Jennifer Compton
pedinando Lou Reed a Genova
Mi parve divertente decidere che la mia missione al Festival Internazionale di Poesia di Genova era fare una foto a Lou Reed. Mi ringalluzzii tutta quando scoprii che era uno dei grossi nomi al mio primo festival europeo. Mai, nemmeno nei miei sogni più folli, avrei immaginato di fare da spalla a Lou Reed. Ballai per la casa, nitrendo: “Raccoglierai quel che hai seminato”.
Avevo in mente un’immagine di tutti i poeti rintanati in un delizioso alberghetto. Ci vedevo barcollare alla prima colazione, tardi, spettinati, non rasati e disidratati, perché eravamo rimasti alzati fin dopo l’alba, mandando giù grappini, riformando il mondo. Potevo prevedere molte occasioni in cui “Ti ordino una grappa, Lou?” sarebbe stata la cosa più giusta da dire.
Mio figlio non era ottimista. Fece con la
bocca la smorfia che fa quando pensa che sto partendo per
Alzai il volume su Berlin. La città non era la
stessa, ma non stanno tutte nell’Altro
Emisfero? Tutte oltre l’equatore, che non avevo mai traversato, nella semisfera
superiore del mondo?
Il Festival di Poesia di Genova? Ovviamente è stato molto
diverso da un festival che potrebbe aver luogo agli antipodi. Pochissimi
parlavano inglese. Non me l’aspettavo. Chissà perché. Mi disorientò la
differenza fra stare al centro dell’universo linguistico ed essere una
“stupida” che capisce poco. Cosa mi serve lo spagnolo tradotto in italiano?
Francamente, niente.
Durante una lettura a ora tarda al Centro Lebowski, il
poeta milanese si voltò verso di me e chiese: “Cosa capisci?”.
Quando feci la faccia “Non-capisco-quasi-niente”, tutto
l’uditorio rise di me. Ma capivo abbastanza per sapere che ridevano di me
perché non capivo.
Capii anche che Lou non sarebbe sceso con i poetini al
Novotel. Nessuno starebbe al Novotel se non vi fosse obbligato. Gli italiani
sembrano in genere orgogliosi del loro lavoro, ma il personale era, quasi al
100%, tetro, scontroso e pressoché l’opposto di gentile. L’albergo era in una
posizione sfavorevole e malamente tenuto. NOVO diceva la grande vecchia insegna neon accesa sull’autostrada. Il TEL
era fuori gioco.
“A quanto pare Lou non sta al Novo” dissi al poeta
inglese Simon Armitage, mentre scriveva una poesia in un caffè di Palazzo
Ducale.
“Chissà perché la cosa non mi sorprende”, rispose.
Perlustrai
Una cara amica mi aveva mandato una mail prima del
decollo. Diceva che se Lou Reed non avesse voluto girare Genova con me e
divertirsi un po’, allora il rock era morto!
Passeggiavo per le colline di Genova il pomeriggio prima
della sua lettura al Teatro della Corte – Okay, non è che prendessi questa
faccenda del pedinamento proprio sul serio, se no mi sarei appostata nei pressi
del Teatro della Corte, nella speranza di vederlo un attimo all’arrivo per la
prova – quando m’imbattei in un graffito.
ROCK IS NOT DEAD!
Che gentili a scrivere in inglese, altrimenti non avrei
saputo che, per quanto Lou Reed mi evitasse, il rock non è morto.
Fino a quel momento il Festival era stato piacevolmente
informale. All’aperto nel cortile di Palazzo Ducale o nella piccola sala
conferenze del Museo Sant’Agostino. In un night fresco del centro storico. O
sulla Passeggiata di Nervi a mezzanotte. Cose del genere.
Il Teatro della Corte era un luogo abbastanza formale. Un
teatro moderno da 800 posti. Maschere
dappertutto. Una volta che avevi il biglietto dovevi entrare nel teatro. Io non
volevo. Perché ero uno dei poeti. (E’ così seducente questa faccenda del
non-devo-fare-quel-che-fanno-tutti-gli-altri.) I miei amici, i volontari del
festival e lo scenografo e il tecnico e la ragazza che lavorava nell’ufficio,
portavano delle targhette PASSEPARTOUT.
E avevano un aspetto disturbato, scocciato e più o meno scazzato.
Non riuscii a capire nemmeno la metà, ma dedussi che era
qualcosa che aveva a che fare con massaggi, microfoni insoddisfacenti,
truccatori, e i camion della spazzatura che bloccavano l’ingresso di servizio
del teatro proprio quando Mr. Wonderful cercava di filar dentro senza farsi
notare. (Aveva avuto notizia di Jennifer Papparazza l’australiana!)
Dopo un paio di sigarette fuori, col biglietto al sicuro nella
tasca dei calzoni, entrai in platea. C’era un’ampia area recintata in quanto
Riservata (per le Autorità che sarebbero arrivate in gruppo e sarebbero state
scortate al loro posto) e fuori da questa zona c’era una folla ribollente e non
c’era una poltrona senza un paio di chiappe, o un giornale o scialle per
l’amico, da nessuna parte. Così mi misi su uno scalino. La maschera mi disse
che non era permesso. Me ne andai. Cercai di restituire il biglietto ma il
foyer era diventato un caos. Nessuno lo voleva.
