Omar Wisyam
L’ultimo Collu
1.
Gianni Collu, che
aveva collaborato per un breve periodo con Camatte su
Invariance e che aveva firmato, come coautore, il
volume di Giorgio Cesarano, “Apocalisse o rivoluzione”, pare sia stato, molti
anni dopo, secondo opinioni attendibili, il suggeritore, ma non l’autore, di
due articoli pubblicati con pseudonimi diversi sulla rivista “Studi Cattolici”
(i due articoli sono reperibili sul sito del “Covile”). Il primo del 2002 è
dedicato a Cristina Campo e alla “Tradizione” primordiale. L’autore (la persona
che l’ha scritto effettivamente non so chi sia) inizia citando Elemire Zolla, il quale “invitava i lettori a volgere
l’attenzione sulla «squisita deliquescenza della vita e del suo nativo
impulso», sull’«atmosfera squisita […] pur nella torbidezza degli ambienti e
delle situazioni», sul «raffinato disordine» della prima opera narrativa di
Lawrence Durrell, sodale di Henry Miller e
frequentatore dello gnosticismo antico, dal titolo Justine”
(titolo che richiama un celebre personaggio di de Sade). Il che è un inizio
niente male per i devoti lettori (gli viene servito subito un anticipo di squisito
disordine sessuale e di gnosticismo da esorcizzare al volontariato
). L’articolo è un fitto incastro di citazioni: Collu richiama Zolla che
richiama Mircea Eliade ed
ecco che a costui si riferisce questa perla di saggezza “antica”: «l’esperienza
sessuale parimenti impegnava ogni atto del lavoratore». Come niente, il Nostro
butta lì: “Marcuse, di lì a poco, avrebbe assentito”
(come niente, anch’io direi, come Roland Barthes, che
da tempo la sessualità in Occidente è ovunque tranne che nel sesso, ma poi al
signor Omar viene in mente che la frase del Nostro orecchia quella celebre
manzoniana, e la si potrebbe leggere così: “e lo sventurato – Marcuse – rispose”). Poche righe sotto una citazione di
Zolla serve a rammentare quanto (sembra che lo faccia pressoché ovunque in ogni
scritto) costui incensasse incesto e omosessualità. “L’incesto o
l’omosessualità è l’atto vietato dal fas e dallo ius civile, non già dallo ius
naturale non ancora proscritto nelle società di spigolatori promiscui che hanno
per divinità il cane non già illecito nello strato più profondo della psiche”.
DI citazione in citazione, ecco Zolla che cita Simone Weil: “La conversione
alla vita fluida dell’abbandono vuole che ci si liberi da tutti i vincoli
meccanici […] e ci si arriva rovesciando la natura civile dell’uomo”. La vita
fluida che rovescia i vincoli civili (magari! direbbe il cosiddetto uomo
qualunque che sopporta con malcelato fastidio la passione burocratica del
Belpaese e le infinite cause civili). Il Nostro non esita in seguito a definire
“arbitraria” un’interpretazione sulla quale ci sarebbe qualcosa da dire, perché
la “sodomia iniziatica” in “Moby Dick” è tutt’altro che una fola arbitraria
(“come fanno i marinai?” si chiedeva il verso di una canzone di Lucio Dalla).
