Alberto Mingardi
la libertà come orizzonte
morale
> Benjamin Constant, La libertà degli
antichi paragonata a quella dei moderni, a cura di Luca Arnaudo,
pp.60+XXXVI, Liberilibri, Macerata, 2001, lire 20.000
Personaggio storico dalla
vita leggendaria, Benjamin Constant è stato, parola di Giovanni Sartori,
"il più importante pensatore politico della sua epoca" - ed è una
benedizione che Liberilibri, elegantissimo editore di Macerata, ristampi in
un’edizione preziosa il suo La libertà degli antichi paragonata a quella
dei moderni, testo di un discorso pronunciato all’ateneo di Parigi nel
1819, che è un piccolo grande classico del pensiero liberale.
Nato a Losanna il 25 ottobre
del 1767, discendente degli ugonotti che avevano abbandonato la Francia dopo la
revoca dell’editto di Nantes, Constant ha una formazione scostante ed errabonda
- caratterizzata dai lunghi soggiorni presso l’università di Erlangen prima e
quella di Edimburgo poi.
Quest’ultima, allora, era
uno dei centri più floridi del pensiero Whig, alma mater di Adam Smith e
di Adam Ferguson. Sul giovane Benjamin, la vita parigina e il gioco d’azzardo
esercitano un fascino magnetico: bazzica i consessi intellettual-salottieri da
prima dello scoppio della rivoluzione, a vent’anni appena. Ma, curiosamente, è
solo il 18 ottobre 1794, in Inghilterra, che, auspice la cugina di lei Costance
Cazenove d’Arlens, s’imbatte nella regina dei salotti, Madame de Stael.
"Napoleone è in guerra
contro quattro potenze: l’Inghilterra, la Russia, l’Austria e Madame de
Stael": questo si dirà, di lì a poco, di questa donna straordinaria.
Figlia di Jacques Necker, banchiere ginevrino e ministro di Luigi XVI, nata a
Parigi un anno prima di Constant e morta nel 1817 (le sopravvivrà per tredici
anni), Anne-Louise-Germaine Necker, dopo aver rifiutato una proposta di
matrimonio di William Pitt, convolerà a nozze, senza amarlo mai, con il barone
de Stael-Holstein, ambasciatore di Svezia a Parigi (se ne separerà
definitivamente solo nel 1802).
A Constant che la corteggia,
dapprima oppone resistenza - salvo andarci a vivere assieme, all’inizio del
1795. I due torneranno a Parigi nel mese di maggio, quando Madame de Stael
riaprirà il suo salotto in rue du Bac, senz’altro il più eclettico e rinomato
di quei tempi. Da questa relazione turbolenta, fatta di alti e bassi e liti
furibonde, movimentata da frequenti interludi amorosi con altri amanti tanto da
parte di lui che da parte di lei, nascerà Albertine, terza "figlia"
del barone svedese, cornuto e contento.
La liaison fra la de Stael e
Constant dura fino al 1811, attraversa gli anni dell’ostracismo contro di lei
(messa alla porta da Napoleone nel 1804) e dell’esilio volontario di lui
(espulso dal Tribunato, di cui faceva parte, nel 1802), sino al matrimonio di
Constant con Charlotte de Hardenberg nel 1806, e la nascita di Coppet, il
ritiro intellettuale svizzero in cui brillano gli ultimi Lumi, e germogliano i
primi fiori del romanticismo. A dispetto di questo prendersi e lasciarsi, il
sodalizio fra Benjamin Constant e Madame de Stael è fra i più floridi sul piano
intellettuale: la frequentazione con quest’autentico motore della vita
intellettuale dell’Europa di quegli anni, con questa cosmopolita levatrice
d’intelligenze, con questa intrigante libertaria si riverbera senz’ombra di
dubbio negli scritti di Constant.
A cominciare da quel De
l’esprit de conquête et de l’usurpation che lo consacra nel 1813.
Nel 1830, gravamente
ammalato, Constant partecipa ai moti rivoluzionari - e si spegne dopo aver
assistito all’affermarsi della monarchia di luglio. In questo libretto a cura
di Luca Arnaudo, oltre al discorso che gli dà titolo, vengono riproposte la
Nota sulla sovranità del popolo e i suoi limiti (1818) e il saggio La
letteratura nei suoi rapporti con la libertà. In tutto, fa una lettura veloce,
sessanta pagine appena, ma corroborante, viva. C’è la grandezza di un classico,
e la lievità serena della pamphlettistica migliore.
Diceva Constant di sè:
"ho sempre difeso il medesimo principio: libertà in tutto; e per libertà
intendo il trionfo dell’individualità, tanto sull’autorità che dovrebbe
governare con il dispotismo, quanto sulle masse che reclamano il diritto di
asservire la minoranza alla maggioranza. Il dispotismo non ha alcun diritto
sull’opinione personale e ciò che è individuale non dovrebbe essere sottomesso
al potere sociale".
Ci sono, in queste parole,
un’immensa forza visionaria, un’incredibile capacità anticipatrice di quelle
che saranno problematiche e sfide del liberalismo di domani: il matrimonio a
termine con la democrazia, e il dover fronteggiare l’assalto impietoso del
principio di maggioranza anzitutto.
