All'età di cinquantatré anni è morto quest'anno, l'8 di marzo, Gianni Carchia. Era nato a Torino nel 1947. In libreria era appena arrivato, ultimo di una bibliografia che cominciava ad essere cospicua*, L'amore del pensiero (Quodlibet, Macerata). Fra le ovvie commemorazioni accademiche e quelle assai magre e distratte dei giornali, noi lo ricordiamo come timido, appassionato ed ironico frequentatore, in anni giovanili, degli ambienti "consiliaristi" e libertari della Liguria, soprattutto savonesi. Riproponiamo qui il testo approntato per il convegno Transiti Velati (Maurizio Ameri, Eugenio Battisti, Germano Beringheli, Gianni Carchia, Michel David, Brunetto De Batté, Giuliano Forno, Paola Gandolfi, Salvatore Rotta, Ornella Selvafolta, Stefano Verdino). Il convegno era curato da Carlo Romano, per conto dell'"Associazione Amici della Galleria Mazzini" di Genova, nel 1989. Lo ricaviamo dagli atti, pubblicati, a cura dell'Ufficio di Ricerche e Documentazione sull'Immaginario, in una serie di opuscoli (libreria Sileno editrice).
Gianni Carchia
galleria, allegoria, allegria
Perchè una struttura architettonica quale quella ottocentesca della galleria commerciale (il passage) ha finito col diventare, in seno all'arte ed alle poetiche del Novecento - del primo Novecento innanzi tutto - un luogo privilegiato dell'immaginazione? Tutto ciò è, infatti, vero almeno a tre livelli. Si tratta, in primo luogo, della galleria come vera e propria sede fisica del manifestarsi dell'arte, contenitore privilegiato soprattutto per le attività dell'avanguardia (rientrano senza dubbio fra le maniere di affermazione dell'avanguardia le "serate in galleria", dalla scapigliatura ai futuristi). In secondo luogo, oltre che come sede fisica per eccellenza dell'arte nuova (dell'art nouveau fatta appunto col ferro e col vetro, si potrebbe dire, con un gioco di parole non del tutto ingiustificato), la galleria si propone all'arte come sede ideale, allegoria della nuova condizione desacralizzata, disincantata, delle opere, allegoria del destino dell'arte. Si tratta della secolarizzazione dell'arte, un tempo sacra, nel "museo immaginario" della galleria: ogni galleria è già, per definizione, galleria d'arte. In terzo luogo, infine, soprattutto nell'ambito della poetica del surrealismo, la galleria diventa essa stessa il tema, il soggetto dell'opera, letteralmente la sua trama. Un 'indagine sul rapporto fra la galleria come oggetto architettonico e la produzione artistica fra otto e novecento dovrebbe tentare di articolare i nessi esistenti fra questi tre livelli che, in qualche modo, si coappartengono, dovrebbe cercare di capire in altri termini perchè la galleria abbia potuto proporsi come spazio, metodo e contenuto dell'arte.
Per afferrare queste connessioni, si deve partire probabilmente dal secondo punto, dalla galleria quasi anagrammaticamente intesa come allegoria, come significato spirituale dell'opera d'arte nel mondo cristiano-borghese. Nella galleria si celebra' infatti, ciò che si potrebbe chiamare il processo di museificazione della merce, il massimo del suo costituirsi in apparenza. In un certo senso, nella galleria, la merce recide, non solo come già sempre avviene nell'apparenza della circolazione, il suo rapporto con la produzione; di più, nella galleria la merce sembra soprattutto recidere anche il suo rapporto col mercato stesso; in galleria, potremmo dire, il valore di esposizione della merce raggiunge il suo culmine. La galleria è quel luogo dove la merce si allegorizza al massimo, spiritualizzandosi, facendo retrocedere sul fondo non solo il suo valore d'uso, ma addirittura il suo valore di scambio. La merce qui è davvero feticcio e, in quanto tale, qualcosa di molto vicino al significato originario dell'opera d'arte. il punto in cui la merce diviene opera d'arte è esattamente quello in cui, per converso, l'opera d'arte scopre il suo moderno destino di merce, di oggetto mercantile. La galleria si configura cosi, dal punto di vista dell'arte, come il nuovo spazio del suo essere desacralizzato. In quest'ambito, la galleria è ciò che prende il posto, in linea via via discendente, del tempio, della chiesa, del palazzo, secondo un iter che si arresta appunto là dove, in senso contrario, la merce valorizzandosi diviene arte. Anche qui il processo è rovesciato rispetto a quello che accade nella merce: mentre per quest'ultima, infatti, la galleria è la sede di una spiritualizzazione, il luogo dove essa può enfatizzare la sua pretesa all'esclusività, per l'arte al contrario la galleria è lo spazio della democratizzazione, della messa a confronto. Per l'opera d'arte, fra otto e novecento, la galleria è il luogo della perdita dei confini, dell'affratellamento, allegoria della fine dell'"aura", della sacrale irripetibile unicità, e allusione all'idea di una realizzazione mondana dell'arte. La galleria è, allegoricamente, il luogo di passaggio, il "transito" alla fine dell'arte (è in questo contesto, fra l'altro, che si può cogliere il legame fra la "galleria" e la poetica delle avanguardie, poetica nella quale il collettivo, il movimento, la deriva "verso", contano al di là dei singoli, le idee delle opere contano più delle opere, ecc.).
