Jean Montalbano

Fede, speranza e carneficina

Nick Cave - Seán O’Hagan Fede, speranza e carneficina, La Nave di Teseo, 2022

Condotta sul modello Paris Review, frutto di prolungati e franchi scambi, questa conversazione ruota, inevitabilmente, intorno ai temi di colpa, redenzione e guarigione che tanto occupano le riflessioni dell’artista australiano. Pochi forse se lo sarebbero aspettato dal giovanotto rabbiosamente saltellante sui palchi con i suoi Birthday Party o Bad Seeds: oggi a confrontarsi con aspetti così alti, tradizionali, religiosi insomma, tra la sorpresa di fan della prima ora, è un più che sessantenne giustamente preoccupato di uscire fisicamente indenne, in legamenti e cartilagini, dalle conseguenze di un azzardato e intempestivo, ma quanto morrisoniano, “crollo” sulle ginocchia. Conversazione, si diceva, non intervista, provocata da O’Hagan in cui Cave torna ancora a interrogarsi sulla vita segreta delle canzoni, sul loro preveggente “passo avanti” rispetto agli eventi reali; canzoni come canali rivelativi, recettivi perché vulnerabili, canzoni come preghiere.

La condizione di vita sotto schiaffo, la qualità di vulnerabilità e precarietà sottolineata dalla pandemia Covid, hanno accentuato e confermato le recenti scelte di Cave, già palesate e rese irreversibili a partire dal lutto per la perdita di un figlio da cui sostiene aver tratto rinnovata audacia e spinta per la propria crescita umana prima che artistica. Lasciatesi alle spalle le belle intemperanze del passato (quando, per la sua generazione, offendere era un dovere) e la naturale tensione propulsiva dei Bad Seeds, smettendo di alimentare l’egomania come prima istanza dell’artista creatore, Cave è giunto all’esplicito rifiuto del cinismo e della negatività, riconciliandosi con una vita arrischiata, proprio riconoscendo e accettando il valore unico e la natura preziosa delle cose (in tal senso, anche la scelta di occuparsi di una materia preziosa e “precaria” come la ceramica, risulta tutt’altro che estemporanea). Se il lutto lo minacciava col suo pensiero magico, i suoi interessi per le Scritture gli hanno facilitato un franco apprezzamento dei benefici della scelta religiosa, lontana, ribadisce, da ogni interesse per le idee più esotiche di spiritualità. In questo spazio di crisi, che è anche distrazione e resa, cominciano a prendere forma le canzoni dell’ultimo Cave, sempre più esplicitamente scritte da una posizione di “desiderio spirituale”. In esitazione tra gloria e fallimento, tra controllo e accidente, ammette di esser lanciato all’inseguimento di Jimmy Webb, corteggia la canzone perfetta e adulta, fino ad esplicitare la preferenza per l’Elvis degli anni settanta di Kentucky Rain o Always On My Mind: canzoni che rimettono insieme i frammenti di un’esistenza organizzandoli sensatamente. Contro e oltre il cinismo e l’amarezza, si tratta di valorizzare gli istanti di meraviglia. Anche quando pare trascinato e spinto dalla sua stessa generosità ad offrirsi come “contributo allo spirito del mondo”, Cave rimane costante nella sua essenza caratteriale: nella prossimità di tristezza e bellezza.