Renato Venturelli

cine 2007

BLACK BOOK (Olanda, 2006) di Paul Verhoeven, con Carice Van Houten

   L’apparenza esteriore può sembrare quella di un melodrammone tutto emozioni forti e colpi di scena, ma state attenti a non prendere sottogamba quest’ultimo film del regista di “Robocop”: tornato in patria dopo essere stato emarginato da Hollywood per eccesso di personalità, Verhoeven ha infatti ripreso il suo discorso forte e sgradito esattamente là dove lo aveva lasciato. La vicenda riguarda stavolta una ragazza ebrea, che nell’Olanda del 1944 entra in contatto con la resistenza ed accetta di infiltrarsi nel comando nazista, passando attraverso un movimentato intrigo a base di uccisioni, tradimenti e traffici criminali. Le immagini nette e stagliate sembrano quelle di un fumettone, ma è solo il modo di riprendere corpi e storie con freddezza quasi metallica che costituisce un punto di forza del cinema di Verhoeven: e la sua visione dell’uomo, ma soprattutto della storia, è di quelle cupissime e disincantate, fino all’ultimo fotogramma. Film non facile, provocatore nei suoi eccessi romanzeschi, sotto sotto ferocemente lucido: massacrato a Venezia, accusato di revisionismo, disprezzato dal pubblico culturalmente corretto, finirà prima o poi per essere inevitabilmente riscoperto, come si comincia finalmente a fare con “Showgirls”, il suo film anni ’90 più tagliente e più unanimemente irriso.

 

L’ASSASSINIO DI JESSE JAMES PER MANO DEL CODARDO BOB FORD (Usa, 2007) di Andrew Dominik, con Brad Pitt, Casey Affleck

   Secondo Sam Fuller, il leggendario Jesse James era solo «un pazzoide omosessuale, che travestito da ragazza adescava i soldati nordisti in una baracca, per farli poi rapinare e uccidere dai suoi complici». Per Hollywood, invece, è stato a lungo il Robin Hood sudista, il fuorilegge ragazzino che si ribella alle prepotenze e finisce tradito da un amico, mentre stavolta il neozelandese Andrew Dominik lo ritrae come un trentenne ormai stanco della vita, ossessionato da un senso incombente della morte. All’inizio, il film doveva essere addirittura un’epopea intimista di tre o quattro ore, dai ritmi lenti e cerebrali alla Terrence Malick: poi i produttori l’hanno vigorosamente tagliato, ma anche così resta un racconto di angosce interiori rotte da brevi scoppi di violenza, dove l’attrazione reciproca fra il traditore ventenne Bob Ford e il suo idolo Jesse James allude a temi alla moda come l’omosessualità, le riflessioni sull’eroe americano e la sua mercificazione nella società di massa. Tutto molto lento e pretenzioso, ma con una bella atmosfera invernale e ottimi momenti di tensione scenica, in cui spicca il Bob Ford di Casey Affleck: segnali di cinema da non trascurare, anche se affiorano da praterie di estetismo post-videoclipparo. Maltrattato a Venezia, dove Brad Pitt è stato incredibilmente premiato come miglior attore.

 

THE GOOD SHEPHERD – IL BUON PASTORE (Usa, 2006) di Robert De Niro, con Matt Damon

   Chi si aspettava una spy-story spettacolare o un grande affresco storico rimarrà probabilmente deluso da questa seconda regia di De Niro, che affronta le origini della Cia da una prospettiva diametralmente opposta. L’ennesima cronaca della perdita d’innocenza di una nazione viene infatti raccontata dal punto di vista di uno studente Usa, che viene ingaggiato dai servizi segreti negli anni ’40, si ritrova al centro della nascente Cia ed inizia così una vita a base di inganni e ferocie compiute in nome della fedeltà alla patria. Più che la storia del controspionaggio americano, il film riguarda perciò il percorso del suo grigio protagonista, dove lo sguardo sulla Storia sfocia in un cupo melò familiare: e le immagini un po’ spente, così come il senso di mediocrità trasmesso da Matt Damon, sono in fondo funzionali all’universo di morte interiore che ci descrive. Con una prima ora molto lenta, ma anche con un racconto che acquista alla lunga una sua forza e necessità interna, quasi una densità tragica: nonostante la lunghezza eccessiva, è uno dei pochi film del momento in cui si respiri una tensione di cinema. Da recuperare.

