Carlo Vita

Parole da scegliere

Con una nota di Massimo Bacigalupo

Carlo Vita è nato nel 1925 a Verona, dove nel 1947 è stato fra i fondatori del Circolo del Cinema più antico d’Italia. Ha lavorato nel giornalismo e nella comunicazione aziendale a Milano e nella Genova della Cornigliano, dell’Italsider e dell’Ansaldo, dove ha stretto rapporti con artisti come Flavio Costantini ed Emanuele Luzzati. Attivo egli stesso come disegnatore o “artistoide” (come recita un suo biglietto da visita), fondò con Eugenio Carmi e altri amici il Gruppo Cooperativo di Boccadasse-Galleria del Deposito (1963-69), che ebbe un importante ruolo nella cultura non solo ligure, raccogliendo l’adesione di Lucio Fontana, Max Bill e altri. Di questa sua attività fra immagini e parole sono testimonianza due libretti editi da Il Canneto: C.V. & E.M., Felicità raggiunta si cammina. 33 variazioni sul tema della deambulazione (2010, ristampa di una plaquette del 1974 che lasciò alquanto perplesso il coautore E.M.), e C.V., Contare i sassi (2011), nonché un volumetto autoprodotto per gli 80 anni, Figure, probabilmente (Edizioni ViEffe, Camogli 2005). Carlo Vita (il cui vero nome è Vita Carlo Fedeli, e che gli amici conoscono come “Popi”) è anche e forse soprattutto autore di versi e prose, queste ultime quasi tutte inedite (un raccontino, Una voce, è apparso su “Paragone” 105-7, febbraio-giugno 2013; altri si leggono sui non facilmente reperibili “Quaderni” di L’Agave Centro di Cultura di Chiavari). Infatti il veronese Carlo Vita, figlio del primo sindaco di Verona dopo la Liberazione (vedi il volume a sua cura Aldo Fedeli. Il sindaco della ricostruzione di Verona – la vita e il ricordo, Cierre Edizioni, Verona 1996), ha continuato a vivere nella Liguria dove ha lavorato, prima a Ruta di Camogli, poi a Lavagna, e non è raro incontrarlo nei vicoli di Chiavari intento con gli amici de L’Agave a letture a tema, quando la voce gli regge. Sempre con loro, o con la nipote Laura, dal 2006 partecipa al Bloomsday genovese, cioè alla rituale lettura di Ulisse di James Joyce che si ripete il 16 giugno appunto dal 2006 nel centro storico di Genova nell’ambito del Festival Internazionale di Poesia. Versi di Carlo Vita sono raccolti nel notevole volumetto Illusioni ottime (pp. 141, Campanotto, Udine 2006), che già dal titolo annuncia il carattere scherzoso che accompagna questa come le altre sue imprese. Oltre alla prima sezione eponima, contiene le sezioni Storie vere, Uno stile di vita, Monete fuori corso, seguite da Note e svarianze (pp. 83-139), un’ampia appendice di autocommenti che sono in realtà dei piccoli racconti assai godibili e confermano il carattere dialogico di questa poesia. I testi poetici di Carlo Vita hanno la capacità di farsi apprezzare e ricordare, anche perché si tratta di piccole storie, per esempio un suo ricordo del “coautore” Montale a Sturla nel 1966, Asterisco, è ospitato nell’antologia Genova per noi dell’Accademia ligure di scienze e lettere (2004) ed è stato rielaborato in inglese dal decano dei poeti neozelandesi C.K. Stead, classe 1932, nella sequenza Liguria (in The Yellow Buoy: Poems 2007-2012, Auckland UP, 2013, p. 54). Un suo terrificante epigramma si intitola Dopo Auschwitz: “Gli scaffali / traboccano di poesie / e le fosse / traboccano d’etnie / dopo Auschwitz”. Altri testi si leggono su “Poesia” (256 , gennaio 2011); nel 2007 ha avuto il Premio LericiPea per la poesia inedita. Delle sue riflessioni, non di rado capziose, intorno ai suoi versi, si offre un esempio qui sotto, anche se questa pagina non era stata pensata per la pubblicazione. Carlo Vita nei suoi scritti riesce a essere ironico senza essere frivolo, guarda la realtà con simpatia e ne coglie il fascino, la futilità, gli sfuggenti significati. Non si prende sul serio, ma quanta leggerezza e acutezza nella sua scrittura... Per citare un ultimo suo divertimento, Piccola antologia di Grè. Cani e gatti: voci di là (Edizioni ViEffe, Camogli 2005) parte dalle foto di un cimiterino abusivo di cani e gatti in una frazione di Rapallo per dar voce alle bestiole, strizzando l’occhio a Edgar Lee Masters. Insomma, Carlo Vita ci offre sempre qualche cosa di stravagante e vero. Per la festa dei suoi 90 anni ha imperversato, dirà lui, regalando agli amici un libretto di Mediomassime. Appunti per il terzo millennio (Edizioni ViEffe, Lavagna 2015). La prima mediomassima, Abitanti, recita: “Scherzando e ridendo, siamo già arrivati a sette miliardi di copule andate a segno”. Nel Paese dei tromboni ci voleva un Carlo Vita per farci tornare con i piedi per terra. “Felicità raggiunta, si cammina...” Un lungo sereno cammino auguriamo a questo novantenne giovane almeno quanto se non più di tanti nipoti e pronipoti. (Massimo Bacigalupo)