Dopo un altro incastro di citazioni, ci viene offerto “un antico componimento
persiano sulla pederastia, intitolato Contemplation
of The Unbearded, contemplazione del (fanciullo)
imberbe”. In questo contesto l’autore cita Hakim Bey,
pseudonimo di Lambourn Wilson, autore di uno scritto
apprezzato dagli autonomi, “T.A.Z. Temporary Autonomous Zones”. Di seguito il
Nostro dichiarava che interpretare Zolla come un pensatore “vicino al
cristianesimo o esponente di un tradizionalismo religioso convergente con esso,
fu un grave quanto grossolano fraintendimento. Anzi, un vero e proprio
abbaglio”. Chi sarebbe allora Zolla? Per l’autore è un esperto di “spermatofagia nella lirica del naturista beat Gary Snider”. Mettere in guardia dalla spermatofagia
i seminaristi e gli studiosi cattolici può essere utile alla vittoria della
fede? In linea teorica non dovrebbe, ma vai a sapere che può succedere nella
vita (se si va a spulciare le cronache giudiziarie in giro per il mondo
qualcosa salta fuori). Inoltre, dice il Nostro, va chiarito che senso ha avuto
per Zolla difendere la Tradizione contro il ’68. Chissà quale, a me rimane il
mistero. Ora è il turno di René Guenon. Il
tradizionalista francese era un esperto della fine del mondo. Ecco che spunta
un tema che ha una lontana risonanza con “Apocalisse o rivoluzione”. “La
disintegrazione del mondo, o «sviluppo delle possibilità inferiori dell’età
oscura», visto all’interno di un processo ciclico è sì allontanamento massimo
dallo stato primordiale, ma allo stesso tempo punto più vicino al suo
ripristino, così come disegnando una circonferenza il punto terminale di essa
viene a coincidere con quello iniziale”. La relativa differenza rispetto ad
allora è l’idea della ciclicità della fine del mondo, forse non prevista da
Cesarano. Ma “la «metafisica» guénoniana si svela, al
fondo, un puro culto della negazione, della distruzione”, un culto indù. Ora, e
soltanto ora, si giunge alla “figura che non a caso fu più di ogni altra legata
a Zolla sentimentalmente e intellettualmente — dalla fine degli anni ’50 alla
metà degli anni ’70, cioè Cristina Campo”, cioè il personaggio a cui è dedicato
l’articolo. Di lei (Cristina Campo, nome di penna) tuttavia si dice ben poco.
L’autore informa che, avendo amato la lettura di Simone Weil, la poetessa non poteva
essere altro che gnostica. E dunque “mistificatrice”. Sostanzialmente
l’articolo non sviluppa alcun altro concetto (non una sola parola sulla poesia
di Cristina Campo, evidentemente disprezzata), se non l’augurio seguente:
“appurati quindi la natura della religiosità di Cristina Campo e il suo carisma
raro per la mistificazione, non stupisce che codesta autrice sia oggi innalzata
a icona dall’ambiente letterario all’interno del quale visse e operò. Di fronte
a tali immagini sacre, tuttavia, a noi sembra per una volta opportuno, e non
contrario al dogma, un atteggiamento di sana iconoclastia”. In sostanza, un
augurio che, espresso in un altro contesto storico, significava augurarle un
sacro rogo. Che cosa ha imparato il signor Omar Wisyam
leggendo questo articolo? Che l’autore di “I Mistici dell’Occidente” era un
consumato spermatofago, che Guenon
era un nichilista, simpatizzante indù, ma decisamente incline al culto
nichilista, adoratore “del Serpente, di Caino, Sodoma et alii”,
e che, ça va sans dire, non serve aggiungere altro,
che non ci si deve infettare leggendo le poesie di Cristina Campo (per fortuna,
nessuno, attraverso l’articolo del Nostro, saprà mai che cosa lei abbia
scritto). Inoltre si apprende che Djuna Barnes (che scriveva poesie pure lei) era una “celebratrice
dell’atrocità e della lascivia” (Zolla
la avvicina a de Sade), che Joe Bousquet
(un altro poeta) era un “appartato intellettuale surrealista, cultore ossessivo
dell’oscenità e soprattutto della sodomia” (ma non è, per caso, si chiede Omar,
un pochino eccessiva questa insistenza?), che il “misterioso” Andrea Emo era, in sequenza, una “vestale” (vestale? ma che voleva
dire il Nostro?) della “oligarchia veneziana”, un furioso nichilista e un amico
di Cristina Campo. Tutte avvertenze utilissime e provvidenziale, ma meno per il
signor Omar che per gli studenti e gli studiosi cattolici, che così hanno avuto
la possibilità di mettersi in salvo. Altrimenti, se costoro si fossero
imbattuti, per strada, in un indemoniato e infoiato Elemire
Zolla, sarebbero stati del tutto impreparati di fronte al pericoloso spermatofago, scambiandolo per un innocuo vecchietto.
2.