 

GRINDHOUSE – DEATH PROOF (Usa, 2007) di Quentin Tarantino, con Kurt Russell

   Al festival di Cannes, gli eterni nemici di Tarantino e i suoi fans più superficiali sono subito insorti, osservando come il narratore travolgente di “Le iene”, “Pulp fiction” e “Jackie Brown” si fosse ormai spappolato sotto la spinta di un citazionismo compulsivo. In realtà, Tarantino procede lungo la strada di “Kill Bill”, sempre più astratto e sempre più nemico dell’idea di “bel film”, per inseguire invece un cortocircuito tra goliardia e avanguardia, guardando ad un cinema selvaggio che privilegia l’assoluta libertà del gesto contro la piacevolezza della confezione. Qui ammicca ai “car crash” movies, ai serial killer demenziali e alle ragazze assatanate di tanto cinema exploitation anni ‘70, mettendo in scena le imprese di uno stuntman assassino tra bar e strade dell’America di provincia. Attenzione, però, perché i brandelli di racconto sono solo un pretesto squinternato per improvvisare strepitosi pezzi di cinema, gioiosi e funerari al tempo stesso, dove tutto sembra già fatto da altri ma viene riproposto in modo assolutamente personale. Mortalmente noioso in certe parti dialogate, esplosivo in quelle action: trash e godardiano al tempo stesso, per cinefili duri e puri.

 

300 (Usa, 2007) di Zack Snyder, con Gerald Butler, Lena Headley

   La storia è sempre quella di Leonida e dei trecento spartani che alle Termopili cercano di fermare l’avanzata dell’esercito di Serse, e qualcuno (non a torto) ha visto dietro tutta quest’enfatica celebrazione dell’eroismo contro i dittatori persiani una tempestiva celebrazione patriottica e militarista delle guerre americane in Medio Oriente. L’interesse del film, però, sta da tutt’altra parte, e cioè nel porsi come nuova frontiera dell’epos hollywoodiano, che rilegge il vecchio peplum alla luce dei nuovi modelli narrativi e figurativi. Da una parte c’è il graphic novel di Frank Miller, dall’altra le nuove opportunità offerte dalla dittatura del digitale: e quello che ne deriva è una morte forse definitiva della narrazione classica, sostituita da un trionfo di enfasi statuaria, azione senza dinamismo, retorica post-clippettara. Il regista è quello che aveva riletto in chiave action “Zombie” di Romero, facendone un prodotto al tempo stesso solido e vuoto: qui riesce ad immettere nel decorativismo videokitsch tracce di una torva energia, che rendono il film nettamente più interessante rispetto alla media dei blockbuster. A suo modo sperimentale: per capire dove va il cinema.

 

GRINDHOUSE – PLANET TERROR (Usa, 2007) di Robert Rodriguez, con Josh Brolin, Bruce Willis