Individuai un American Bar che dava proprio sul foyer e
mi ci infilai per tirarmi su con un whisky. Il bar aveva un cagnolino in pianta
stabile sul ripiano della cassa. Cose che capitano in Italia. Nessuno si
stupisce di un cane o due.
Il whisky cominciò ad agire. Eccellente.
Cinque alle nove. Alle nove parte lo show. Ovvero, come lo chiamava la barista,
lo “spettacolo”. Suona parecchio più spettacolare che show, no?
Un’ondata di persone PASSEPARTOUT si
riversò nel bar. Ritirarono una caraffa di tè su un vassoio, dozzine di
bottiglie di acqua minerale, ogni genere di spuntini. Consultarono liste ed
ebbero attacchi di panico. Il cagnolino si mise in ansia per via delle
vibrazioni parossistiche e cominciò ad abbaiare. Raccolsero le cose necessarie
e partirono dal bar in una sola ondata.
Il conto sarà stato 50 euro. Walter, che portava il vassoio col tè, lo teneva
alto e cercava di non versarne una goccia mentre trottava fuori ultimo della
fila.
Per quanto non avessi mai visto prima delle
scene del genere, immaginai che si trattasse di una star che faceva una scenata
a proposito di quanto era necessario prima di mettere piede sul proscenio.
Potevo quasi simpatizzare. Una tazza di tè è così rassicurante per
“No, no, signora,” mi dicevano. “Ha già
pagato il suo drink.”
“Sì, lo so. Ma ne voglio un altro.”
“No no, signora. Ha già pagato.”
Gli italiani sono astemi. Questa è stata
la mia grossa sorpresa italiana. Prendono un
drink robusto, e un negroni o una grappa sono robusti, e basta.
Fortunatamente, Valentina, la ragazza simpatica che lavora nell’ufficio, arrivò col suo PASSEPARTOUT, e disse al barista che volevo un altro drink.
La cosa lo colpì.
“E’ australiana”, spiegò Valentina.
Erano le nove e cinque. L’altra gente
PASSEPARTOUT entrò barcollando nel bar, e ordinò negroni doppi con una bibita
per correggerli. I Modi della star li avevano fatto mangiare
“Prendi un altro negroni. Ci vuoi insieme un negroni?”
La cosa divenne un po’ sciocca. Il barista non inorridì
quando chiesi un terzo whisky. Il cagnolino fu lasciato uscire da dietro
Cercammo di immaginare la vita senza Transformer e
Rock ’n Roll Animal. Cercammo di immaginare la vita senza il Velvet
Underground. Io non ce la feci a immaginare la vita senza Berlin. E’ da
troppo tempo che
Il critico francese sbronzo arrivò al nostro tavolo,
silenzioso e contemplativo. Annunciò che uno schermo era stato installato nel
foyer per quelli rimasti fuori, e che l’Imperatore era nudo. Il traduttore
stava leggendo molto meglio di Lui.
“La poesia è generosa”, disse. “Tutto questo non è
generoso”.
Avevo dato un’occhiata al libro di Lou, The Raven,
su un tavolo del foyer. Avevo venduto tre copie del mio libro alla mia lettura,
ma sembravano dell’idea che stasera sarebbe andata meglio. Pile e pile di
libri. Mi pare che qualcuno mi avesse detto che era un rifacimento di The
Raven di Edgar Allen Poe. Non vedevo nessun collegamento. Però non lo lessi
tutto. Solo il test apri-a-caso e vedi-se-ti-prende. Certe parti, come quella
sulla rana calda e la canzoncina su minuetto rock, sembravano proprio sceme. Ma
dovevo lasciar molto spazio per la trasformazione spettacolare. Lo si deve, a
un festival.
Presi
la scomoda decisione di lasciare il bar e controllare l’evento sullo schermo
nel foyer. Il bar stava per chiudere e una volta usciti non si poteva rientrare.
Il cane era ancora nervoso e mostrò i denti mentre facevo il passaggio di sola
andata.
Che splendido costume indossa
Poi era il turno del traduttore. Ci diede dentro.
Accidenti, in italiano suonava bene. Letto con un po’ di brio e verve.
Oh beh. Se avessi davvero fatto tutta questa strada fino
a Genova per vedere Lou Reed, il Poeta, sarei stata un po’ delusa. Così come
stavano le cose, non ho fatto a pezzi i miei cd, così ho ancora il suo meglio.
Il francese sbronzo, il poeta locale, i nuovi arrivati
islandesi, la poetessa siriana scandalosamente femminile, il belga e io ci
avviammo verso il centro in cerca di un bar. Un bar qualsiasi. Ero preoccupata
per le scarpe della poetessa siriana, ma era imperturbabile e flirtava con il
suo foulard di seta, mentre consumavamo il primo giro.