Il secondo
articolo, del 2003, è dedicato a Furio Jesi. Il Nostro (sempre sotto pseudonimo
e ancora ispirato da Collu), a caccia di maniaci sessuali ed eretici (due
colpe, che sembra siano raramente separabili dalla stessa persona), rintraccia
già dalle prime righe il culto dell’eros “virile”, crisma “della gnosi nazista
e di quella antica”. Rapidamente si passa al “rabbino sessantottino Jacob Taubes (scoperto e lanciato in Italia da Adelphi con ‘La
teologia politica di san Paolo’), singolare guru della contestazione tedesca”.
Per il quale, il rivoluzionario moderno avrebbe dovuto ricalcare un modello
antico (e gnostico, ovviamente): una sorta di “dandy dell’antichità,
rivoluzionario «pneumatico» la cui sovversione si traduceva in antinomismo,
trasgressione sessuale e in avversione per le facoltà razionali dell’uomo”.
Questo stravagante rivoluzionario moderno ideale si ispira a “Marcione,
l’eresiarca del secondo secolo definito da san Policarpo «primogenito di
Satana», che predicò un forsennato odio per il Dio d’Israele e la sua Legge,
celebrò «Cristo» come liberatore dal giogo del Padre, venuto al mondo per
riscattare cainiti e sodomiti”. Ecco serviti i canuti sessantottini e i
proletari “moderni”: gnostici indiavolati gli uni e “cainiti
e sodomiti” gli altri. Questi passaggi iniziali hanno lo scopo di confermare
che l’autore di questo articolo dovrebbe effettivamente essere lo stesso dell’articolo precedente. Il
punto di partenza dello pseudonomato è un assunto di
Angelo Vigna, per il quale c’è stata una “metamorfosi della gnosi marxista a
partire dalla fine degli anni ’70, manifestatasi con un passaggio da posizioni
«progressiste» a posizioni «regressive», informate queste al disprezzo della
ragione, al culto della natura e dell’eros (anche e soprattutto sodomitico),
alla diffusione di stati d’animo irrazionali e antiumani”. A me pare piuttosto
singolare e bizzarro saldare presunte “devianze sessuali” e disprezzi della
“razionalità” in un’unione indissolubile alla quale si fonderebbe il “culto
della natura” (e che culto sarebbe? i prodotti bio
del supermercato?), e il tutto sarebbe infine regressivo e antiumano. E chi l’ha
detto? L’ha detto Angelo Vigna, pseudonimo dell’autore di un articolo, da cui è
tratta la citazione riportata sopra, che era stato pubblicato nel 2002, sempre
su “Studi Cattolici”. Secondo il Nostro, la produzione di Furio Jesi sarebbe la
conferma della “tesi” di Vigna. Il fatto è che il campo di ricerca di Jesi
portava il giovane docente ad analizzare la cultura di destra, ad interrogarsi
per mezzo di essa, a confrontarsi con la capacità di seduzione di quella,
grazie a una non comune sensibilità umana. Ma da tali caratteristiche
limitatissime, proprie di una specifica singolarità, dedurre una “tesi” di
valore universale da applicare a una “gnosi marxista” (gnosi marxista? e che
sarebbe?) in piena “regressione antiumana” ci corre. Il Nostro, imperterrito,
allinea una bella schiera di citazioni di Jesi, che, appunto, dimostrano la
volontà di comprendere scelte e comportamenti di Eliade,
di Codreanu, della Guardia di Ferro rumena, ecc. E
poiché il Nazismo ha ricevuto una notevolissima rispondenza in Europa, checché
se ne dica, era più che ragionevole, per Jesi, cercare di comprendere le
ragioni di una tale forza di attrazione di massa. Non solo faziose sono le
deduzioni del nostro pseudonomato, ma forzose e tetre
fantasie e pure un pochino morbose. Da una nota di viaggio sul Nilo di Jesi si
giunge d’un tratto a Roberto Calasso e alla sua casa
editrice, vero obiettivo polemico dell’articolo (strumentalizzando il povero
Jesi come un grimaldello per forzare la serratura di casa Adelphi). Calasso (e la sua casa editrice) è collegato allo
“shivaismo”, senza avvertire la necessità di una argomentazione convincente. Di
