Alfredo
Passadore
L’arte di
nascondersi dietro a una maschera (di trota). Captain
Beefheart (1941-2010)
Donald Glen Vliet amava le
metamorfosi, già nella scelta dei nomi dietro cui indulgeva nascondersi:
diventato da subito Don Van Vliet, si sarebbe affermato nel mondo multicolore
del rock losangelino con lo pseudonimo di Captain Beffheart (dal nomignolo con
cui uno zio esibizionista pare amasse presentare le pudenda ad una delle sue
prime girlfriend: “Ahh, what a beauty! It looks just like a big, fine beef
heart.”). E dietro una maschera, quella di una testa di pesce, sarebbe apparso
sulla copertina dell’album destinato a restare come il suo massimo capolavoro
musicale, “Trout Mask Replica”, un vero tour de force che, in 28 sketches,
riassume in modo caotico e geniale un secolo di storia musicale americana, dal
Mississippi Delta Blues alle improvvisazioni atonali di Eric Dolphy.
L’ultima metamorfosi, dopo
il ritiro dalle scene rock alla fine degli anni ‘80, era stata quella in
artista visivo di indubbio talento, artefice di una pittura cruda e violenta,
solo in apparenza primitiva, ma ricca di rimandi colti, dall’Espressionismo
tedesco al Cobra di Jorn. Non a caso ad annunciare la notizia della sua morte,
lo scorso 17 Dicembre, prima ancora delle massime testate musicali, Rolling
Stone in testa, è stato proprio il suo gallerista Michael Werner, dell’omonima
art gallery newyorchese.
Ma nell’immaginario
collettivo, almeno della generazione cresciuta tra gli anni ’60 e ’70,
l’incarnazione più nota resta quella del Capitano, socio per breve tempo di
Frank Zappa e musicista misconosciuto e inevitabilmente emarginato, ma a suo
modo profondamente influente, fonte di ispirazione per decine di artisti delle
generazioni a venire.
Zappa e Van Vliet si
conoscono dai tempi del liceo, ambedue frequentano la Antelope Valley High
School, di Lancaster, nella California meridionale, e passano intere nottate
nella casa di Don, ai bordi del deserto di Mojave, ascoltanto soprattutto
dischi di blues. I parenti non apprezzano ma tollerano, sono abituati alle
stranezze di quel figlio strampalato che, fin dall’infanzia, si è dedicato in
modo maniacale soprattutto a scultura e pittura. Dimostrando per altro un
discreto talento, visto che a 11 anni ha partecipato già a uno show televisivo
e ha vinto una borsa per studiare scultura in Europa. Sarà il padre a imporgli
di rifiutare, giudicando l’arte “roba da finocchi”. E così la musica resta
l’unica via di fuga.
Lasciata la scuola, Van si
dedica a tempo perso alla vendita di aspirapolvere e, narra la leggenda, pare
ne avesse piazzato uno perfino ad Aldous Huxley, che abitava allora a Llano nel
Mojave, conquistandolo con la battuta: “Well I assure you sir, this thing
sucks”! Trasferitosi a Rancho Cucamonga, Van decide di dedicarsi con più
serietà alla musica, perfeziona il suo stile di armonicista e una vocalità
chiaramente ispirata al blues di Howling Wolf, cominciando a vincere la propria
innata ritrosia con le prime performances pubbliche.
Nel 1965 si aggrega al
gruppo del chitarrista Alex Snouffer, anch’egli di Lancaster, e forma la Magic
Band, destinata ad accompagnarlo, in diverse reincarnazioni, per tutta la sua
carriera. Il primo singolo sarà una cover di Bo Diddley con cui firma per la
A&M, una major. Ma l’intesa dura poco: quando presenta, l’anno dopo, i
primi materiali di quello che sarà destinato a diventare il suo primo LP, “Safe
as Milk”, i dirigenti della casa discografica fuggono inorriditi,
costringendolo a cercarsi nuovi sponsor. Alla fine il disco si farà, due anni
dopo, grazie anche all’aiuto di un geniale giovane chitarrista allora ventenne,
Ry Cooder, che per l’occasione si è aggregato alla Magic Band. Lo stesso anno
il gruppo dovrebbe partecipare al festival di Monterey, ma Don, durante un
concerto a San Francisco, viene colto da una crisi di panico sul palco e
l’occasione sfuma.