Ma ci raggiunsero sul cellulare del francese,
convocandoci al Napoleon. Dove Lou aveva
chiesto di cenare tranquillamente con pochi intimi.
Posso solo pensare che qualcuno voleva davvero fargli un
dispetto. Convocandoci alla cena tranquilla con pochi intimi. Eravamo tutti su
di giri e la passeggiata fino in centro ci aveva rinfrescato. Eravamo ansiosi
di correre.
Ci riversammo nel Napoleon. Diedi a Lou una bella
occhiata da sotto il mio cappello di paglia da soli due metri di distanza. Non
avrei potuto tendere la mano per toccarlo ma avrei potuto fare una foto. Se
avessi ancora voluto. La poetessa
siriana fece un po’ di lavoro con il foulard di seta. Solo per abitudine o
tensione nervosa. Qualcosa del genere.
Vidi Lou spingere via il suo piatto, saltare su come uno
che ha un posto molto migliore dove stare, vidi i suoi attendenti saltare su
costernati. Discretamente feci un salto in strada per fumarmi una sigaretta.
Sembrava una buona idea. Sì, accesi una sigaretta invece di estrarre la
macchina fotografica dalla borsa. Lui sembrava tanto una bestia braccata, e
aveva fatto uno spettacolo così brutto, che sarebbe stato crudele fotografarlo.
Posso essere maliziosa, ma non crudele.
Era piccolo. Un ometto piccolo che si allontanava in
fretta. Maxi, il genovese dagli occhi scuri e sicuro del fatto suo che mi aveva
insegnato come dire “sono sbronza”, lo precedeva. Suzanne, l’americana molto
alta che aveva tradotto le mie poesie, lo seguiva.
“Ciao,” dissi a Maxi. Rispose.
“Ciao,” dissi a Lou. Rispose.
“Ciao,” dissi a Suzanne.
“Ehi, Jennifer. Ci vediamo”, balbettò, mentre veniva
trascinata via sulla scia della fuga dalla contaminazione di tutte le persone
che non sono Superstar buddhiste.
Lou Reed mi ha detto ciao!
Giuro che sono una persona disgustosa. Mi
merito di essere una Superstar buddhista. In
me non c’è salute. Sono io la ragione che lui deve correre via da una
buona cena al Napoleon. Spero che ha telefonato al portiere quando è rientrato
nel suo hotel a sei stelle e ha ordinato un doppio tiramisù. E spero che sia
stato buonissimo.
Spensi la sigaretta, e tornai al Napoleon. Il locale era
impazzito. Uno stava facendo gesti tipo infila-le-dita-nella-gola-e-vomita. Un
altro stava facendo gesti tagliagola. Qualcuno che aveva l’autorità di farlo
chiese dell’altro vino. E molto! Cominciò il divertimento. E la festa decollò.
Che triste essere la persona che deve andarsene perché la
festa cominci. E’ tremendo. Spero proprio che Lou viva su una galassia dove
quando lui arriva la festa comincia. Piuttosto che quando parte.
Lo scrittore belga divenne stanco ed emotivo e versò una
buona bottiglia di bianco ligure nella
mia borsa. Ma era divertente. Fosse stato rosso, avrei potuto arrabbiarmi.
Suzanne e Maxi ritornarono. Maxi è un tipo impavido, e
comunque non parla inglese, così gran parte della faccenda non l’aveva
sfiorato. Ma Suzanne si sentiva violata. Aveva tradotto per Lou alla conferenza
stampa e gli aveva chiesto di fermarsi d’ogni tanto per darle tempo di
tradurre.
Lou si era voltato verso di lei e aveva detto – cito a
memoria – “Perché non vai a farti fottere? Perché non lo fai in fretta, perché
non lo fai lentamente, perché non lo fai subito?”.
Sto riconsiderando questa faccenda del pedinare. Non è
divertente per nessuno. D’ora in poi farò solo gruppo coi poeti. E la persona
che ha l’autorità di ordinare altro vino. E molto.
La fama è una fiamma che divora tutto quello che le si
offre. Brucia il successo, brucia il fallimento, la faccia famosa e patinata si
arriccia nelle braci fredde del falò di ieri.
“Raccoglierai quel che hai seminato”.
trad. di
Jennifer Compton
Nata a Wellington, Nuova Zelanda,
Jennifer Compton ha frequentato per due anni una scuola teatrale ad Auckland
prima di trasferirsi in Australia nel 1972 e frequentare il NIDA Playwright’s
Studio. Ha collaborato alla stesura di serial televisivi ed ha scritto drammi
radiofonici che sono stati trasmessi in Australia e N.Z. The Goose’s Bridle
vinse nel 1976 il premio AWGIE; No Man’s Land (in seguito intitolato Crossfire
per evitare confusione con l’omonimo lavoro di Harold Pinter) ha ottenuto
riconoscimenti ed è andato in scena a Sydney e all’Edinburgh Fringe Festival
1979. Jennifer ha vinto il Premio Katherine Mansfield 1975 con il racconto The
Man Who Died Twice. Nel
a cura di M.B.
“Poesia” n. 204, aprile 2006