punto in bianco e immediatamente la parola passa ad Alain Danielou,
“fratello di un noto teologo gesuita (Jean), autore del saggio “Shiva e
Dioniso, la religione della natura e dell’eros” (Astrolabio Ubaldini, Roma
1980). Finalmente prorompe il senso della “tesi” di Vigna. Eccoli affratellati
religione, natura, eros e Shiva. “Lo shivaismo, questo culto dello sperma e del
sangue, questa primordiale religione della morte come avrebbe scritto Jesi”, è
quel “punto d’attrazione verso cui è orientata tutta la produzione Adelphi”. Ma
chi l’ha detto? Un po’ il fratello del gesuita, un po’ lo pseudonomato
che vuole dimostrarti di essere in grado di immedesimarsi in quello che direbbe
Jesi ed infine la deduzione geniale dello pseudo. Il quale afferma che lo
stesso Calasso allude a quel “punto d’attrazione”
quando scrive: “In ogni caso l’idea che il nome indubbiamente conteneva (cioè
Adelphi) era quella di un gruppo legato da una qualche affinità che si propone
di pubblicare libri legati anch’essi da una qualche affinità, tale da
permettere di passare naturalmente, e quasi inevitabilmente, dall’uno
all’altro”. Calasso non allude affatto, ovviamente,
al “punto” dello pseudo; se allude a qualcosa, allude al progetto di dare alla
casa editrice quella affinità nei titoli che manca alle case editrici
generaliste che pubblicano un po’ di tutto, cioè darle una linea editoriale e
basta. Lo pseudonomato gli contesta la linea
editoriale e non gradisce le preferenze autoriali di Calasso
(e va benissimo), ma non gli basta, intende spingersi oltre. A dire il vero,
proprio allora il signor Omar si stava rallegrando. Che lo pseudo (e il suo
ispiratore) volesse stabilire una volta per tutte, nell’articolo su Jesi di
“Studi Cattolici”, quale fosse l’interpretazione autentica e corretta delle “Upanisad” all’interno della tradizione vedica gli sembrava
tanto originale quanto divertente. Ma gli era sfuggito qualcosa, e mentre
rileggeva che nel catalogo di Adelphi era annoverato il saggio “Le origini del
male nella dottrina Indù” di Wendy Doniger, notava questa parentesi: “(allieva di Mircea Eliade presso la Divinity School dell’università di Chicago ed ex collega
del tantrista romeno Ioan Petru Culianu, «sacrificato» in
una latrina della stessa università nel 1991)”. In un nota, riferita alla
stessa persona, dell’articolo su Cristina Campo si trova scritto invece (senza
accenni a “sacrifici”) che era ”finito ucciso nel ’91
in una latrina della Divinity School dell’università
di Chicago, in circostanze mai chiarite” (tuttavia l’insistenza sul luogo del
decesso fa trapelare il medesimo disgusto del Nostro – e la pietà dov’è finita?
- con il ricorso al termine “latrina” in entrambi gli articoli). Il fatto è che,
a parte il ristabilimento della verità definitiva a proposito della tradizione
vedica, ci si imbatte in alcune citazioni di Calasso,
tratte perlopiù da “La rovina di Kasch”. Le citazioni
dovrebbero servire a rendere vagamente credibile la terrificante immagine
dell’editore costruita dal Nostro (una sorta di gran sacerdote, lordo di
sangue, officiante in cima a un’alta piramide, intento a sgozzare inermi esseri
umani - così se lo raffigura il signor Omar, mentre rilegge). E poche righe
sotto arriva il passo in cui lo pseudo si spinge oltre. Quando scrive che “non
è difficile trovare riscontri attuali”. Quando da Calasso,
dai libri suoi e della casa editrice si passa ai protagonisti di alcuni
efferati delitti. Pure l’ultimo paragrafo lascia perplesso il signor Omar,
quando legge del sodalizio che lega l’ambiente shivaita
(Adelphi) non solo con “spermatofagi e tanatofili
vari”, ma anche con “ambienti ecclesiali” (bisogna epurare anche i conventi,
dove evidentemente si annidano nugoli di spermatofagi!).
