Pubblicato da “Tempo
Presente” nel 1967 (settembre-ottobre) questo articolo di Nicola Chiaromonte (1905-1972) è stato ripreso da Cesare Panizza in La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68 (Una Città,
2009)
Nicola Chiaromonte
la nuova sinistra
In realtà, un’opinione di sinistra inorganica e fluttuante esisteva fin
dall’immediato dopoguerra. Pochi di quelli che aderirono al partito comunista
durante la guerra e dopo, e nessuno di quelli che gravitarono intorno al
medesimo partito negli stessi anni, erano comunisti. Comunisti erano i
dirigenti e i funzionari, mentre la massa operaia, tutto sommato, rimaneva nel
solco della tradizione socialista; ma comunisti non erano certo i molti
compagni di strada, simpatizzanti, anti-anticomunisti e intellettuali marxisteggianti che fecero, fino al 1956 circa, la fortuna
e il prestigio dei partiti comunisti. Erano, quelli, i seguaci approssimativi e
confusionari di un’estrema sinistra di fantasia che si mettevano dalla parte
del comunismo sia perché ritenevano doveroso aggregarsi alla marcia della
Storia, sia perché credevano di trovare lì quello che non si trovava da
nessun’altra parte politica: l’Idea, più l’efficienza.
Esisteva, fin da allora, una sinistra indefinita e mollemente eretica; anzi, si
può ben dire che la sinistra era quella: del nucleo duro del comunismo
ufficiale si cercava d’ignorare l’esistenza, ed esso stesso si camuffava in
varie fogge. Ma, da tre o quattro anni a questa parte, è venuta formandosi una
corrente d’opinione politica la quale non solo è completamente fuori da ogni
partito, ma sfugge anche a ogni definizione ideologica chiara. Negli Stati
Uniti, ha preso il nome di «nuova sinistra».
S’è formata, questa «nuova sinistra», per dato e fatto della politica
americana: a essere esatti, in seguito alla guerra del Vietnam. Negli Stati
Uniti, il movimento degli studenti dell’Università di Berkeley
(ormai disperso) prese forza dalla ripugnanza per quella guerra, oltre che dal
desiderio di agire -e non soltanto parlare- in favore dell’eguaglianza civile
della popolazione negra. Anche in Europa, la guerra del Vietnam ha fatto
cristallizzare, specie fra i più giovani, una corrente (o meglio si direbbe:
uno stato) d’opinione le cui componenti sono abbastanza ovvie: antiamericanismo
considerato sinonimo di anticapitalismo (e di antimperialismo); anticapitalismo
inteso come rifiuto di quella che si usa chiamare «civiltà dei consumi» ed è
concepita come l’ultimo stadio della degradazione della società borghese
occidentale, la quale società sarebbe destinata a esser spazzata via dalla
rivolta delle genti di colore o comunque vittime dell’imperialismo, Cina e Cuba
in testa, Paesi dell’America latina e dell’Africa al seguito, magari con
l’aggiunta degli arabi, vittime del colonialismo israeliano.
Questa sequela di tesi, nella quale si possono facilmente distinguere le
influenze di J. P. Sartre e di Frantz Fanon, ma che in sostanza rappresenta una specie di
riduzione all’estremo di taluni concetti che chiameremo marxisti tanto per
intenderci, non costituisce certo un corpo di dottrine. Non varrebbe la pena di
discuterla se non fossero in massima parte dei giovani a propugnarla e se,
d’altro canto, il campo della politica offrisse attualmente a questi giovani
altre e migliori indicazioni per manifestare l’insofferenza per il presente, lo
sdegno per l’ingiustizia e il disgusto per la falsità che sono le passioni
diremmo doverose della gioventù.
La questione potrebbe finire qui: con la constatazione che i fatti giustificano
il ribellismo, sia pure incoerente, di questi giovani e che, visto che nessuno
sa offrir loro un ideale politico più valido, è naturale che essi si servano di
quello che son riusciti a fabbricarsi con i relitti e residui delle idee che
hanno ereditato dai loro padri e fratelli maggiori.
Ma non può finir qui, la questione. Per confusionari che siano, questi giovani
vanno presi sul serio, e l’unico modo di non prenderli in giro è quello di
trattarli da pari a pari, discutere le loro idee senza indulgenza né disprezzo.
Ora, il fatto è che le idee della «nuova sinistra» non peccano tanto per
incoerenza quanto perché rappresentano un tentativo di uscire dal vicolo cieco
in cui si dibatte da decenni la sinistra europea spingendo all’assurdo
precisamente le tendenze che l’hanno portata nel vicolo cieco medesimo. Il che
vale quanto dire che le idee della «nuova sinistra» non sono in realtà né un
ripensamento delle idee socialiste o libertarie né un nudo, crudo e pragmatico
piano d’azione, ma una mera operazione cerebrale: letteralmente, un sogno a
soggetto politico, il quale può diventare tema di discorsi, e magari anche di
libri, ma non per questo esce dall’irrealtà intrinseca che lo distingue.
Giacché questi giovani e meno giovani aderenti della «nuova sinistra» non
devono immaginare di essere i soli a riconoscere le ingiustizie, brutture,
brutalità e insensatezze del mondo in cui viviamo. Che la guerra del Vietnam,
per esempio, è orribile e assurda lo sanno anche i più alti dignitari del mondo
cosiddetto «capitalista»: lo sa anche il Papa, oltre a saperlo la gente della
sinistra vecchia e nuova. Il problema, per il Vietnam come per la questione dei
negri e per le altre, è in qual modo efficace l’opinione contraria possa farsi
valere. Ed è a questo punto che la «nuova sinistra» fugge per la tangente della
rabbia, e proclama la guerra santa contro gli Stati Uniti o, per esser precisi,
applaude alla guerriglia e alle sommosse razziali.
