti sono invece legati all’organizzazione e alla tecnica. Si può prendere
un aereo a Roma e scendere a Los Angeles senza conoscere il pilota, senza
sapere come funziona un aereo, senza neppure sapere realmente dove si trova Los
Angeles. Saliamo su un aereo e abbiamo “fiducia” nel fatto che atterreremo dopo
dieci ore a Los Angeles. Questo perché esistono una serie di sistemi esperti
che costituiscono un sapere periferico di appoggio. Ciò che spetta al profano è
esclusivamente un gruppo minimo di nozioni quali sapere cos’è un aeroporto, un
biglietto aereo, ecc. Ma la sicurezza del viaggio non dipende affatto dal
padroneggiare o meno l’apparato tecnico che lo rende possibile o dal conoscere
gli individui coinvolti e le loro culture di riferimento. I sistemi di fiducia
che presiedono alla modernità sono il prodotto di una rottura con le visioni
provvidenzialistiche di tipo religioso come degli affidamenti di tipo
sapientistico, oltre che della
decostruzione e de-localizzazione (disembedding)
dei sistemi sociali chiusi che colloca le interazioni a livello planetario.
Tutto ciò è frutto del sistema di libero fluire ed armonizzarsi di bisogni, idee, proposte, aspettative, ecc.
definito, in difetto di più adeguato termine,
“mercato”. Il mercato stesso, inteso come organizzazione di tali pretese
ed aspettative, è un sistema esperto. Non è necessario conoscere la chimica o
il procedimento di fissazione dei prezzi per acquistare un detersivo. Il
sistema-mercato rende possibile la cooperazione e la fiducia fra sconosciuti
altrimenti impossibile al di fuori di sistemi chiusi egemonici.
§
La considerazione che è possibile trarre
da quanto esposto può apparire paradossale. Forte infatti di un buon senso
atavicamente pigro e di una consolidata tradizione di cultura marxista, il
pensiero comune associa l’anarchismo all’utopia, intensa come un romantico
vagheggiare l’isola che non c’è. E’ ben
strano che questa connotazione allucinatoria sia riservata all’unica pulsione
“politica” che non ha dimostrato “scientificamente” il proprio fallimento, come
invece è avvenuto a teorizzazioni ben più “razionali”, se non addirittura sedicenti “scientifiche”. Questo per tacer
delle dottrine irrazionaliste quali il fascismo ed il nazismo a cui la razionale umanità ha comunque concesso di
fare un giro sulla giostra della storia.
E’ bene quindi intenderci su un punto.
Una spinta utopica, intesa come un orizzonte a cui tendere, un altrove
da edificare differente dal quotidiano,
è presente in ogni motivazione all’intervento sulla storia e sugli
uomini, non fosse altro perché altrimenti non esisterebbe neppure la pulsione
al cambiamento. Anche il socialismo ed il liberalismo presentano quindi in tal
senso un nocciolo utopico. Sempre in tal senso ciò è vero anche per l’anarchismo. Quindi aveva ragione Oscar Wilde quando
affermava che un atlante che non contemplasse il paese di Utopia non sarebbe
degno di essere stampato. D’altro canto,
commettere l’errore di concepire lo sfuggente orizzonte come un punto
d’arrivo definito e sclerotizzare tappe e modi del cammino, dandogli
quindi vesti “scientifiche”, vuol dire
costruire una impalcatura utopica in senso deteriore, con ciò intendendo una
visionarietà prescrittiva per cui si agogna un altrove prefabbricato
nell’iperuranio del visionario e si realizza un catechismo in cui l’ethos si trasforma in episteme, l’intuizione in precetto e attraverso questo si pretende di
modificare la realtà in un’ottica per
cui se i fatti non si adattano alla teoria, tanto peggio per i fatti. Così
inteso quello di Utopia è un paese di cui gli atlanti potrebbero
tranquillamente fare a meno. A questa deriva non sfugge nessuna teorizzazione
politica, neppure l’anarchismo. Fine di questo scritto è quindi quello di
presentare una concezione libertaria che
possa permettersi la stessa ironia che Proudhon palesava nei confronti
degli utopisti che volevano fondare la società comunista sulla fratellanza
quando la fratellanza è il fine, non il
principio della comunione, e affermava che “essi cominciano, come dice il proverbio, la loro
casa dagli abbaini”(12). Si vuole quindi
sottolineare come l’ anarchismo sia
l’unico modello in grado di disinnescare in sé le cariche negativamente
utopiche e porsi quale chiara griglia di lettura e realistica mappa del cammino
umano se solo fosse disposto a ricercare le proprie basi epistemologiche
lontano dai lidi della retorica naturalistica e teologizzante e cominciasse a
sfogliare e riscoprire senza pregiudizi le intuizioni dai migliori esponenti
del pensiero di quel gemello diviso e
finito in rovina che è il liberalismo, l’unica concezione sociale nata come
anti-utopia.
note:
1) F. Ton nies, Comunità e Società, Tr. It., Milano,
Comunità, 1963, pag. 4
2) R. Nozick, Anarchia,
Stato, Utopia, Le Monnier, Firenze, 1981
3) ibidem, p. 329
4) ibidem, p. 330
5) A. Sen, Etica ed
Economia, Laterza, Bari-roma, 1988
6) F. A. Von Hayek, L’Abuso
della Ragione, Vallecchi, Firenze, 1967
7) In P. Feyerabend, Contro
il Metodo, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 19
8) Per certi aspetti la versione più compiuta e quindi
pericolosa di questo voglia di reincanto del mondo e di imposizione di una
totalità a discapito degli individui costituenti è la cosiddetta filosofia New Age che pregusta una Gemeinshaft
globale guidata da saggi custodi.
9) Citato in P.Adamo, Mercato,
Proprietà, Anarchia, “Rivista Anarchica Online”
(www.anarca-bolo.ch/a-rivista/253/35.htm
10) B. Pascal,
Pensieri, xxxx, xxx, p. 294
11) A. Giddens, Le
conseguenze della modernità, trad. it., Il Mulino, Bologna, 1994, p. 120
12) P.J. Proudhon,
Critica della proprietà e dello stato
(A cura di. G.N. Berti), Milano, Eleuthera, 2001, p. 89.