Jean Montalbano
Mourlet su un’arte non più ignorata
Uno dei risarcimenti, eccessivo definirlo piacere,
riservato ai cinefili abituali frequentatori dei cinema periferici più o meno
pulciosi, ma pur sempre pubbliche arene, consisteva nel lanciare maledizioni ed
insulti al proiezionista disattento con le luci o il quadro: oggi che anche
quelle decisioni si sono trasferite nel salotto domestico, facendoci esitare,
al massimo, nella scelta dello schermo e dei supporti (plasma, lcd, HD, blu-ray...) riandare all'immediato dopoguerra è come
rivisitare un campo di battaglia i cui schieramenti risultano entrambi
sconfitti e giocati nella motivazione che pure li accomunava, quella di “changer la vie”.
Anche al giovane Michel Mourlet
il cinema apparve come la vita vera, più vero del vero, massiccio come roccia
scolpita di luci ed ombre, bello e significativo anche quando all'iniziale
passione travolgente seguì la stagione dell'amore ragionato e riflessivo.
Il suo libro più recente L'écran éblouissant (Puf 2011)
raccolta di recensioni, interviste, ritratti ed interventi teorici dal 1958 al
2010, reca in copertina la nota foto di Samuel Fuller
con pistola e sigaro, dispensando così l'autore dall'esplicitare per i più
distratti o frettolosi le scontate dichiarazioni di preferenza e scelte di
campo. Certo il regista di Corea in fiamme non è tra i quattro originari
assi (Walsh, Lang, Preminger, Losey, cui si
aggiungevano Hawks, Dwan,
Ludwig, Mann...ma la lista non era chiusa) che il Nostro si scelse per chiarire
a sé e ai propri lettori la passione per il cinema classico “americano”; e, a
complicare il quadro, Fuller fu pure tra i prediletti
del Godard che, come quasi tutta la nouvelle vague,
per Mourlet esemplificò perversione e traviamento
degli ideali di classicità e realismo destinati all'arte cinematografica fin
dai Lumière, ma che già Meliès aveva corrotto. Quando
ai Cahiers du
Cinéma qualcuno scambiò l'engagement per intelligenza, Mourlet
e Rohmer (che alla fine degli anni cinquanta ne
furono al vertice, accomunati pure da un amore per il “vecchio” teatro nelle
mosse di smarcamento dal militantismo di tanta
critica obnubilata) erano ormai ben lontani, concentrati il primo in un
percorso di scrittura ed insegnamento, il secondo in un'opera registica
ciclicamente rinnovantesi. L'avventura della
cinefilia francese andava a concludersi e con essa tanti velleitarismi ed usi
strumentali dell'arma cinematografica.
Se nel 1949 Bazin ed altri
organizzavano a Biarritz un “Festival del cinema maledetto”,
va ricordato che l'ultimo fante americano doveva ancora reimbarcarsi e già
qualcuno in Francia temeva la “colonizzazione” attraverso i film arrivati al
seguito degli alleati. Piuttosto volgersi verso Roma “neorealistica” anche se
il solito Boris Vian andava gridando in “Saint-Cinéma-des-Prés”:
“Abbasso Ladri di biciclette. Evviva il technicolor”. Vicino in
ciò alla coppia “surrealista” Benayoun e Kirou che entrò negli anni cinquanta invocando “Erotismo,
immaginazione, esaltazione” sulle pagine del foglio “L'Age
du Cinéma”.
Mourlet, precoce, prese ad
analizzare e pensare quella esperienza di spettatore e negli anni mantenne il
giudizio poco lusinghiero sui frequentatori dei cineclubs,
reputati scolastici, gregari ed incompetenti, preferendo recarsi nei tanti ancora numerosi cinema di quartiere
senza disdegnare, con Lourcelles e Rissient, le sale sugli Champs Elysées, il Napoléon o quel Mac-Mahon di cui un gruppo di amici curava la
programmazione.
Quello che poi si sarebbe detto mac-mahonisme
prendeva le mosse dal cinema classico americano, sottolineandone la forza
coinvolgente (contro ogni distanziamento o estraniazione brechtiana)
originata da un lavoro di sceneggiatura classicamente risalente alla poetica
aristotelica ed in grado di accogliere al suo interno i frammenti riusciti,
sublimi e perfetti, anche quelli parossisticamenti
violenti (e che negli anni “vietnamiti”, coniugati all'esaltazione dei corpi e
dell'azione, avrebbero attirato al gruppo le accuse di “destra”). Si aggiunga
una reintegrazione della pattuglia di italiani esclusi dalla vague neorelista come Freda o Cottafavi, più qualche
firma orientale come Mizoguchi ed il campo da
dissodare sarà tutt'altro che limitato.
