Maurizio Cabona
cinefili a Milano
Quando gli italiani conoscevano ancora un po’ di
francese, quelli come l’Anteo si chiamavano cinéma
d’essai. La sala di via Milazzo festeggia i venticinque anni con un libro
celebrativo di se stesso (Aa. Vv.,
Anteo,
Feltrinelli, pp.
165, euro 12) e del fatto che la cinefilia
milanese o è di sinistra o è di estrema sinistra.
Da Avanguardia operaia vengono infatti gli animatori
dell’Anteo; da lidi analoghi o contigui o comunque eredi di quella tradizione
verrebbe - stando a un sondaggio contenuto nel libro citato - buona parte del
suo pubblico. Del resto, i saggi di
Morando Morandini (ex critico del “Giorno”),
Maurizio Porro (vice critico del “Corriere della sera”), Paolo Mereghetti (vice-vice critico del “Corriere della sera”) e Roberto
Nepoti (critico della “Repubblica”), contenuti
sempre in questo libro, si riconoscono come soci di una comunità iniziatica, diversa da quella banale degli spettatori
comuni, che frequentano solo i cinema di corso Vittorio Emanuele. Si può osservare che le sale dell’Anteo sono
per centinaia, non per migliaia di persone, ma è anche vero che la residua cinefilia milanese ha talora aderito, talaltra accettato o
comunque subito un’etichetta politica ben definita. Ed è ancora più vero che le
varie destre degli ultimi sessant’anni hanno lasciato
- non solo a Milano - il cinema e la cinefilia agli «avversari».
In materia è evidente che, se sinistra ed estrema
sinistra hanno idee e metodi discutibili, destra ed estrema destra hanno idee e
metodi inesistenti. Non è però sempre stato così. A lungo cinema e cinefilia - non solo a Milano - o sono state apertamente
destra o non sono state politicizzate. Per chi è progressista, però, non essere
politicizzato è essere di destra.
Milanese prestato al cinema e a Roma, Dino Risi
ricorda quando era critico del quotidiano comunista “Milano sera”, diretto nel
dopoguerra dall’ex fascista Elio Vittorini: «Ero
stato assunto benché io comunista non fossi.
Allora il giudizio sul cinema era - anche in quella testata così
schierata - lasciato alla valutazione del critico. E non si faceva ideologia
nemmeno nel giro di amici (Alberto Lattuada, Gianni e
Luigi Comencini) che stavano dando vita alla
Cineteca».
Una situazione non diversa rammenta, fino a metà degli
anni Settanta, un altro regista milanese prestato al cinema e a Roma, Marco
Tullio Giordana:
«Ricordo con nostalgia la Cineteca. Walter Alberti, oggi scomparso, ha anche recitato nel mio film-tv
a sfondo milanese Notti e nebbie, tratto dal romanzo di Carlo Castellaneta.
E ricordo Gianni Comencini, che tuttora guida la
Cineteca. Nei cineclub, nelle sale d’essai (Arcadia, Nuovo Arti, Orchidea),
sono all’origine della mia formazione, l’unica tessera a contare era per
l’appunto quella del cineclub, indipendentemente dalle convinzioni di chi li
frequentava».
Parole non diverse sulla non politicità della cinefilia milanese mi diceva del resto lo stesso Gianni Comencini nella scorsa primavera, quando l’allora assessore
alla Cultura della Provincia, Paola Iannace, aveva
promosso, con la collaborazione della Cineteca, la rassegna «Gli
italiani si guardano» e la sala dello Spazio Oberdan aveva
imparzialmente applaudito i film (e le persone) di Gualtiero Jacopetti e Paolo Virzì, di
Pasquale Squitieri e Giuliano Montaldo,
di Luca Barbareschi e Gabriele Muccino. E quel
tentativo di vedere la nazione, non la fazione, attraverso il nostro cinema
aveva ottenuto diciotto «tutto esaurito» su diciotto proiezioni. Certo, si è trattato di un episodio di due
mesi contro un lavoro, quello dell’Anteo, di venticinque anni, di una struttura
pubblica, la Provincia, che oggi ha cambiato di mano contro una struttura
privata che resta «fedele alla linea». All’Anteo vanno riconosciute tenacia,
dedizione, coerenza. Chi sa lavorare, va rispettato e va incoraggiato, perché
costituisce una ricchezza della città, tutta, anche se si inorgoglisce di
essere ricchezza solo della «parte migliore» della medesima. Vale per l’Anteo
inteso cinema e per l’Anteo inteso come libro quel che vale per l’editore di quest’ultimo: quali istituzioni milanesi dell’ultimo mezzo
secolo hanno fatto quel che ha fatto la Feltrinelli?
Basta aprire il suo formidabile catalogo storico per accorgersi che è stata per
Milano quel che l’Einaudi è stata per Torino: un pilastro
dell’identità.
A chi fa, anche quando fa male, è vano opporre chi non
fa nulla. Quando un esponente del Msi-Dn, ora quasi
ai vertici di An, ha avuto il controllo del cinema
Argentina, ne ha fatto un centro per attivisti, non per cinefili,
non per critici, non per milanesi che volessero confrontarsi con un cinema diverso
da quello proposto dall’Anteo. Che è stato poi, per registi importanti come Eric Rohmer e Nikita
Mikhalkov, un cinema che neppure il più sfrontato dei
settari definirebbe di sinistra. Egemone con Hollywood fino al 1970, il cinema
«di destra» - per adattarsi a questi schemi angusti - ha continuato esistere
solo nell’ambito della programmazione di sinistra o negli anfratti più inattesi
del cinema mainstream: si veda L’ultimo samurai di Edward Zwick, prodotto e interpretato
da Tom Cruise e ora in
edicola in vhs e in dvd con
Panorama.
“Il giornale”, 30 dicembre 2004