   Gambe mozzate, corpi mutilati, orridi bubboni che grondano sangue e pus… E poi colori accesi, pellicola rigata, brutalità horror per un pubblico da drive-in d’altri tempi. “Planet terror” è la seconda puntata di “Grindhouse”, il movie-movie concepito come omaggio al cinema exploitation anni ’60 e ’70, di cui abbiamo già visto la prima parte firmata Tarantino. Dietro la macchina da presa c’è stavolta il regista di “El mariachi” ed il meccanismo diventa ancor più spavaldamente ludico, con la solita cittadina Usa invasa da orde di esseri mutanti, che divorano carne umana e sono la diretta conseguenza delle guerre di Bush in Afghanistan e Iraq. C’è il piacere di un cinema basso, delle sue invenzioni folli, di un trash ai confini del delirio surreale, come nella spogliarellista che si ritrova con una gamba amputata e sostituita da un mitragliatore. E c’è ovviamente anche la riflessione su questi piaceri, tra cinefilia feticista e orrori della storia. Tutto divertente, ricco di trovate, qua e là ripetitivo, ma attenzione: con Tarantino siamo sul terreno di un cinema d’avanguardia potente per immagini ed astrazione formale, qui restiamo nell’ambito di un gioco postmoderno abile, talentuoso e sostanzialmente sterile.

 

FAST FOOD NATION (Usa, 2006) di Richard Linklater, con Gregg Kinnear, Bruce Willis

   Che cosa mangiano negli hamburger gli sprovveduti avventori dei fast-food americani? Mangiano semplicemente escrementi e urina, perché per ottimizzare i guadagni i processi di macellazione degli animali sono troppo rapidi e non c’è tempo per eviscerare bene le carcasse, facendo così schizzare il contenuto di intestini e vesciche sulla carne: e, dopo aver tolto gli stalli nobili vendibili in macelleria, i pezzi di scarto, il grasso e le altre parti troppo schifose vengono surgelate, impacchettate, macinate in un’unica poltiglia e rifilate infine ai mangiatori di hamburger. Tratto dal libro-inchiesta di Eric Schlosser, “Fast Food Nation” è un film che ci mostra i laghi di sangue, feci e urina dei laboratori, ma ha poi ambizioni maggiori: raccontare il destino comune delle mucche, dei lavoranti messicani e degli americani ingaggiati come camerieri nei fast-food. Il racconto funziona bene nella prima parte, poi resta schiacciato dai moralismi schematici, ma mantiene quell’impatto violentemente iperrealista che il cinema americano riesce spesso a contrabbandare anche all’interno dei suoi prodotti più insignificanti: in questo caso, mostrando un’intera civiltà concepita come gigantesco fast-food, dove (come dice un personaggio) «siamo tutti condannati a mangiare un po’ di merda».

 

MILANO-PALERMO – IL RITORNO (Italia, 2007) di Claudio Fragasso, con Giancarlo Giannini, Raul Bova, Ricky Memphis

   Con i suoi alti e bassi, Claudio Fragasso è uno dei pochissimi registi italiani che continuino a battere la strada di un cinema di genere, guardando all’action e allo spettacolo popolare con uno spirito che sembra ormai completamente scomparso dal nostro cinema. Dopo la rovinosa caduta di “Concorso di colpa”, torna ora a giocare sul sicuro dando un sequel a quel “Palermo-Milano solo andata” che una decina d’anni fa gli permise di cogliere il suo maggior successo. Stavolta, il ragioniere della mafia Giancarlo Giannini deve essere riportato dalla Lombardia alla Sicilia e la solita squadra di poliziotti cerca di condurlo a destinazione passando attraverso gli agguati dei mafiosi, decisi a catturarlo e a rapire i suoi parenti. La sbrigativa definizione dei personaggi, le scene dialogate e il patetico buonismo degli agenti rimandano nel loro schematismo alla più trita fiction televisiva, ma i pregi del film per fortuna sono altri: appena scatta l’azione, “Milano-Palermo” ci regala un’ora e mezza di inseguimenti e sparatorie incalzanti, che si staccano dai modelli delle piovre e delle scorte per guardare un po’ anche agli esempi orientali alla moda. Elementare ma a suo modo efficace: finalmente un po’ di vita anche nei tristi schermi italiani.