 

Rara Avis

Stringi stringi t’accorgi

che di Grandi Poeti

ne nasce mediamente

uno al secolo

così che nei millenni

prima e dopo di Cristo

a dir tanto ne conti

meno d’una ventina.

 

E se mai tu volessi

invitarli una volta

a pranzo in comitiva

al Giambellino

basteranno al trasporto

i 20 posti a sedere.

dell’autobus 50.

 

Ma se ‒ còlto da un tuo

delirio d’autostima

d’uccellaccio abusivo ‒

assiderti volessi tra di loro

dovresti nel tragitto

occupare il sedile

riservato ai disabili.

(1980)

 

Il gatto

Il gatto che passeggia sulla poesia

è un gatto approssimativo come i versi

che le sue zampe silenziose sfiorano

innocenti con indifferenza.

 

Vieni gatto mio c’è posto anche per te

in questo minicosmo di serie C.

Affondiamo i nostri occhi incerti

l’uno nell’altro fino a sentirci

entrambi un poco a disagio.

 

Non c’è arte né parte né poesia

né speranza che possa condurci

ad una superiore empatia.

(1983)

 

Come fotografare i poeti

I poeti ci sembrano persone fragili

pare che vadano in pezzi solo a guardarli

e quando il fotografo li deve riprendere

restano lì incerti non sanno cosa fare:

se fissare con intensità l’obiettivo

o volgere lo sguardo in alto dove passano

a stormi lontani i versi come le folaghe.

Ne può uscire un ritratto azzeccato d’un attimo

rubato alla vita come un Cartier-Bresson

o una faccia patetica da fototessera.

Non è bene illuminarli troppo da dietro

che non assomiglino a santi con l’aureola

né dal di sotto per non far capire subito

che s’erano messi in posa anche senza volerlo.

E non si deve ritrarli con quei cappelli

di paglia a tesa larga tanto da signora

e se il poeta è femmina ‒ che non sembri

un uomo travestito e meno che mai

una donna truccata da uomo ‒ e quando

la femmina è bella fuori o dentro ‒ che si veda.

A caso e di nascosto bisogna sorprenderli

così che gli occhi ne svelino le inquietudini

e in fondo il solito lampo del narcisismo

e laggiù ancora più in fondo il fuoco ‒ o la cenere

del tanto che i poeti hanno sentito e visto.

(1998)

 

99.999

È il famoso cento-

millesimo poeta

o più precisamente

il novantanovemila-

novecentonovanta-

novesimo fra tutti quelli

che non contano.

 

È il celebre ennesimo

fra cotanti ennesimi

ed è assai probabile

che nessuno mai leggerà

uno solo dei suoi versi

salvo alcuni parenti

che ‒ si sa ‒ non contano.

 

Non è però da escludere

che un dì cavalcandosi

e dandosi un po’ da fare

l’illustrissima piàttola

possa alfine sommuovere

l’animo d’uno di quei

critici che ‒ come lui

non contano niente.

(2005)

 

Grandi artieri

C’è da chiedersi come farebbero i poeti

a vivere senza metafore e corti circuiti

 

sono esperti elettricisti i poeti

conoscono benissimo d’ogni parola

d’ogni concetto il positivo e il negativo

i voltaggi le frequenze i fili uno per uno

sanno come accostarli al punto giusto

 

senza toccarli ‒ ben isolati da terra

così da non prendere la scossa.

(2014)

 

Buoni versi

I

Leggerà tutti i versi

quando tutti i poeti

saranno morti

e le loro storie

chiuse per sempre

in chiari libri uguali

con le vite le glosse

le chimere

e tutto l’indispensabile

per illudersi

di capire.

 

Scriverà buoni versi

quando tutti i suoi vecchi

saranno morti

e ricordandoli

penserà commosso

ai loro chiari sorrisi

stelle lontane

attese d’amore

mal corrisposte

tutto l’indispensabile

per piangersi

addosso.

 

II

Vecchio ormai più di loro

cerca ancora testardo

l’ordine estremo

che non si trova in natura

l’illusione che sembra

dare agli ipocondriaci

uno o più cuori e l’isola

sperabile e perfetta

nel mare di cristallo

coi pesciolini a colori

che guizzano a frotte

il cielo sempre terso

il sole molto giallo

che scintilla

e in tutte le conchiglie

ovviamente

la perla che brilla.