A proposito di tanatofili – il premio Nobel per la letteratura, Elias Canetti,
viene liquidato frettolosamente con una sola parola: “ipertanatofilo”
(al povero Omar una lugubre scena si affaccia alla mente: vede il premio Nobel
percorrere i viale poco illuminati di qualche capitale
europea ed entrare di soppiatto in un cimitero… ma a fare che? ma come, non sai
che è un ipertanatofilo? Omar non vuole saperne di
più e rabbrividisce). Il Nostro pseudo, dotato di prodigiosa capacità di
sintesi, novello Dante Alighieri, come il sommo Maestro giudica. Per esempio,
di Louis Massignon, che deve essere precipitato
piuttosto in basso nella voragine, la sentenza è “spia e cainita francese” e quella di
Guido Ceronetti, “necrofilia”. E ora tocca al povero signor Omar chiedersi che
gli spetterà, quando il Nostro abbasserà il suo severo sguardo su di lui.
3.
Il povero Omar
aveva trascorso una notte agitata, travagliata da incubi angosciosi: ovunque,
dietro l’angolo o sotto il tavolo, erano appiattati shivaiti
grondanti sangue, cainiti e sozzi spermatofagi
sbirciavano dietro il vetro della finestra, tanatofili bussavano alla porta e
sodomiti ghignavano velati dietro la tenda della doccia, e terrificante
visione: Roberto Calasso seduto al tavolo da pranzo
con il coltello in mano… Infine, come capitava all’illustre commissario Maigret
(accidenti, pure lui pubblicato da Adelphi – probabilmente perché tanatofili o
chissà che diavolo), non nuovo a nottate disastrose, gli ritornava d’improvviso
alla coscienza un particolare decisivo. Omar diede ancora un’occhiata
all’articolo su Cristina Campo. Ne aveva stranamente sottovalutato gli accenni
al travaglio religioso e alla venatura tradizionalista e bizantina che lo
contraddistingueva, come quelli relativi a Zolla, come il fatto che diversi altri
autori cristiani avevano pubblicato su Adelphi, come il fatto che la casa
editrice aveva da sempre guardato verso l’ampio universo religioso indiano e
orientale. Aveva sottovalutato che l’ultimo paragrafo dell’articolo su Jesi
avesse come obiettivo la comunità cristiana di Bose (addirittura più “shivaita” di Adelphi, perché capace di anticiparne le
scelte editoriali, secondo Silvia Ronchey) e la rivista “Cristianesimo nella
storia”, in cui, a più riprese, erano apparsi tre articoli su Marcione (perché
mai una rivista di storia del cristianesimo non avrebbe dovuto nominare il
Marcione?). Dunque aveva scoperto un altro livello di lettura, interno al mondo
cattolico, e al signor Omar Wisyam non restava altro
che, come al suo illustre modello era capitato in più di un’occasione, lasciar
perdere. Gli ritornava in mente, non sapeva perché, quando, al tempo della
seconda e terza media, ascoltava i “grandi”, in sede o nella saletta riservata
di un’osteria, che discutevano delle bassezze degli altri, dei rivali opportunisti
e traditori, e non “autentici” maoisti come eravamo noi e soltanto noi. Ma
questo non c’entrava nulla, possibile che si sentisse già vecchio? Che gli
salisse la nostalgia? E di che cosa? Gli ritornava in mente che, durante le
riunioni, sul tavolo, oltre alle carte sparse, c’era la brocca di ribolla, il
vino nuovo e, più in là, con l’arrivo dei primi freddi invernali, di
pomeriggio, il vin brûlé. In questo momento, sulla città bagnata, splende il
sole della prima bella giornata d’autunno anche se le previsioni sono infelici
e sembra quasi di vedere il vapore che si alza in cielo. Una famosa poesia
della tanto vituperata Cristina Campo, intitolata “Passo d’addio”, recitava al
primo verso: “Si ripiegano i bianchi abiti estivi” – già fatto, già fatto,
pensava il signor Omar e poi finisce novembre e bianchi saranno i tuoi non i
miei.