Maurizio Cabona

limpietoso Chabrol (1930-2010)

 

Il regista che metteva più spesso gli attori sia a tavola, sia a letto, Claude Chabrol, è morto a ottant’anni. Nell’occasione, il portavoce del sindaco di Parigi ha definito Chabrol «prolixe», nel senso di prolifico, non di prolisso. Infatti, nei grossi festival, dove prolissi sono la maggior parte dei film, quelli di Chabrol erano chiari, concisi, ben recitati. Fin da Violette Nozière (Cannes, 1978) Isabelle Huppert deve loro la consacrazione.
Fra i film non da festival di Chabrol, ci sono La tigre ama la carne fresca e La tigre profumata alla dinamite, così brutti da sembrare opere altrui. Chabrol si sarebbe occupato solo della parte tecnica. Deliranti sono anche Marie Chantal contro il dr.Kha e Criminal Story, ma anch’essi hanno trovato i loro cantori fra i devoti, che in una lunga carriera si affezionano soprattutto alle opere infelici.
L’esordio nel cinema di Chabrol avvenne dopo una goliardia costellata di frequentazioni interessanti. Avrebbe fatto scandalo retroattivamente quella con Jean-Marie Le Pen, allora attivista universitario. Non scandalosa, ma insolita, quella con Eric Rohmer, professore di liceo e romanziere, che non nascondeva simpatie monarchiche che l’avrebbero accompagnato fino alla morte.
Ma torniamo a Chabrol giovane. Non sarebbe diventato farmacista come il padre. Conobbe però Jean-Luc Godard e François Truffaut, che allora collaboravano al settimanale “Arts” di Jacques Laurent: nei primi anni Cinquanta il non-conformismo letterario si richiamava a Paul Morand e quello cinematografico a Sacha Guitry, che avevano entrambi patito l’epurazione postbellica; negli anni Sessanta il vento sarebbe cambiato e dallo spirito del ’68 Chabrol, Truffaut e Godard avrebbero tratto un ulteriore rilancio. Perché un regista, quale che sia il regime, vuole soprattutto fare film…
Alla gioventù di Chabrol risaliva anche il sodalizio professionale che sarebbe stato più intenso e fecondo, quello con Paul Gégauff, suo principale sceneggiatore negli anni Sessanta/Settanta ed episodicamente anche attore. Gégauff non celava le simpatie naziste, ma nessuno lo prendeva sul serio come minaccia alla Quinta Repubblica. E poi la sua morte fu quanto di più chabroliano potesse esserci, perché la seconda moglie lo pugnalò. Per giunta alla vigilia di Natale (1983).
Molti registi amano lavorare con gli stessi tecnici e attori. Era così anche Chabrol. Agli inizi (Le beau Serge, I cugini, Donne facili…), i suoi interpreti erano Jean-Claude Brialy, Gérard Blain, Bernadette Lafont, Charles Denner, Maurice Ronet; poi, prima del periodo finale, quello con Isabelle Huppert, la fase centrale con Stéphane Audran, divenuta sua moglie. Essa coincise con la liberazione sessuale, quando il desiderio non doveva più condurre necessariamente i personaggi all’obitorio. Ma Chabrol era del 1930 e ammirava Hitchcock, sul quale aveva scritto un libro con Rohmer. Unendo l’esigenza di seguire le mode e restar fedele a se stesso, rappresentò adulteri vari con leggerezza, ma facendoli sfociare nel peggiore dei modi.
Agli inizi fu considerato il meno bravo dei registi della Nouvelle vague; poi lo si prese addirittura per un rinnegato consumista. Fra i suoi maggiori incassi italiani c’è un’opera minore, il cui successo fu aiutato dal caso e dalla sfrontatezza del distributore: Les Biches («Le cerbiatte») - dove la Audran, ricca, seduceva Jacqueline Sassard, povera - apparve in Italia col titolo originale, meno lo spazio fra articolo e sostantivo: Lesbiches. Un colpo di genio.

Quando ci incontravamo, Chabrol rideva a quel ricordo. Non si prendeva sul serio, quindi sapeva divertirsi della disinvoltura commerciale altrui. Mi diceva che un regista poteva permettersi di tutto, «incluso far dipingere di rosa il prato dell’Eliseo, mentre un presidente delle Repubblica che avesse avuto una simile trovata sarebbe finito al manicomio». A Godard o a Resnais, fra i reduci della Nouvelle vague, questo disincanto mancava e manca.
Del resto i soldi per il primo film di Chabrol, Le Beau Serge,(1957) non venivano da un finanziamento pubblico o dalla dalla fiducia di un produttore chiaroveggente. Era l’eredità della suocera. Ricordare quel lutto metteva Chabrol di buon umore anche mezzo secolo dopo: non era stato l’evento che gli aveva cambiato la vita? L’eredità finì presto, ma la carriera era avviata e l’imprudente moglie non serviva più. Un regista affermato può attrarre una giovane attrice. In questo caso fu la Audran e fu per Chabrol una nuova, più intensa esperienza. È improbabile quindi che ieri sia spirato intravvedendo il paradiso. Quello se lo lasciava alle spalle.

“il Giornale”, 13 settembre 2010