La nuova sinistra, cioè, non riconosce le cause, anzi la causa, da cui essa
stessa ha origine. La quale non è la perversità dei governi o la pusillanimità
dei socialdemocratici, ma l’impotenza apparentemente irrimediabile
dell’opposizione, di ogni opposizione, nell’attuale condizione del corpo
politico. È dall’esasperazione per l’apparente paralisi della politica interna
(ossia della vita politica essa stessa) che nasce lo stato d’animo della «nuova
sinistra». Ma quando poi si tratta di rispondere alle questioni di politica
interna, tutto quel che essa sa produrre è o una surenchère
massimalista sulla politica governativa o l’evasione nella politica estera.
Il fatto invece è che, in Europa come negli Stati Uniti, la questione cruciale
oggi non è affatto quali scopi si debbano opporre alla politica governativa: in
genere, basta mettere al negativo la politica del governo per avere un
eccellente programma d’opposizione. Il problema è come fare perché il programma
dell’opposizione diventi una politica: insomma, come fare perché, nelle attuali
condizioni della società industriale, ci sia una vita politica e non soltanto
delle decisioni che scendono dall’alto dopo esser state combinate negli
altissimi consessi dei tecnici e dei burocrati, negli uffici di partito e nelle
lobbies dei gruppi di potere.
Finché non si risolve questo problema, l’opposizione, ribellista
o meno, rimarrà un fatto verbale e un sogno rabbioso. Verbo per verbo e sogno
per sogno, tanto varrebbe allora ragionare sui dati elementari della
situazione, mettendo fra parentesi ogni presupposto ideologico.
Ora, il dato più elementare della situazione è che l’attuale società
industriale ammette in teoria prosperità quanta se ne vuole, e in più una
grande e quasi illimitata libertà d’indifferenza (della quale anzi ha
strettamente bisogno per funzionare); ma, quanto alla libertà politica in senso
proprio, essa è tutta da restaurare: i meccanismi burocratici e tecnici l’hanno
esautorata. Ora, la libertà politica non è un bisogno di massa, benché, senza
libertà politica, tutto quel che le masse possono sperare è una porzione
congrua di beni di consumo; di giustizia è inutile parlare; e, quanto alla
pace, dipende dai calcoli geopolitici e strategici.
Dal che discende che la restaurazione della libertà politica (che poi è quanto
dire di una vita politica reale e non cifrata) è oggi inevitabilmente compito
di una minoranza di volontari, ed esige molta più risolutezza e tenacia che non
ne occorra per propugnare la guerriglia in Paesi lontani.
Ma questo non è lavoro che si possa esigere dai giovani della «nuova sinistra».
Dai padri e dai fratelli maggiori, essi hanno appreso a correr dritto alle
conclusioni, non a esaminare le premesse; hanno appreso ad ammirare e seguire
chi agisce in modo spettacolare, non chi ragiona; hanno imparato che il mondo è
quello che è e bisogna prenderlo per quello che è, non sognarne un altro che
non esiste. E allora, quando si trovano dinanzi a una realtà che non li
soddisfa, non possono fare altro che decidere verbalmente in favore del più
estremo e del più violento. Dunque si schierano con Mao Tse
e con Guevara. A parole, s’intende. Infatti, oggi, un giovane europeo ribelle
che cos’altro può fare se non dire di essere in favore della rivoluzione
culturale in Cina e della guerriglia in America latina, nonché magari nelle
città degli Stati Uniti, secondo predica Stokely Carmichael(*)? Non troverà neppure contraddittorio,
un tal giovane, dopo aver detto cose simili, marciare per la pace e contro la
bomba atomica. Quanto all’effetto di un tal dire, c’è la soddisfazione di
sentirsi dalla parte non solo della giustizia, ma anche della potenza (nel caso
della Cina) e della violenza avventurosa (in quello dei guerriglieri
castristi).
In ultima analisi è il culto della potenza e della violenza che si diffonde,
sotto specie di «nuova sinistra». E, con questo, il cerchio dell’involuzione
della sinistra europea, cominciata nel 1914, si chiude.
Giacché è come rivolta contro la potenza e la violenza che la «sinistra»
liberale, democratica e socialista nacque, in Europa. Anche se portò sempre in
sé un certo culto romantico dell’azione violenta, il movimento libertario e
socialista del secolo scorso rimase sempre, nel fondo, pacifico e pacifista. Il
culto dell’azione e dell’eroe guerriero, liberali, democratici e socialisti lo
lasciarono sempre ai reazionari, ai militaristi, ai nazionalisti. La cosa
diventò più che chiara col fascismo e col nazismo. Ma la seconda guerra
mondiale (senza parlare di ciò che l’aveva preceduta, in Russia e altrove) non
scatenò soltanto la bestialità hitleriana, bensì dappertutto e in tutti (tranne
un’infima minoranza) la convinzione «realista» che nulla, nella storia, si
ottiene senza violenza e, per converso, con la violenza bene organizzata si
ottiene tutto.
Questo è il punto a cui siamo. A questi princìpi sta
tornando, sotto specie di perfetta tecnicità, la società organizzata. Ma c’è da
notare che, nel frattempo, i mezzi di far violenza sono diventati, più che
efficaci, assoluti, e sono proprietà esclusiva dei ricchi e dei forti. Sicché
l’appello alla violenza per il supposto riscatto dei deboli oppressi non può
avere da ultimo altro risultato che di rafforzare i potenti. È quindi
condannato a fallire, non foss’altro che perché si
riduce ad affrontare l’avversario sul terreno sul quale esso è più forte,
tattica sbagliata anche in termini guerreschi.