Preleviamo da “il Foglio” questo articolo: non avremo potuto dire meglio.

Duccio Trombadori

Come ricorderemo Germano Celant

La morte di Germano Celant mi ha colpito perché la sua uscita di scena dal mondo dell'arte segnala che ormai è tempo di consuntivi per tutti coloro che, volenti o nolenti, sono riconducibili alla stramaledetta “generazione del '68” (io tra questi). Celant, chi era costui? Un “critico d'arte” pieno di fama nel sistema fantomatico e illusionistico della cosiddetta “arte contemporanea” che mette in scena giganteschi apparati spettacolari (musei appositamente costruiti, allestimenti di mostre internazionali, Biennali varie ecc.) facendo circolare idoli estetici a getto continuo con relativo lancio di firme vendute a caro prezzo in un giro di mercato finanziario internazionale.

Celant è stato il guru italiano del processo trasformazione dell'arte visiva in epifenomeno della industria culturale di massa. Per quanto rinomato, tuttavia, il suo nome non è rimbalzato agli onori del riconoscimento pubblico che parrebbe avere meritato. In fondo pochi o nulli sono stati i commenti di rilievo sulla sua dipartita, trafitto dal coronavirus (80 anni). Ma non ne farei una pietra di paragone. In Italia non è la prima volta che accade...

Onoranze funebri e celebrazioni pubbliche di rilievo toccarono certo a Giulio Carlo Argan, ma molto più perché era stato sindaco di Roma che non perché era stato un raffinato critico d'arte. E gli altri poi? Come vennero ricordati Venturi, Longhi, Brandi, Ragghianti, Emilio Villa, Russoli, Maltese, Carluccio, Testori, Menna, Dorfles, De Micheli, eccetera, eccetera? Se non passarono sotto silenzio, direi che più o meno fu quasi così. Eppure si trattava di uomini veri di cultura, di studiosi e conoscitori approfonditi come pochi ce ne sono stati in Europa, e molto, ma molto più di Germano Celant, che diversamente da loro ebbe in sorte la singolare fortuna circostanziale di animare la smania di protagonismo artistico della generazione del '68, sostenuto in questo dalla voglia di casa Agnelli e dintorni di spostare a Torino il baricentro del sistema italiano dell'arte, con tutte le implicazioni di mercato che questo comportava, sulla scia del modello della Pop Art americana e del successo veneziano del '64.

Celant ha inaugurato la nascita del critico manager, organizzatore e comunicatore di eventi culturali nella società dello spettacolo, dove l'artista singolo diventa un comprimario nel coro di successo, uno strapagato da pochi collezionisti e musealizzato nel sistema della cosiddetta “arte contemporanea”, nozione fantasma o miraggio mass-mediatico di cui tanti vorrebbero però entrare a far parte come tanti vorrebbero far parte del sistema show televisivo nella “civiltà delle immagini”. Non credo che ricorderemo Celant per la sua eleganza narrativa e per la penetrante scrittura, o per la capacità di trascrivere in parole i valori visivi, e per tutto ciò che rende vivo il linguaggio della critica d'arte. Lo ricorderemo come il manovratore eccellente di un formidabile complesso estetico-finanziario che ha incasellato la attività degli artisti italiani e non italiani nel turn-over del ciclo post-industriale di fine '900.

"il Foglio", 3 maggio 2020