E' ora facile riconnettere a questo significato allegorico-spirituale dell'allegoria il primo significato immediato che abbiamo riconosciuto in essa, quello fisico-sensibile. Di nuovo anagrammaticamente, la galleria è qui il luogo dell'allegria nel senso ungarettiano e futurista del termine, spazio della fantasmagoria dove si lanciano i nuovi messaggi dell'arte. Questi messaggi non sono più, come quelli dell'opera tradizionale, impliciti o ideali, bensì sono letteralmente comunicazioni commerciali, slogan mercantili con i quali i movimenti artistici, i transiti dell'arte cercano di monopolizzare il mercato. Prima dell'imporsi capillare e onnipervasivo dell'industria culturale, le gallerie sono state i media, il terreno pubblicitario delle prime poetiche dell'avanguardia. Parallelamente, sempre sul tema della galleria come spazio fisico dell'arte nuova, si dovrebbe notare che la galleria costituisce il primo spazio di una nuova socialità metropolitana, quella che, prendendo il posto dei caffé o delle biblioteche dell'illunimismo e del romanticismo, dà origine al mito dell'artista bobémien, scapigliato, ecc.; in conformità col divenire feticcio della merce, si trova la valorizzazione e la stilizzazione dell'artista come figura sociale: assoggettata al mondo dei denaro, l'arte diventa essa Stessa uno "stile di vita", come è stato mirabilmente dimostrato soprattutto dalle analisi di Simmel sullo snobismo.
E' in questo luogo, nel quale l'opera senza aura si prepara a celebrare il proprio funerale e l'artista è un marginale vezzeggiato però dalla società, è dentro questa ambiguità che noi vediamo calarsi le opere che hanno scelto, emblematicamente, come loro soggetto, la galleria. Che dunque, ora, non è più una cifra o un medium delle opere, ma è addirittura la loro stessa lettera: pensiamo al Paysan de Paris di Aragon, al Mort a crédit di Céline, al Passagenwerk di Benjamin (mentre indirettamente, ma tanto più potentemente, rimandano a quest'universo i mondi simili ad acquari o a falansteri di Benn e di Jùnger). Ci sono dunque opere la cui lettera, non il solo spirito, è l'universo della galleria, il passage. In queste opere, il passage non è l'oggetto di un accostamento cifrato: esso non è più metafora, ma il modo stesso di esibirsi della struttura delle opere. Soprattutto a partire dalle interpretazioni di Benjamin, noi sappiamo che le opere costruite letteralmente come galleria realizzano l'idea della salvezza. Queste sono le opere che, pur non essendo più immerse nella fantasmagoria del moderno, pur essendosene ridestate, continuano a nutrirsi del suo sogno. Benjamin ha parlato, in questo contesto, di
una contrapposizione fra l'opera come soglia e l'opera come confine. Se il confine è ciò che discrimina ed esclude, soglia è invece la linea che, mentre delimita, riconosce ed accetta: è quel risveglio che solo permette di prendere conoscenza del sogno e che proprio così, mentre lo dissipa, lo riconosce. il passage è l'opera riconosciuta come fantasmagoria, come sogno, ma non per questo liquidata. il passage è stato l'utopia neoclassica del capitale, il sogno di un ritorno in miniatura della comunità, del falansterio, nel contesto della socializzazione disgregatrice di tutti i valori. L'arte è, allora, qualcosa come un restare avvinti ad un sogno arcaico del moderno. In questa prospettiva, le gallerie non sono più luoghi di comunicazione dello spazio, sono catacombe, pozzi, profondità marine grazie alle quali si viaggia nel tempo, fino alle sorgenti fertili del mito. Dinnanzi ad un mondo che liquida con impazienza gli ultimi spazi intermedi, ciò che non rientra nel fiume travolgente della comunicazione globale, l'idea della galleria resiste come quella di uno strano, ultimo tempio del mistero. E' vivendo in un passage che, a Torino Nietzsche ha elaborato l'idea dell'eterno ritorno.
*principali opere di Gianni Carchia:
Orfismo e tragedia, Milano 1979; Estetica e erotica, Milano 1981; La legittimazione dell’arte, Napoli 1982; Dall’apparenza al mistero, Milano 1983; Pharmakos: il mito trasfigurato, Torino 1984; Il mito in pittura, Milano 1987; Retorica del sublime, Roma-Bari 1990; Arte e bellezza. Saggio sull’estetica della pittura, Bologna 1995; La favola dell’essere. Commento al "Sofista", Macerata 1997; L’estetica antica, Bari 1999; Dizionario di Estetica, Bari 1999 (con P. D’Angelo).