Rocco Lomonaco  

Cilio, dialogante assente

Se ben ricordiamo, è questa che ora si pubblica ( die Schachtel, 2013 ) la terza edizione del succinto lavoro del napoletano Luciano Cilio, alla prima del 1977, uscita vivente l'autore, facendo seguito quella, aumentata di pochi brani ritrovati, del 2004. Ringraziamenti, anche stavolta, vadano a Girolamo De Simone, pianista e musicista di suo, custode e diffusore della memoria di un travisato outsider, il cui successo di stima è per sempre affidato al solo cameristico Della Conoscenza (o Dell'universo assente con cui è più noto). Titolo che per nella sua levigata e molata superficie appare satellite enigmatico, quasi stella nera fermata nell'improbabile equilibrio di forze e tensioni, ma che, quando apparve, non fece certamente rumore in orecchie volte altrove, veicolando suoni troppo consonanti per la contemporanea colta e poco eccitanti, pensosamente introversi, per la popolare. Erano peraltro, i tardi settanta, anni in cui stava sfilacciandosi il legame tra le musiche di ricerca ed un pubblico, falcidiato dalle diserzioni, stufo di rinviare il godimento. Mentre il punk dilagava, il muro della distrazione poteva essere superato solo con le mosse fortunate di un Battiato ritornato al pop (e già un Cacciapaglia o un Milesi, due nomi a caso, avrebbero faticato a trovare ascolto).

E se pensiamo ad un'etichetta discografica in grado di valorizzare la proposta di Cilio, la prima a venirci in mente, la Cramps, risulterà per storia e progetti parecchio distante dalla proposta del partenopeo,  più vicino alle tracce sbrigliate di Shawn Phillips o Alan Sorrenti (rimanendo in terra campana) che all'antagonismo strillato, e tutto interno ai manifesti novecenteschi, rivendicato dalla creatura di G. Sassi. Oggi che la stessa die Schachtel ripubblica i Prati bagnati del Monte Analogo di Lovisoni e Messina è più facile misurare lo scarto tentato da Cilio, a partire dalla minimizzazione di ogni suggestione culturale in cui acquietare una qualche tensione mistica. Invece, all'interno di un catalogo sterminato e dispersivo come quello della Emi, su cui poi esordì, la qualità di una proposta ostinatamente asciugata e ripensata ne risultò per così dire esaltata nell'aspetto di compiuta e imprendibile meteora.

Muovendosi felpato tra rarefazioni kingcrimsoniane (come non riandare agli arpeggi acustici del primo Fripp?) punteggiature percussive orientaleggianti e fiati reminiscenti della Third Ear Band meno derviscia o più sciarriniana, Cilio firmava il suo isolamento. Ma il nostro è solo un ennesimo sgocciolare di nomi nel tentativo di accerchiare un enigmatico oggetto sonoro che nei suoi impasti timbrici ha metabolizzato, e non necessita di esibire, influenze etniche e memorie popolari. Si ha come l'impressione che l'opera nascesse già perfetta nella mente di Cilio e che la sua partizione in quadri o interludi fosse una graziosa suggestione volta a mitigarne l'estraneità favorendone l'accostamento da parte di orecchi estranei. Naturalmente, non era così, ma va ascritto a suo merito  averne limato le pagine e nascosto la polvere di una tradizione fino ad ottenere lo scintillio di un'origine trasparente e scura. Tradendo le aspettative di facile mediterraneità, sfuggendo all'abbraccio dei quartieri africani e cartolineschi, in cui ciclicamente si compiace e soffoca tanta scena napoletana, Cilio metteva tra parentesi il discorso tramandato e, concentrandosi su suono e timbro, si sceglieva affinità e precursori dalla vena nordica e scura. Romanticamente parlando, scriveva un Liebesleid, non una romanza. E le sue voci non evocavano le sirene di uno spavaldo Ulisse, ma gli sgomenti stellari di Tim Buckley.

Pensava anche lui che Napoli  è tanto più grande quanto meno, sedotta da canti sudaticci, si lasci scivolare verso le coste dirimpetto: quanto più, pur con i piedi a mollo nel mediterraneo, rivolga la testa alla luce notturna nordeuropea. E nel medesimo solco, in questa  ristampa, lo stesso De Simone ci pare trascriva ed interpreti al pianoforte una manciata di brani originali, letti e prolungati (se possibile) nella linea di un sereno e consapevole sradicamento, lontano da terra e condizionamenti irriflessi. “Fogli di via”, maggio-luglio 2014