Nel frattempo i rapporti con
Frank Zappa si sono rinsaldati. I due non si amano troppo, diversi per
carattere e gusti musicali, uno raffinato e colto, l’altro più rozzo e diretto,
ma si rispettano anche se i reciproci egocentrismi stentato a conciliarsi. Sarà
comunque Zappa, con la sua nuova casa discografica, la Straigh Records, a
offrirgli l’occasione della vita, permettendogli di registare il suo capolavoro
musicale, “Trout Mask Replica”. Le sessioni dureranno un anno di perfezionismo
maniacale esasperato. Van, diventato nel frattempo Captain Beefherat per
suggerimento dello stesso Zappa, si chiude in un ranch isolato dal mondo con i
componenti della Magic Band, obbligandoli ad estenuanti tour de force che
durano anche 14 ore al giorno. La leggenda narra di un leader dittatoriale ed
irascibile, che applica un vero e proprio lavaggio del cervello agli altri
musicisti, con scenate che scadono spesso in vera e propria violenza fisica. In
un clima esacerbato e a volte paranoico, nasce comunque un capolavoro. Il
Capitano ha allargato i suoi orizzonti musicali, ha perfezionato l’uso di vari
strumenti, su cui spicca il clarino basso, ed ha aggiunto vari fiati allo
scheletro iniziale della Magic Band, che originariamente si componeva dei
classici basso, chitarra e batteria, più la sua immancabile armonica blues.
L’album è una sorta di delirante riassunto del meglio della cultura freak
dell’epoca in cui la voce roca e cavernosa di Van spazia dal Delta Blues alle
improvvisazioni in puro stile free jazz, con richiami che uniscono idealmente
il primo Muddy Waters e l’ultimo Coltrane, mentre testi e dialoghi forniscono un contributo di
ironia pungente e iconoclasta, che lo apparenta ai contemporanei lavori delle
Mothers of Invention.
Un anno di sperimentazione
estenuante che Zappa riuscirà a registrare in sole cinque ore, conferendo al
disco una freschezza e una naturalezza immediate che ben nascondono, nella loro
apparente spontaneità, il lavoro maniacale di cui sono frutto. Il disco avrà
un’accoglienza assai tiepida, nonostante le lodi della critica: per molti
aspetti risulta troppo avanti rispetto ai tempi, ci vorranno anni perché
generazioni di musicisti lo digeriscano e facciano proprie molte delle sue
geniali intuizioni. La collaborazone con Zappa porterà comunque ad altri due
piccoli gioielli della storia del rock, il cameo di “Wilie the Pimp” in Hot
Rats, in cui Beeffheart presta la sua voce acida e gutturale a un pappone
surreale, e “Bongo Fury” in cui i due lavorano insieme per l’ultima volta. La
carriera del Capitano continuerà negli anni ’70 con almeno un altro gioiello musicale,
“Lick my Decals off, Baby” sempre per l’etichetta di Zappa, in cui
avanguardismo e sperimentazione toccano il massimo con l’uso di strumentazioni
totalmente inusuali e anomale, e un pugno di altri dischi più o meno fortunati.
Negli anni ’80 Van attenua le sue provocazioni, accetta compromessi con il
gusto dominante e cerca accenti più soft, senza riuscire a sfondare in un mondo
musicale sempre più orientato verso i toni facili del busines a buon mercato.
Sconfortato, il Capitano
lascia dopo un’ultimo album mediocre, dando vita alla sua definitiva
metamorfosi, trasformandosi in artista visivo e pittore di indubbio talento.
Schegge della sua creatività visuale sono già apparse in varie copertine dei
suoi Lp, ma è nel 1987 che si afferma ufficialmente nel mondo dell’arte
contemporanea, pubblicando “Skeleton Breath, Scorpion Blush”, una raccolta di
schizzi e poemi. Per il suo stile i critici lo associano all’espressionismo
astratto di Franz Kline e l’opera non passa inosservata, generando un rinnovato
interesse attorno alla sua controversa figura. Etichettato inizialmente come
l’ennesima rockstar che si diletta di pittura (ci sono i precedenti,
disastrosi, di Bob Dylan, e quelli assai più convincenti di Miles Davis), con
la sua prima mostra alla Mary Boone Gallery di New York nel 1985 Van Vliet era
riuscito comunque a farsi prendere sul serio dalla critica, nostante i
trascorsi da freakketone non deponessero a suo favore. Nel 1997 John Lane, direttore del Moma di San
Francisco, sancisce definitivamente il suo status di artista contemporaneo,
definendolo personalità eminente, che ha saputo infondere nel suo astrattismo
espressionista i colori e i sapori del deserto californiano, reinventando un
naturalismo sapido e violento.
Don si è spento apparentemente ucciso dalle
complicazioni della sclerosi multipla con cui combatteva da anni. Ma, secondo
alcuni, anche questa presunta malattia sarebbe stata soltanto un’ulteriore
maschera, dietro cui nascondeva, ancora
una volta, la sua natura elusiva e sfuggente, selvaggia ma anche introversa.
Lascia una cospicua eredità musicale, fatta di un pugno di autentici
capolavori, e una schiera di devoti ammiratori tra cui si annoverano, tra
l’altro, Tom Waits e John Frusciante, P.J.Harvey e Kurt Cobain, White Stripes,
Beck e i Black Keys, per citare solo i più conosciuti. Ciao Capitano, ci mancherai.
“Fogli di Via”, Marzo 2011