CarloRomano
il mito e il Che
Il "Che" non si lavava, ma questo è niente.
Che fosse fitta la sporcizia, spesso l'unto e gli afrori disgustosi lo affermavano
perfino i suoi compagni della "Sierra", dove le condizioni igieniche
erano difficili per tutti (le cose non miglioreranno ad ogni modo nella sua
breve e comica veste di Ministro e burocrate). I compagni ne subivano inoltre
la "spocchia". Si sentiva intellettualmente superiore e non è facile
capire perché. A dargli tanta sicurezza erano probabilmente state sufficienti
le lezioncine di "marxismo-leninismo" impartitegli dalla moglie
(anche lei, a quanto si racconta, in guerra col sapone). È per altro noto come
si spacciasse da medico senza esserlo. Argentino, si beffava dei cubani e della
loro particolare cadenza spagnola. Un atteggiamento che altri avrebbero
declinato nel cameratismo, ma non lui. "Non arrivò mai ad essere cordiale.
Non arrivò mai a considerarci completamente come compagni". Di più:
"Non sapeva farsi degli amici, non era affabile, non lo è mai stato. Era
dispotico e insolente fino alla villania".
Queste cose le racconta Orlando de Càrdenas,
giornalista, uno dei principali collaboratori del movimento castrista
nell'esilio messicano. Sono del resto elementi sui quali concordano pressoché
tutte le testimonianze raccolte da Pedro Corzo
in "Che Guevara, missionario
di violenza" (Spirali, €18) un libro che si aggiunge ai saggi e ai
vari documentari (fra i quali "Che
Guevara, anatomia di un mito") che Corzo - entrato diciannovenne nelle
prigioni di Castro e oggi presidente dell'Instituto della Memoria Històrica
contro el Totalitarismo - è venuto dedicando alla storia cubana, in specie
quella dopo il 1959. Ma le testimonianze concordano su ben altro, anche se già
da questi primi ingredienti è facile dedurre, quantomeno, la sgradevole
personalità del famoso guerrigliero.
Guevara prediligeva la giustizia sommaria a quella
regolata dal diritto, quantunque i processi "epuratori",
abbondantemente pilotati dall'alto e privi delle più elementari garanzie,
portassero frequentemente a quelle stesse sentenze di morte che "il
Che" infliggeva con la brutale indifferenza di un colpo di pistola alle
tempie. Ciò fu evidente fin dal tempo della guerriglia, della presa del
"treno blindato, della conquista di Santa Clara - episodi che per giunta
diverse testimonianze ridimensionano rispetto al canonico eroismo dei racconti ufficiali - e
raggiunse il culmine nel suo ufficio della "Cabaňa", quella
sorta di "Lubianka" caraibica che il Che ebbe a dirigere, A nulla
valevano le richieste di clemenza, nemmeno se a farle erano i compagni. Se -
come azzardò un parente di Elìas Nazario Sargent, capitano dell'"Ejército
Rebelde" - gli si rinfacciava: "comandante, quando lei era ancora nel
suo paese, io cospiravo contro Batista e ora le sto chiedendo un favore perché
quest'uomo non ha fatto niente", ci si sentiva rispondere: "stai
diventando un controrivoluzionario". Lo storico Enrique Ros – cubano
emigrato, autore fra l’altro di “Che
Guevara: Mito y Realitad” – sostiene che per puntualizzare l’indole del Che
– non “un grilletto facile” dice, ma “un individuo insensibile di fronte al
dolore altrui” – basta leggere i suoi scritti. “Nel dubbio, ammazzalo” è una
frase che gli ammiratori del guerrigliero conoscono bene.
Intendiamoci, per quanto sia agghiacciante è fatale
mettere in conto alle rivoluzioni delle esplosioni incontrollate di violenza
attraverso le quali si pensa di essere risarciti, finendo in tanti casi a
rimescolare le vendette personali o i semplici risentimenti con gli obiettivi
dichiarati. Inutile farsi delle illusioni sugli uomini. Nel caso di Guevara non
si tratta tuttavia di deplorevoli ma comprensibili esagerazioni rabbiose, di
accessi spontanei e brutali determinati dalla durezza della tirannia che si è
abbattuta, e nemmeno di malsani scopi individuali astutamente messi al riparo
nella confusione generale. Si tratta, differenza non trascurabile, salvo che
per i morti, di cosiddetta "legalità rivoluzionaria", si tratta di
sistema, si tratta di Stato.
Quella cubana, rispetto ad altre rivoluzioni, ha
goduto di una luce tropicale che ne ha trasfigurato la realtà agli occhi dei
tanti ammiratori. La si è vista come una sollevazione allegra e colorata. Nella
sua tessitura, l’immagine del Che – quella di un compagno di cui Castro in
realtà si sbarazzò con gioia – è stata abilmente sfruttata per rinvigorirne la
ricezione romantica. L’immagine del suo corpo sdraiato dopo la morte su un
lastrone della lavanderia di Nuestra Señora de Malta è stata paragonata a quella
del Cristo morto di Mantegna e la stupefacente somiglianza è ormai rimarcata nei
libri di storia dell’arte (si veda, per esempio, edito da Feltrinelli, “Su Mantegna” di Giovanni Agosti). Il
ritratto fotografico che Alberto Diaz (Korda) scattò a un Che dall’espressione
malinconica ha corrisposto perfettamente al bisogno di romanticismo
rivoluzionario di più generazioni, ancorché l’uso con gli anni sia diventato
sempre più incongruo. Magliette, cartelloni e ogni genere merceologico, anche
il più sorprendente, hanno sfruttato questa immagine, inizialmente diffusa nel
mondo dal nostro Feltrinelli. Korda stesso intraprese delle battaglie legali
per l’uso improprio della sua fotografia. Poco prima di morire, nel 2001, aveva
vinto la causa intentata alla vodka Smirnoff.
Recentemente quest’immagine si è ricomposta nelle
sembianze di Benicio Del Toro, interprete e produttore di “Che” diretto da Steven Soderbergh. In un’intervista al magazine
online “The Ruptus” il regista ha affermato: “mi interessava la sua volontà,
l’insolita forza che ha mostrato, la sua capacità di trasformare l’indignazione in lotta”. C’è chi la vede in
un altro modo: “sanguinario e assassino…
alla Cabaňa non ebbe compassione di nessuno, nessuno venne perdonato, i
processi erano tutti manipolati, ingiusti, senza che le persone potessero
difendersi”. Chi lo dice è Sergio Garcia, il cui fratello venne fucilato per
ordine di Guevara. In una lettera a Hilda Gadea, sua moglie, il Che, pochi
giorni dopo lo sbarco a Cuba, scrisse,:
“Sono arrivato qui assetato di Sangue”.
“Il
Secolo XIX”, 6 gennaio 2010