(1947-2014)

 

Parole da scegliere

Sul fatto che l’oscuro susciti rispetto

e ossequio era d’accordo il vecchio Fjodor

che nei momenti d’ironia ci scherzava su

e la cosa pare chiara persino a me

nei miei rari barlumi, ma se dovessi

proprio dirverla tutta, seduto accanto

poniamo, a un finto fuoco, scriverei

con la mia maldestra penna a sfera

 

che se fossi chiamato a scegliere

tra parole pur semplici evocanti i colori

di cespugli e di foglie fatte cadere ad arte

nella stanza truccata con sapienza

da paesaggio, e lasciate poi vorticare

da ventilatori celati fra i mobili, finché

finiscano tutte ‒ parole e foglie ‒ in fondo

al buio inesplicabile d’un tunnel

 

e parole ancora perfettamente semplici

però colme di grazia ‒ dove per esempio

si finge d’una cerbiatta in un bel bosco

che s’abbevera a un foglio bianco di carta ‒

ma solo per la pura gioia di scrivere

o per vendicarsi non so bene di che

forse delle parole stesse, che altri mascherano

magari non volendolo, da oracoli

 

se costretto a una scelta tra questi due

modi di poetare non avrei dubbi: opterei

senz’altro per il secondo tipo di parole

che s’affaticano a porre toni lievi

e piacevoli a ciò che pesa d’amaro,

ma sembrano essere a me assai più umane

più mortali e andare subito a quel punto

chiamato per convenzione cuore

per poi, se c’è ancora tempo, arrivare

al filtro supremo e severo dell’intelletto

dov’è più probabile cogliere uno per uno

i significati delle complicazioni.

 

Scampato fortunosamente agli intrichi

oscuri, chiedo qui moltissime scuse

a Wallace, maestro del facile-difficile

se scelgo Wislawa, signora della levità.

(27.1.15)

 

 

Su “Buoni versi”
Continuo a essere incerto se sia o no una frasca, una fanfaluca, buttata sommariamente giù alla fine degli anni quaranta del secolo che fu, quando i “miei vecchi” (che allora chiamavo “i miei cari”) erano ancora vivi. Non avevo (per scaramanzia) mai voluto metterla in bella. Poi ai “miei cari” originari (morti ornai da cinquant’anni), se ne sono aggiunti altri altrettanto cari, e la faccenda si è fatta sempre più complicata. Sarebbe stato facile e semplice. all’inizio della faticosa elaborazione,
cambiare i “cari” in “vecchi”, ma ci ho pensato solo adesso, che sono molto più vecchio di quanto non fossero quei miei d’allora. Testardo come tutti i vecchi (ma io lo sono sempre stato, anche da giovane, pare), ho insistito a pensare che il Poema dovesse essere revisionato e in qualche modo compiuto. Ripetutamente ho sostituito alla prima persona la terza per tornare poi alla prima e poi di nuovo alla terza, incerto tra l’esibizione dell’ego e una scaramantica e finta oggettività, infine preferita. Continuo anche a dubitare che resti una frasca, ma giuro che non è per ipocrisia. Sono testardo ma non scemo, credo. Sarà vero che adesso (che sarei finalmente capace di “capire”) potrei
scrivere “buoni versi”? Questo è in sostanza il problema. Come faranno i poeti (veri?) ad essere così sicuri che i loro versi sono “buoni”? Probabilmente li fanno circolare e leggere agli amici e alla gente che conta. Per un misto di narcisismo e di umiltà, normale voglia di conferme, che anch’io avrei. Ma invece poi tendo a tenere le cose tutte per me, talpa che preferisce il buio della tana. Il che tra l’altro farebbe dubitare poi, se certe cose le rendessi note, sulle loro vecchie origini. Non sarà che avere dei dubbi è già una prova che la faccenda non sta funzionando? Il dubbio, che molti dicono salutare, si estende ovviamente a tutto il mio corpus poeticus ed oltre. Mi vergogno di averne messo una volta in piazza una parte, lasciandomi convincere da un amico. Ma ormai è fatta. Quest’altra parte resterà nella tana, se non altro come prova che ci ho provato. Ho messo il corsivo nelle prime due strofe per alludere a cose del passato. Però anche la terza era già scritta allora, ma poi ugualmente riaggiustata. P.S. – Mi ricordo di aver letto una volta un racconto di H. James (mi sembra che il titolo fosse proprio La perla) e di essermi compiaciuto di aver visto che anche quel grande aveva usato il tema della perla come supremo segno di perfezione. Mi pareva di essermi anche annotata la citazione, ma al solito non riesco a ritrovarla. Anche gli ipocondriaci è legato a qualcosa che lessi in un articolo di Savinio sul “Corriere” mille anni fa e che non trovo più. Però mi ricordo che, dopo altri secoli, rileggendolo, mi accorsi che l’ipocondria non c’entrava,me l’ero inventata io. Comunque funziona ugualmente, o pressappoco.
“Soglie”, agosto 2015