Luigi Corvaglia

siamo uomini o corsari?

aporie criminologiche

 

La via della libertà non si persegue rendendo sempre più comodi i letti delle prigioni

Ernst Bloch

      Se, come ricordava Bertrand Russell,  il vero problema è che le persone intelligenti sono piene di dubbi, mentre ad essere sicuri sono sempre gli imbecilli, la nostra epoca di mass culture non rischia di essere ricordata come un trionfo dell’intelletto. La sicurezza fondamentalista da cui muovono molti discorsi è figlia di quella che Weber chiamava l’ “etica del principi”, i ragionamenti a-prioristici cui contrapponeva l’etica dei risultati  o “della responsabilità”. Le cosiddette “scienze dell’uomo” sono le più esposte al rischio di produrre, sulla base di affermazioni figlie della weberiana etica dei principi, fiumi di luoghi comuni e di retorica già pronti per l’amplificazione mass-mediatica. Non fa eccezione la criminologia. 

      Secondo la ben nota definizione di Becker, ad esempio, “criminale è chi viene definito tale con successo”. Questa fortunata formula, ormai luogo  comune della cosiddetta “criminologia critica”, ha l’indubbio merito di sintetizzare e rendere efficacemente l’idea del crimine e di chi lo commette come non sostanziali e non oggettivabili al di fuori di un contesto che ne produca il senso. Affermare che questa concezione è fulcro di un diluvio retorico relativista e riduzionista è asserire senza dubbio il vero ma, al contempo,  manca l’obiettivo di invalidare la realtà che essa veicola. D’altro canto, fronteggiarle concezioni eziologiche della criminalità di carattere sociologico o psicologico significa contrapporre alla supposta banalità di un labelling approach  così inteso ben più sterili  riduzioni ed esporsi a maggior rischio retorico. E’ esperienza comune e quotidiana di ogni fruitore dei mass media, infatti, sentire pontificare maistre-a-penser e bottegai – senza apprezzabili variazioni di grado nella finezza delle argomentazioni - su cause e rimedi della criminalità che assumono le varie sfumature che vanno dalla “tolleranza zero” verso i delinquenti, visti come tipi antropologici e psicologici definiti, al recupero delle aree degradate e senza lavoro, passando per il paternalismo normalizzatore della retorica della “riabilitazione” del deviante. Similmente, quando si tratta di individuare focolai ed untori del morbo delle supposte epidemie di criminalità che a ondate più o meno regolari costituiscono il tema delle emergenze sociali, ben pochi dimostrano di sottoporre a critica alcune idee vincenti della propaganda mediatica che individua con facilità nuove classi pericolose  Il comune sentire, la psicologia del common sense  è permeata da quegli stessi schemi e stereotipi “monistici” e ingenui, da quelle stesse causalità lineari che hanno contraddistinto la criminologia classica e, come questa, è animata dalla fiducia che modificare dei dati di fatto (le cause) serva a eliminare altri dati di fatto (i crimini). Così, se i riformatori e i “progressisti” producono discorsi uniformati verso il basso dagli inconsapevoli echi della “teoria ecologica” o delle cosiddette “teorie del conflitto”, il minimo comun denominatore che informa di sé le varie forme della conservazione è la riproposizione dello schemino scolastico di Merton che, duole dirlo, è il maggior contributo dello struttural-funzionalismo alla sociologia della devianza. In ogni caso, la oggettivazione del crimine è data per scontata. Il crimine esiste, ha delle cause individuabili ed alla società è demandato il compito di trovare i modi per eliminare il primo agendo su queste ultime. La logica sottesa rimane quella della “difesa sociale”. In tale ottica,  crimine e criminale sono elementi dannosi per la società, pertanto l'intervento penale si giustifica quale reazione difensiva di una maggioranza "normale" di fronte ad una minoranza di "diversi" e di "pericolosi". Che la patologia sia individuale o sociale poco cambia o importa.