Scoperti, studiati e ammirati, quei registi si
accostavano, asintoticamente, alla
“logica spontanea della visione”, vocazione originale del cinema e sua
differenza costitutiva dal resto delle
precedenti espressioni artistiche. Venendo dopo le altre, la “copia”
proposta dal cinema è più conforme ad un “originale” (reale) e più
autenticamente significativa. Fin dalla prima bobina infilata in un rudimentale
proiettore, si trattava già di “cogliere il più fedelmente, il più
oggettivamente, il più meccanicamente, il più immediatamente (cioè senza
mediazione) possibile le forme, i movimenti dell'universo tali e quali i nostri
sensi ne svelano l'apparire nel mondo
reale”. Ogni evidente effetto di stile interrompe, scrive Mourlet,
l'attenzione con cui lo spettatore segue il film, tagliando il cordone che lo
fa credere nelle immagini che scorrono e proponendo visioni artificiali e false
giudicate distruttive della spontanea e volontaria credenza nella realtà di
quanto si osserva (coerentemente Ejsenstejn veniva
strapazzato appena se ne desse l'occasione ed ogni regista soprattutto preoccupato
del montaggio finale veniva accusato di mettere toppe ad una materia filmica
non padroneggiata). Il buon regista liscia il pelo dello spettatore nel verso
del “come se”, rispettandone il desiderio di conferire realtà alle apparenze
che scorrono sullo schermo. È pur vero che è sempre in agguato l'incapacità,
della maggior parte di spettatori e critici, di percepire qualità e difetti
delle messinscena dovuta ad una perversione del punto di vista “naturale”: per
questo talora Mourlet invoca una “sur-cultura”
capace di far dimenticare la cultura
ingessata per ritrovare nel cinema “il naturale, il vergine, il vivace e bel
naturale, l'unico metro di giudizio”. Da qui il suo costante interesse per il
cinema di genere e per quanto si sottrae alla paludata cappa del cinema d'arte
o d'autore.
Attenzione alla regia non significa riduzione del
cinema alla purezza o specificità del mezzo; il rischio del formalismo e
dell'estetismo viene evitato dalla messa in scena, che invece di girare a
vuoto, veicola una storia in “presa diretta” sul mondo, senza ricorso alle
metafore, alla convenzione-deformazione della materia per, immediatamente,
toccare ed esprimere il mondo. Cinema diventa sinonimo di “evidenza” e perciò,
tra Lumière e Méliès, la scelta è ontologica trattandosi
di riprodurre il reale il più vicino possibile alla sua apparenza materiale.
Essenzialmente realista, medium trasparente e “passivo”, il cinema è adeguato
alla materia, obbiettivo in ogni senso. Sulla pellicola Mourlet
ritrova un mondo ripulito e depurato dai codici, dalle metafore, dai segni che
intralciano le intenzioni delle arti che l'hanno preceduto e qui rilancia il
paradosso di Bazin secondo cui il regista era di
troppo, troppo opaco, troppo dentro, troppo presente finchè,
facendosi notare, ostacolava la rivelazione del reale, lo stupore delle cose
lasciate-essere senza diaframmi. Il cinema, per la prima volta nella storia
dell'uomo, consente di rivelare ed esprimere il mondo direttamente, senza
perifrasi o ricorso alle convenzioni. L'occhio del regista si conforma alla
ragion d'essere della macchina da presa, scegliendo nella realtà i materiali
che gli occorrono, senza deformarla.
A proposito di Cottafavi, Mourlet sottolinea una regia conforme a schemi geometrici,
a rischio di trasformare scontri e battaglie dei film “storici” in pose
coreografiche: eppure, ordinando le cose esistenti, Cottafavi
poteva liberare le cose dello spirito. Spinta al limite, pensata in modo
conseguente, quella geometria sfociava nel miracolo del sentimento, nel miracolo
della vita o della morte. La géométrie s'alleava alla finesse.
(Ma si ricordi che negli stessi anni Nicola Chiaromonte giungeva a giudizi opposti proprio partendo dal
tema della “presenza” e dell'evidenza “indiscutibile ma muta” dell'immagine: da
qui discenderebbe la libertà di lettura permessa dai film, la funzione
dell'immagine essendo quella di “eccitare i vagabondaggi dello spirito”.
Infinita sopportazione dell' immagine, in grado di assorbire qualsiasi
interpretazione le si sovrapponga, sua irrevocabile esteriorità ed incapacità
di rappresentare interiorità, soggettività e personalità se non per allusioni (
Cfr. “Immagine e parola. Sulle pretese di alcuni cineasti”).
Confrontato ad una realtà incompiuta e contingente,
il buon regista secondo Mourlet la mette in scena
portandola a compimento e perfezionandola. Il film riuscito, con il rigore di
un documentario, va al fondo delle passioni per liberarne lo spettatore,
riconciliandolo con i suoi demoni. Diversamente dal documentario, il film
affascinando esprime la realtà nell'azione drammatica. La catarsi è recuperata
ma a partire da un corpo a corpo con il sensibile e la materia, da un certo
istinto o tangibile legame con le cose. Motivi questi che, a partire da una
“Apologia della violenza” (titolo provocatorio ma strumentale alla
rivalutazione ed illustrazione di film trascurati) gli otterranno nel corso
degli anni accuse di reazionario per il suo insistere sul tema del radicamento
di ogni grande regista in uno spazio e in una geografia, in una tradizione
determinata che non fa solo pensare ma vivere il film con passione ed
intensità, fin nella fisicità del corpo.
Sarà nella logica battagliera di quegli anni che il
solito Godard in epigrafe a Il disprezzo attribuisse a Bazin una frase di Mourlet (Il cinema è uno sguardo che si sostituisce al
nostro per darci un mondo accordato ai nostri desideri); il fraintendimento ancora lo diverte
confermandolo più credibile di altre meteore critiche oggi tranquillamente
dimenticate.