 

LA LEGGENDA DI BEOWULF (Usa, 2007) di Robert Zemeckis, con Ray Winstone, Angelina Jolie

   Il cinema digitale è appena nato, ma già dimostra quali rivoluzioni può annunciare, lasciandosi alle spalle un secolo di cinema inteso finora come riproduzione della reale. Il fenomeno si inserisce in un più generale processo di ibridi tra finzione e realtà, di animazioni sempre più realistiche e di corpi sempre più cartoonizzati che sta rimescolando il nostro rapporto con lo schermo. In questo caso c’è un autore come Zemeckis (“Ritorno al futuro”, “Forrest Gump”) che parte da attori in carne ed ossa per poi reinventarli digitalmente, immergendoli in una sorta di scatenata animazione che sta al di là di ogni distinzione tradizionale. Il risultato non testimonia solo un banale prodigio tecnologico, di per sé poco interessante, quanto la capacità di avventurarsi in un territorio nuovo e sorprendente, dove la cultura dei graphic novel sembra avere soppiantato gli antichi condizionamenti teatral-letterari del racconto cinematografico. Avventura ed orrore, mostri, eroi e duelli fantasy: la vicenda di Beowulf diventa un po’ baracconesca e da un momento all’altro sembra pronta ad accogliere anche Shrek, ma il risultato è a suo modo energico. Non per tutti i gusti, però la sfida esiste: e quando c’è da sperimentare nuovi sguardi, Zemeckis è sempre in prima linea.

 

PARANOID PARK (Usa, 2007) di Gus Van Sant, con Gabe Nevins

   Quattro anni dopo l’estremismo sperimentale di “Elephant” (e gli eccessi narcisisti di “Last Days”), Gus Van Sant torna al suo universo di ragazzini inquieti e taciturni, che si ritrovano ai margini del mondo e sfidano il lato oscuro della vita. Stavolta c’è un adolescente che si avventura col suo skate nel territorio proibito di Paranoid Park, frequentato da barboni ed emarginati, ma durante le sue evoluzioni e le sue trasgressioni finisce per uccidere involontariamente una guardia, consegnandosi poi ad un ambiguo silenzio. Lo spunto narrativo è abbastanza esile, e il senso del film sta soprattutto nel modo in cui è girato, nella leggerezza con cui Van Sant segue le traiettorie degli skateboard sull’orlo del pericolo, s’insinua nella mente del protagonista, mescola i diversi formati di ripresa, riesce ad essere intimamente partecipe e al tempo stesso osservatore distaccato. Meno rigoroso di “Elephant” e sempre a rischio dell’esercizio di stile, è comunque uno dei pochi film della stagione che abbiano qualcosa da dire a chi sia davvero interessato al cinema e al suo linguaggio: se volete il cinema d’essai, almeno questo lo è davvero.

 

NELLA VALLE DI ELAH (Usa, 2007) di Paul Haggis, con Tommy Lee Jones, Charlize Theron

   Ecco finalmente un film solido e ben raccontato, diretto con spirito classico dallo sceneggiatore di “Million Dollar Baby” e costruito in buona parte proprio come i film del grande Clint, che ha del resto collaborato alla sceneggiatura e inizialmente doveva interpretarla. Al centro della vicenda, un militare in pensione che si mette a indagare sulla misteriosa scomparsa del figlio, reduce dalla guerra in Iraq: e mentre l’inchiesta poliziesca avanza, per l’uomo tutto d’un pezzo comincia anche un’altra indagine sconvolgente, quella che riguarda la messa in crisi del suo ruolo paterno, dell’identità americana e dei cosiddetti “valori” su cui aveva fondato la sua vita. Lo spirito eastwoodiano del racconto risalta sia dai temi di fondo sia dal modo in cui sono costruiti personaggi e sequenze, come il protagonista tormentato, la poliziotta battagliera o le scenette del posto di polizia in cui la commedia rivela la tragedia. Manca invece il tono al tempo stesso astratto, tragico e umoristico che caratterizza l’Eastwood regista, mentre il finale è un po’ troppo squadrato nell’esporci la sua morale: ma è uno di quei rari film in cui il racconto è sempre appassionante e attraverso l’intrattenimento ci trasporta in profondità. Dal regista di “Crash”, con un Tommy Lee Jones sempre grande.