      E’ indubbio merito del pensiero marxista aver denunziato la fallacia di una concezione ontologicamente data di criminalità, insensibile alle dinamiche conflittuali della società, mostrando  invece il carattere contingente della devianza, la quale riflette nient’altro che gli esiti di detta conflittualità. Il diritto non cala dal cielo ma da una parte del corpo sociale, nello specifico, dalla classe dominante. Ne consegue, secondo la lettura marxista, che i beni giuridici, gli interessi che questo diritto dello stato (“comitato d’affari della borghesia”) tutela siano gli interessi della classe dominante. Pertanto, la individuazione dei comportamenti criminali è funzionale al mantenimento dei rapporti di potere dati. Magistrale, a tal proposito, per efficacia e chiarezza espositiva, quanto il giovane Marx, redattore della Gazzetta Renana, scrive a proposito della legge sui “furti di legna”. Questo “crimine” era perpetrato  dai contadini poveri che raccoglievano la legna che cadeva dai carri, e sarebbe quindi andata comunque perduta,  che attraversavano le grandi distese dei latifondi. La legge prevedeva che a sottoporre all’arresto i “criminali” potessero essere gli stessi guardiani forestali prezzolati dal latifondista. Nota Marx: “Questa logica, che trasforma il dipendente del proprietario forestale in una autorità statale, trasforma l’autorità statale in un dipendente del proprietario”.  La devianza, quindi, è la semplice trasgressione di norme, ma la natura di queste norme è eminentemente politica e contingente. E’ su tali basi concettuali che la criminologia radicale produrrà la politicizzazione della labelling theory. Del resto, come avrebbe messo in luce Sutherland, non tutti i crimini e non tutti i criminali vengono considerati tali, non tutti quelli così definiti vengono perseguiti. Il noto concetto di “numero oscuro”, per anni fulcro della nuova criminologia, ha rappresentato quasi una sorta di “memento”, di voce della coscienza che ricorda all’indagatore del sociale il suo peccato originale. Uccidere qualcuno per strada, si diceva, è un omicidio facilmente riconoscibile, ma avvelenare lentamente mediante sofisticazioni alimentari o inquinamento industriale, o ancora le morti bianche sul lavoro  non sono atti che vanno a rimpolpare le statistiche sulla criminalità. Analogamente, lo stesso atto riconosciuto, sia esso un omicidio o un furto, presenta, a seconda dell’attore che lo inscena, notevoli differenze nella risposta sociale. Ciò è all’origine di quella “immunità differenziale” di cui si è a lungo parlato nei circoli più esclusivi della sinistra criminologica. Che detta immunità avesse connotati classisti, che fosse cioè correlata allo status ed al censo, è stato motivo di denuncia da parte della criminologia orientata a sinistra. Né andrebbe dimenticato, però, come invece fanno, nella loro apologia dello stato, proprio i fini dicitori di detti salotti,  che lo stesso atto, se compiuto da agenti statali o su licenza governativa è assolutamente legittimo, mentre se commesso da un singolo concorrente privo di patente statale è un illecito criminale. Dice Szasz, esponente libertarian, cioè della forma più estrema di quel pensiero liberale e liberista che è la perfetta antitesi del marxismo, che vendere alcune sostanze fa diventare spacciatori, venderne altre fa diventare stimati esponenti delle camere di commercio. Probabilmente la miglior metafora di questa situazione ce la fornisce la vecchia distinzione fra pirati e corsari. I primi erano dei tagliagola che assaltavano e derubavano le navi, i secondi dei tagliagola che assaltavano e derubavano le navi delle nazioni avverse e con la autorizzazione del proprio stato (la “patente di corsa”) . I primi potevano, come capitan Kidd, finire appesi e divorati vivi dai corvi per fini di “difesa sociale” ad opera delle benevole strutture dello stato, i secondi potevano ricevere onori e riconoscimenti per esser parte delle benevole strutture dello stato. Fulgido esempio di questa seconda specie fu Sir Francis Drake (1).