Come ha scritto Ralph Raico,
Constant è uno di quei personaggi che testimoniano come il liberalismo, pur non
avendo avuto la Francia come terra d’elezione, è incredibilmente debitore alla
tradizione francese. Ma, a differenza di intellettuali come Mercier de la
Rivière e Du Pont de Nemours, o del suo contemporaneo britannico Jeremy
Bentham, Constant non è un liberale d’ispirazione utilitarista. "E’ dunque
così vero che la felicità, di qualunque genere possa essere, è il solo scopo
della specie umana?", si chiede in un dialogo ideale con i portabandiera
dell’utilitarismo.
La risposta è no:
"Signori, io chiamo a testimone questa parte migliore della nostra natura,
la nobile inquietudine che ci perseguita e tormenta, l’ardore di estendere le
nostre conoscenze e sviluppare le nostre facoltà: non alla felicità soltanto,
ma anche alla ricerca della perfezione il nostro destino ci chiama; e la
libertà politica è il più potente ed energico strumento di perfezionamento che
il cielo ci abbia concesso".
Come sottolinea ancora
Raico, Constant smentisce inoltre il luogo comune del liberale economista, pur
essendo un ardente alfiere della libertà di mercato. Le sue preoccupazioni oltrepassano
le leggi dell’economia, per puntare al cuore del problema della libertà. Che è
una questione morale.
Per lo stesso motivo, Constant rigetterà la presunzione fatale dei liberali
immaginari, apologeti a tutti i costi della Rivoluzione Francese (di cui, pure,
ricorda il carattere emancipatore) - e condanna la pretesa di un laicismo a
tutti i costi, di un anticlericalismo per tutte le stagioni, così tipico di
certo illuminismo. Nelle sue Réflexions sur les Constitutions et les
Garanties (1815), Constant elogia il carattere positivo del localismo,
identificando nel senso di realtà verso la comunità e la famiglia un importante
arma contro l’avanzare del dirigismo. La devozione alla propria terra più che
alla bandiera "contiene i germi di una resistenza che l’autorità politica
soffre, e che essa cerca in tutti i modi di sradicare".
Allo stesso modo, Constant
prefigura i pericoli dello "Stato laico", che è solo un’altra
variante dello Stato etico, che fa "della religione uno strumento contro
la libertà" - e il pensiero corre all’immaginifica Chiesa della Ragione
inaugurata da Robespierre.
Ma quale è la differenza fra
libertà degli antichi e libertà dei moderni per come ce l’illustra Constant in
questo straordinario discorso? La libertà degli antichi, che trovava forma
nella democrazia diretta ateniese, non era il paradiso che ci disegnano: la
guerra era l’attività primaria delle società, lo schiavismo il suo necessario
corollario.
La libertà dei moderni trae la sua forza in un’altra attività: il commercio.
"Il commercio ispira agli uomini un vivo amore per l’indipendenza
individuale: provvede ai loro bisogni, soddisfa i loro desideri, e questo senza
l’intervento dell’autorità". E’ l’esperienza del mercato a creare una
sorta di anticorpo naturale al virus del dispotismo, perché "ogniqualvolta
i governi pretendono di farsi i nostri affari, li fanno peggio e più
dispendiosamente di noi" (e potrebbe essere quasi una legge della storia).
Per questo, e per gli
interminabili vari impegni che la vita moderna porta con sé, nonché per
l’estensione enormemente superiore degli Stati, Constant sostiene che la
libertà nostra, a differenza di quella degli antichi, non è
"partecipazione" nel dominio dell’uomo sull’uomo, non risiede nella
presenza costante negli ingranaggi del potere collettivo. No: "la nostra
libertà sta nel tranquillo godimento dell’indipendenza individuale".
E il mercato contribuisce a rendere l’uomo sempre meno schiavo della politica:
"l’esistenza individuale è meno inglobata nell’esistenza politica. Gli
uomini trasferiscono lontano i propri tesori, portano con sé tutti i piaceri
della vita privata; il commercio ha riavvicinato le nazioni e ha dato loro
costumi e abitudini praticamente paralleli; i capi di Stato possono essere
nemici, ma i popoli sono compatrioti". Difficile trovare formulazione più
cristallina e convincente dell’ideale di pace e libertà, che unisce Constant a
un altro grande teorico francese, Frédéric Bastiat. Ma è anche impossibile
imbattersi in una citazione più profetica, sul mondo nuovo della
globalizzazione: paradisi fiscali inclusi.
Constant previde non solo le
gioie ma anche i dolori con cui oggi dobbiamo fare i conti: nella Nota
sulla sovranità, mette in guardia dalla superstizione politica
rousseauiana, denunciando il mito del potere al popolo e, in ultima istanza, la
frode buonista della democrazia. Che "si rende colpevole allo stesso modo
di un despota, che fonda il suo diritto sulla spada sterminatrice: la società
non può eccedere nelle sue competenze senza essere usurpatrice, la maggioranza
non può farlo senza essere faziosa". Il Contratto sociale di
Rousseau è, per Constant, "il più terribile strumento d’aiuto di tutti i
generi di dispotismo".
Perché "il consenso della maggioranza non è per nulla sufficiente a
legittimare i suoi atti: e quando una qualsiasi autorità commette atti
criminali, poco importa da quale fonte essa dichiari di derivare; poco importa
che si chiami individuo o nazione, perché sarà l’intera nazione, meno il
cittadino che essa opprime, a non essere più legittima".
Giustizia, legittimità,
libertà, individuo: sono queste le stelle polari del liberalismo di Constant.
Una lezione che certi liberali alle vongole di oggi farebbero bene a ripassare.
"Il Nuovo", 17 settembre 2001
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