 

DIE HARD – VIVERE O MORIRE (Usa, 2007) di Len Wiseman, con Bruce Willis

  Grande Bruce Willis! Testa rasata, sempre più solitario e brontolone, è un dinosauro d’altri tempi, un corpo pesante in un mondo virtuale, o come gli dice qualcuno “una sveglia analogica nell’era digitale”. Nella prima scena strapazza il fidanzatino della figlia, nella seconda fa una strage di killer francesi, nella terza ascolta a tutto volume i vecchi Credence, indignando il suo nuovo compagno d’avventure: un giovane hacker no-global, che lo affianca nel tentativo disperato di salvare l’America da un assalto al cuore informatico. E’ un eroe da stripes, l’erede del giustiziere serial Charles Bronson o del John Wayne ironico del “Grinta”. E questo quarto episodio di “Die Hard” (il miglior sequel, dopo “Trappola di cristallo”) lo vede schizzare da un lato all’altro di città astratte, tra scene di apocalisse metropolitana e minacce inafferrabili che rimbalzano da un computer a un satellite. C’è anche un messaggio video dei terroristi, dove le minacce vengono affidate alle parole degli stessi Presidenti Usa, montate audacemente a “blob” come in un collage neo-avanguardista. Per 90 minuti, insomma, è spettacolo dinamico e divertente, poi si annega nell’ultima mezzora action enfatica e tediosa: godiamoci quello che arriva, nell’ambito di un semplice prodotto di serie.

 

BOURNE ULTIMATUM (Usa, 2007) di Paul Greengrass, con Matt Damon

   Tutto di corsa. Sempre più veloce, sempre più frenetico. Al terzo episodio della serie ispirata a Ludlum, l’agente Bourne continua a schizzare da un lato all’altro del pianeta cercando di scoprire quale sia la sua vera identità e perché i suoi superiori lo vogliano morto: e tutto mentre al quartier generale della Cia i pezzi grossi spiano ogni suo movimento cercando di eliminare questo insopprimibile killer stelle-e-strisce diventato ormai un enorme problema. Il thriller è raccontato a spron battuto, inseguimenti e scontri a fuoco si susseguono senza un attimo di tregua, l’immagine dei papaveri Cia che cercano di controllare il mondo chiusi nei loro uffici è forse lo specchio di una nazione e di una cultura: il pubblico apprezza, la critica si esalta, il box-office sorride. Tutto bene? Fino a un certo punto: perché l’inglese Paul Greengrass usa il suo stile finto-documentaristico alla “Bloody Sunday” o “United 93” come puro espediente retorico passepartout, senza mai credere nemmeno per un attimo alle immagini vuote che scorrono rapidissime sotto i nostri occhi. Cinema incalzante e spettacolare ma senza spessore, tutto affidato all’enfasi roboante del montaggio ipercinetico, prodigioso nella tecnica e statico nella sostanza: nonostante gli elogi unanimi, questo sembra solo un altro “shooter” al servizio di Hollywood, nella scia dei Tony Scott.

 

LA PROMESSA DELL’ASSASSINO (Gb-Canada, 2007) di David Cronenberg, con Viggo Mortensen, Naomi Watts, Armin Muller-Stahl

   Dimenticate le rotture linguistiche di Cronenberg, le provocazioni che nei suoi film più estremi facevano a pezzi le convenzioni delle immagini e del racconto. Dopo “History of Violence”, il regista canadese continua in questo noir a battere la strada di un racconto di genere, rendendolo ancor più lineare e compatto: con un’ostetrica che nella Londra multietnica fa partorire una ragazzina moribonda, risale ad un ristoratore russo e finisce così nel bel mezzo di una storia di mafia e sgozzamenti, ferocia e sopraffazione. La sceneggiatura è classicamente di ferro, ma Cronenberg tratta ogni dettaglio alla sua maniera: mantiene sempre un tono leggermente distaccato nelle immagini, pone corpi, pelle e tatuaggi al centro della messinscena, segue i percorsi del male attraverso il sangue, la famiglia, la paternità e la maternità. Con tanti riferimenti religiosi (croci incise sulla pelle, Padri brutali, Madonne violentate), ma ricordandoci sempre che per lui «la realtà è il corpo: ed è quello che il cineasta fotografa». Un bel film denso, mai squadrato nella sua morale, inquieto fino all’ultima inquadratura: e con un Viggo Mortensen di intensa fisicità, protagonista di un memorabile pestaggio al bagno turco.