      E’, però, a causa della assunzione di principi difficilmente falsificabili, nel senso di Popper, che entrambe le correnti di pensiero arrivano a dei cortocircuiti che finiscono per inficiare, nella conclusione pratica, quanto espresso in premessa. Circa la prospettiva marxista, ciò che non convince è la prospettiva estremamente soggettivistica (come già espresso dallo stesso Lemert, fondatore della scuola dell’etichettamento) per una dottrina che nega l’esistenza dell’individuo sganciato dalla società (2). Per quanto riguarda le scuole criminologiche e, soprattutto, le pratiche politiche ispirate ad un certo neo-liberismo, colpisce, al contrario, la scarsa attenzione per l’individuo in una concezione che afferma l’inesistenza della società se non come aggregato di singole identità autonome. 

Due esempi renderanno il senso di quanto appena espresso e aggiungeranno ulteriori elementi di critica. Il primo riguarda la “criminologia attuariale” (secondo la felice definizione di Alessandro De Giorgi) che sta acquistando sempre più credito nel mondo anglosassone. Senza scomodare il solito Foucault e il suo concetto di “società disciplinare”, alla quale ora sarebbe succeduta la “società del controllo”, è indubbio che l’idea di un allentarsi della pressione dell’autorità sugli individui con l’evoluzione della società è un esempio di quei luoghi comuni dai quali era partito il nostro excursus. Così come agli assicuratori l’utilizzo della matematica attuariale serve a suddividere i clienti in fasce di rischio, cioè a gestire collettività determinate per trasformare il rischio in denaro, così la montante visione prodotta da un neo-liberismo criminologico, improntato alla logica costi-benefici, tendono a individuare classi di rischio criminale per definire i criteri di intervento più “produttivi”. Principale esemplare di prodotti “assicurativi” di tal fatta è rappresentato dal Floud Report presentato in Gran Bretagna nel 1981. L’ipotesi prospettata è quella di individuare categorie di soggetti in modo tale da calibrare le risposte delle corti in base al “carico di rischio”.  La gravità di una condanna, quindi, dipenderà non dall’entità del reato o dalla pericolosità individuale del reo, bensì dal livello stimato di pericolosità della classe a cui appartiene, del gruppo in cui è inserito. Che la classe di rischio finisca sempre per coincidere con quella sociale è notazione forse superflua. La logica è che, ad esempio,  uno spacciatore di strada, magari clandestino, integrato in una rete di altri spacciatori, è altamente pericoloso e merita una protective sentence, cioè una pena indeterminate, sine fine, cioè perdurante finchè dura la “pericolosità sociale”. Un ricco rampollo dell’industria che sia sorpreso a spacciare nei salotti buoni in compagnia di altolocati amici, essendo scarsamente pericoloso socialmente, merita una ordinary sentence. Quello che era il memento critico di  Sutherland, da errore di compilazione e di lettura delle statistiche, diviene degno operare.  L’immunità differenziale viene istituzionalizzata. Tale tipo di logica viene riproposta nel 1996 dal rapporto Kemshall per la valutazione della pericolosità ai fini della concessione della probation. Ciò che più è da notare, in una ottica che pure dovrebbe mettere l’individuo al centro dei propri interessi, la scomparsa dell’individuo “deviante”, sostituito da astrazioni e compattamenti statistici, e la scarsa importanza attribuita tanto  ai fattori motivanti (in una non esplicita adozione della concezione della “scelta razionale”) quanto ai processi di creazione sociale del crimine.

