Jean Montalbano
Chinatown
Sam Wasson: THE BIG GOODBYE. CHINATOWN AND THE LAST
YEARS OF HOLLYWOOD. Flatiron Books,
2020
Sarà
pure un luogo comune, come quello su Citizen Kane miglior film o il 1939
migliore annata di Hollywood, ma Chinatown (1974), perlomeno
quanto a sceneggiatura, tuttora gode di un credito pressoché unanime.
Sam
Wasson (The Big Goodbye. Chinatown and the Last Years of Hollywood, Flatiron
Books, N.Y., 2020) consacrandogli una monografia ricca di dettagli rivelatori
ne perpetua la fama di estremo noir maturo mentre, pagina dopo pagina, tenta di
calibrare l'apporto dei rispettivi, dotati almeno quanto disturbati, artefici.
Sognare di stare in paradiso e svegliarsi nella tenebra: questo sarebbe Chinatown
secondo Towne, il suo sceneggiatore. Ma tante sono le
Chinatown, almeno quanto i nostri sogni e Wasson deve
anche farsi spazio nello scarto tra il Chinatown pensato e quello modellato (tra paure e tensioni) da altri tre
co-creatori: Polanski, regista, Nicholson, attore protagonista e Evans,
produttore. Di tutti vengono ripercorsi gli anni precedenti e successivi al
1974 come a riportare sul piano delle vicende egocentriche e terrestri un esito
che altri attribuirebbero all'incontro astrale di quattro traiettorie
artistiche. A suo modo, anche Wasson perlustra, ma
spesso risultando dispersivo e indulgente, le fortune del film per scovare,
nelle sue origini, tracce di piccoli crimini.
In
partenza ci sono una città, la Los Angeles dell'infanzia ma anche quella fantasmata, di Towne: i suoi
crimini e dunque oltre a McCoy, Chandler e Cain, West
(per combinazione durante le riprese nello studio di fianco Schlesinger
stava girando Il giorno della locusta) e la lezione dell'allora
meno frequentato John Fante, i ritmi e le cadenze dei suoi personaggi. La
siccità, da piaga biblica, si fa troppo umana scarsità d'acqua in un luogo
arido mascherato da paradiso. Il suo Marlowe scopre il ruolo del clima, e della
geografia, della terra, in quella LA che non è mera città, ma merce, prodotto
da vendere al sogno americano, un agglomerato senza centro in perenne
trasformazione-espansione-autodistruzione. Eppure negli stessi anni è pure un
luogo ideale, il posto dove essere anche per molti espatriati tedeschi in fuga
dal nazismo che ne potevano riassumere gli anni della grande depressione nella
tranquillizzante formula “Weimar-sul-mare”, antimito
pessimistico, meno pretenzioso, certo, dell'altro, l'Atene-d'America”.
Towne immaginò una storia che mostrasse la futilità
delle buone intenzioni in un ambiente di corruzione pervasiva, ma con l'arrivo
di Polanski (decisivo il suo lavoro di editing e messa a fuoco su una stesura
originaria che rischiava di sfrangiarsi nei troppi dettagli) “Chinatown”
divenne stato della mente, insistenza del male, da cui l'estromissione risoluta
di ogni residua speranza di addentellati romantici.
Nella prime pagine Wasson
sembra psicologizzare troppo sull'infanzia di Polanski per riconoscergli in
seguito il giusto peso nell'evoluzione degli studios:
a lui (e a Coppola, Friedkin, Altman, ecc) sarebbe toccato il compito di rispondere alla
domanda sull'esistenza o meno di Hollywood tout court al tempo delle utopie e dei
Be-In californiani. Polanski raccolse la sfida di ambientare la vicenda negli
anni 30 di una città nota per cancellare e travolgere, nel continuo sviluppo,
tracce del suo passato, studiandosi di evitare un kitsch revisionistico e
opponendosi all'intento del produttore Evans, artefice del successo di Love
Story, di dar più spazio all'affair tra il
detective Gittes (Nicholson: diversamente da più
nobili colleghi, è un detective che non rifiuta d'occuparsi di divorzi) ed
Evelyn (Faye Dunaway). Se
non altro per il passato biografico, l'unico flirt possibile per il regista era
quello con il male.
Ne
risultò, secondo il riluttante Towne, un'opera fredda
e cinica con un finale senza speranze, pur convenendo che il film fu un
tempestivo requiem (Oscar alla sceneggiatura nel 1975) per un sogno (anche
quello della New Hollywood) in cui si rispecchiava la perdita dell'innocenza
delle istituzioni americane. Difatti a fine giornata anche la troupe assisteva
in tv agli altri “giornalieri”, quelli delle deposizioni sul caso Watergate. L'America diventava Chinatown, il film, e
da metà 70 in avanti Hollywood passava dal fare-film al fare-contratti in vista
di blockbusters (il tempo governato dagli Inferno
di cristallo e dagli Squalo, insiste sconsolatamente Wasson), dai vecchi hyppies ai
giovani yuppies.
“fogli di via”, luglio 2020