 

LA TERZA MADRE (Italia, 2007) di Dario Argento, con Asia Argento

   Antichi rituali esoterici, donne strangolate dalle proprie budella, scimmiette diaboliche… Dario Argento abbandona il thriller degli ultimi tempi e torna all’horror puro, confezionando il terzo capitolo della trilogia delle Madri, cominciata con uno dei suoi migliori film in assoluto (“Suspiria”) e proseguita poi con “Inferno”.  La vicenda riguarda un’antica urna che viene ritrovata in un cimitero e una giovane studiosa (Asia) che scopre di possedere le doti soprannaturali per fronteggiare gli orrori scatenati dal ritrovamento. Ma lo spunto narrativo conta relativamente, e serve invece come immersione in un maelstrom onirico di incubi e ossessioni, di case e corridoi, di squarci urbani notturni e spettrali, di scale e musei deserti in cui affiorano le angosce del profondo. Soprattutto, questa volta abbiamo un gruppo di furie che irrompono nelle strade di Roma seminando violenza ed aggressività, tra scenari quasi astratti, in una società e in un mondo sprofondato nel caos. Un film brusco, febbrile, dal montaggio a tratti velocissimo, narrativamente squinternato e con momenti maldestri: fans molto delusi, ma c’è sempre più cinema che nella maggior parte dei film italiani paratelevisivi.

 

TIDELAND – IL MONDO CAPOVOLTO (Usa, 2005) di Terry Gilliam, con Jodelle Ferland, Jeff Bridges

   Ogni film di Terry Gilliam è un viaggio nello sguardo dove si intrecciano sogni deliranti, iconografia fiabesca, alterazioni percettive, magari sotto l’effetto di droghe. E’ un’idea di cinema come trip allucinato, dove convenzioni e perbenismi saltano in aria e i protagonisti sono dei baroni di Munchausen o dei tossici persi, sognatori eccentrici e marginali in fuga dalla banalità del mondo. I suoi film vanno da “Brazil” a “Paura e delirio a Las Vegas”, e la sua fama di culto presso i fan è pari solo al terrore che i suoi progetti faronici seminano tra i produttori hollywoodiani. Questa volta si rifà ad un libro di Mitch Cullin, dove una bambina passa le giornate a preparare siringhe e dosi per i genitori completamente fatti, li vede morire l’uno dopo l’altro di overdose e si ritrova quindi tutta sola in una stamberga di campagna, immersa nelle sue visioni tra paesaggi American Gothic, cadaveri imbalsamati e personaggi fulminati. Affascinante nella prima parte, poi affidato soprattutto a singole intuizioni e provocazioni: a cominciare dai dialoghi surreali con teste di bambole staccate dai corpi. Narrativamente pesante, figurativamente talentuoso: come è quasi sempre Gilliam.