     Il secondo esempio riguarda la celebre teoria delle “finestre rotte” proposta da Kelling e Wilson nel 1982. Sulla base della nozione molto common sense che  un territorio urbano degradato e lasciato a se stesso è più probabilisticamente collegato al manifestarsi di trasgressioni, l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani ha decretato il suo piano di “tolleranza zero” che aveva quale prerequisito il recupero della metropoli al decoro urbano e la repressione delle trasgressioni minime. Fra queste ultime, il dipingere graffiti, dormire nella metropolitana, l’elemosina aggressiva, il viaggiare sui mezzi pubblici senza biglietto, ecc. La retorica della tolleranza zero ha fatto gridare al miracolo. Si rimanda al testo di De Giorgi per una critica dell’efficacia reale del piano perpetrato da Giuliani, che risulta più che altro una montagna (di retorica) che ha partorito un topolino, ma è opportuno qui segnalare ciò che è “costato” -  visto  che in tali termini ci si esprime – in termini di invalidazione di diritti. Nel 1996 Amnesty International pubblica un rapporto sulla brutalità del New York City Police Department cui Giuliani aveva concesso grossi poteri discrezionali per arresti e perquisizione. Dal 1994, anno di adozione del piano, le richieste di risarcimento per danni causati da perquisizioni sono aumentate del 50%, le denuncie per abusi di vario genere del 41%, i risarcimenti per violenza quasi raddoppiati nel giro di pochi anni e, soprattutto sono aumentate dal 1993 al 1994 di ben il 53% i civili deceduti in modo “sospetto” durante custodia di polizia e, nello stesso periodo, incrementato del 35% il numero di civili uccisi durante operazioni di polizia. Il rapporto di Amnesty  mette in risalto poi le pratiche razziste del NYCPD e l’esistenza di un codice omertoso all’interno delle “forze dell’ordine”. Ne consegue che la soppressione di piccoli “reati”, ammesso che graffitare, chiedere l’elemosina e ripararsi in metropolitana lo siano, è stata operazione portata avanti mediante quelli che, secondo una logica coerentemente “liberale” e giusnaturalista, sono da considerarsi crimini gravi. In definitiva, il rischio è che si debba aver più paura dei corsari che dei pirati.

 

note

 [1] Il pensiero liberale ultrà definito “anarco-capitalismo”, sulla scorta della difesa ad oltranza dell’individuo, arriva ad affermare che “Lo Stato commette abitualmente omicidio di massa chiamandolo guerra, o talvolta eliminazione dei sovversivi; lo Stato pratica la schiavitù nelle proprie forze militari, e la chiama coscrizione; vive giustifica la propria esistenza attraverso la pratica della rapina chiamata tassazione (…) A differenza di tutti gli altri pensatori, di sinistra, di destra e di centro, il libertario si rifiuta di dare allo stato la licenza morale di commettere azioni che quasi tutti considerano immorali, illecite e criminali se commesse da privati” (Murray Rothbard).   Si noti che, per quanto quest’ultima concezione possa a prima vista apparire come una estremizzazione della visione relativista da cui è partita la nostra indagine, al punto da sovrapporsi a concezioni tipicamente anarchiche “di sinistra”, nella visione libertarian viene a cadere proprio quell’elemento di contingenzialità del crimine che riassume qui una sua oggettività e sostanzialità indifferente alla cornice. Proprio perché partono dalla individuazione di inviolabili diritti naturali, quelli descritti da Locke, questi giusnaturalisti campioni del liberismo possono centrare sul “principio di non aggressione” che da detti diritti discende la loro critica all’autorità dello Stato. Dato, cioè, un oggettivo e sostanziale crimine, ovvero l’aggressione, diventa assolutamente indifferente se a metterla in atto sia un privato o uno Stato.

 

 

[2] Ma ad invalidare la concezione della New Criminology radicale (Taylor, Walton, Young, ecc.) sono  soprattutto lo scarso rigore scientifico e la romanticizzazione della devianza cui si attribuisce sempre e comunque  una funzione rivoluzionaria contro il sistema capitalistico. T. Platt, dimostrando di accogliere una concezione sostanzialistica del crimine, afferma che i veri crimini da combattere sono “l’imperialismo, il razzismo, il capitalismo, il sessismo e gli altri schemi di sfruttamento che danno il loro contributo alle miserie umane”. Fatto è che, su tali presupposti, ci si dovrebbe aspettare i tassi più alti di devianza e ostilità al sistema nella working class. I dati empirici, invece, dimostrano che è proprio in quella classe che allignano gli atteggiamenti più conservatori e reazionari, la xenofobia, l’accettazione della gerarchia, il favore per la pena di morte, ecc.