 

INTRIGO A BERLINO (Usa, 2007) di Steven Soderbergh, con George Clooney, Cate Blanchett

    Ci sono registi come Clint Eastwood che sono cresciuti nell’ambito del cinema hollywoodiano, ma hanno saputo a poco a poco rendersi indipendenti approfondendo sempre più le loro radici, senza rinnegarle. Ci sono invece registi come Soderbergh che hanno compiuto il tragitto opposto: nati come indipendenti, fieramente opposti a Hollywood, hanno poi cercato un compromesso, adottando formule spettacolari ma esibendo sempre un compiaciuto scetticismo nei confronti dell’industria. Questo “Intrigo a Berlino”, ad esempio, rifà i noir anni ’40 ambientati nell’Europa massacrata fisicamente e moralmente dalla guerra, mostrandoci un americano idealista alle prese con una bella dark lady, con un tedesco misteriosamente scomparso e con i traffici loschi dei propri compatrioti. Il tutto girato in un gelido bianco e nero citazionista, che permette a Soderbergh di confezionare un ennesimo prodotto schizzinoso e fintamente spettacolare, prendendo le distanze dalla formula che adotta ma usandola per denunciare la riscrittura americana della Storia. Metalinguaggio e ideologia, si potrebbe dire.

 

ALPHA DOG (Usa, 2006) di Nick Cassavetes, con Emile Hirsch, Bruce Willis (al Cineplex e Uci Fiumara)

   Il regista di “Alpha Dog” è il figlio di John Cassavetes, grande autore di culto del cinema indipendente americano anni ’60 e ‘70, che ha influenzato molti dei registi successivi, soprattutto per il rapporto sviluppato tra la machcina da presa, l’attore e il set. Anche il figlio Nick ha sempre fatto della recitazione il fulcro del suo lavoro, ma è spesso scivolato in un gusto discutibile per interpretazioni sopra le righe. Stavolta ottiene invece il suo risultato più incisivo, rifacendosi al caso autentico di un ragazzino preso in ostaggio da una banda di spacciatori di mezza tacca. La vicenda prese nella realtà una svolta tragica che il film testimonia con una durezza tanto implacabile quanto fin troppo prevedibile, ma “Alpha Dog” vale soprattutto per il modo in cui vengono messi in scena questi personaggi in un mondo sospeso e allucinato, dove l’assenza di valori morali passa attraverso immagini, corpi e spazi anziché dai soliti predicozzi. Non per tutti i gusti, ma con una sua idea precisa di cinema: virtù insolita, oggi.

 

CEMENTO ARMATO (Italia, 2007) di Marco Martani, con Nicolas Vaporidis, Giorgio Faletti

   Ne avete abbastanza del piccolo cinema-soap all’italiana, delle storie due stanze e una cucina o del piccolo cabotaggio sentimental-poetico pronto per il passaggio tv? Avete nostalgia per quel cinema di genere che piace tanto a Tarantino? Ecco allora un trucido noir che vorrebbe rinverdire i gloriosi fasti di Fernando Di Leo e dell’Italian B-movie anni ’70, magari combinandolo con le ultime mode dell’estremo oriente. Protagonista, un bulletto di quartiere che ama la mamma e la sua ragazza, ma intanto commette uno sgarbo fatale ad un boss senza cuore: da uno specchietto dell’auto rotto per una bravata prende così il via una storia feroce di vendette, crudeltà e morti ammazzati costruita con gusto del paradosso volutamente artificioso e raccontata senza un attimo di tregua. Gli attori sono così così, Faletti cattivo non fa paura, il clima è da fotoromanzo alla “Notte prima degli esami”, certe immagini hanno pretese estetizzanti da spot? Tutto vero, perché si tratta di un film sicuramente furbacchione, ma con una sua simpatica ed energica vitalità: rischia di non acchiappare il pubblico giovane da multiplex cui punta, ma sotto sotto vorrebbe interessarsi alle ragioni del cinema molto più di tanti prodotti ambiziosi.

 

SUXBAD – TRE MENTI SOPRA IL PELO (Usa, 2007) di Greg Mottola, con Jonah Hill, Michael Cera

   Non fatevi ingannare dal titolo italiano, che sembra alludere solo ad un’ennesima commediaccia studentesco-demenziale. “Suxbad” (“Superbad”) è in effetti un film sboccatissimo, triviale e girato in modo elementare: ma è anche l’ennesima testimonianza della vitalità del cinema “basso” americano, che poi tanto basso non è. Qui ci sono tre studenti imbranatissimi e sfigati, che alla vigilia dell’università cercano la loro prima botta di sesso ma hanno una sola possibilità per farcela: procurare le bevande alcooliche vietate ai minori per la festa di una compagna. Mettendosi a caccia di whisky e vodka, i tre inizieranno una lunga notte di follia per le strade d’America, un po’ come era successo ai loro predecessori di “American Trip”: e quella che ne deriva è una sciagurata storia di formazione condotta tra battutacce trash, poliziotti dementi, ragazze ubriache, vomito, mestruo... La seconda parte vacilla un po’, ma la scrittura è a suo modo attenta, gli sceneggiatori giovanissimi vengono dai programmi di Borat e la regia è dell’ex-indipendente Greg Mottola, autore-con-ambizioni di “L’amante in città” e di tanta tv. Non per tutti i gusti, ovviamente: ma da non confondere con le altre commedie goliardiche da multiplex.

 

VACANCY (Usa, 2007) di Nimrod Antal, con Kate Beckinsale, Luke Wilson

   Estenuato dall’accademismo senza ispirazione dei Kenneth Branagh e dei flauti ben poco magici, sono andato a prendermi una boccata di cinema allo stato brado con questo piccolo film del terrore: che è conciso, incalzante e serrato, come ci si aspetta da un B-movie estivo che vuole solo intrattenere senza troppe pretese. Lo spunto è l’ennesima variazione sulla provincia da incubo: due coniugi restano bloccati con l’auto nel bel mezzo delle campagne Usa, si fermano a dormire presso un sordido motel e si ritrovano ad affrontare una vera e propria notte degli orrori, scoprendo che il padrone della stamberga e i suoi complici hanno il vizietto di terrorizzare e uccidere i loro clienti, filmandoli con videocamere e confezionando quindi appetitosi snuff-movie. Evitando i soliti compiacimenti cinefili sull’assassino voyeur come regista cinematografico, il film punta su una smaliziata scansione degli spazi, dei tempi, delle inquadrature, delle ombre e dei rumori. Peccato che dopo un po’ sia evidente che si tratta solo dell’imitazione di un B-movie, realizzata con mezzi e spirito mainstream in gita turistica nei bassifondi dell’immaginario: ma anche se mancano gli estri visionari di un Tobe Hooper e il finale è frettoloso, restano sempre una prima mezzora niente male e un prosieguo di buona efficacia narrativa.

 

IN QUESTO MONDO LIBERO (Gb, 2007) di Ken Loach, con Juliet Ellis

   Una madre disoccupata decide di rifarsi una vita sfruttando il business della manodopera straniera: s’inventa così un’agenzia di lavoro interinale, va in giro ad ingaggiare immigrati polacchi ed ucraini, s’arricchisce rapidamente sulla loro pelle e si ritrova al centro di un traffico sempre più feroce, complice e carnefice di quello stesso sistema che in fondo la sta stritolando come vittima.  L’ultimo film di Ken Loach è l’ennesimo viaggio nel mondo del lavoro e negli orrori del neo-schiavismo liberista: quello del caporalato interinale, dello sfruttamento selvaggio della manodopera, di una mancanza di diritti dei lavoratori che fa seguito a film come “Riff-Raff”, “Bread and Roses” o “Paul, Mick e gli altri”, tanto per intenderci. Tutto raccontato in modo accorato, mostrando nitidamente i rapporti che vengono a stabilirsi tra proletari inglesi ed operai stranieri, portando alla luce i cinismi e le contraddizioni ma anche scivolando su accenti che alla lunga tendono ad un moralismo didascalico. Ken Loach non è però solo il Bertinotti del cinema, è innanzitutto un bravo narratore, formatosi nel solco del teatro e della miglior televisone britannica: e lo si vede qui nel personaggio a suo modo tragico della protagonista, tra vitalismo popolare  ed amarissima discesa agli inferi.