Wolf Bruno
Caos Cristin
Renato Cristin: I PADRONI
DEL CAOS. Liberilibri, 2018
Non che mi fidi dei
"filosofi", ma nelle loro specialissime idee, lontane che possano
essere, spero sempre di trovare pungoli per le mie e insieme delle ampie
rappresentazioni dei problemi che mettono in campo in modo che quelli che
ordinariamente si chiamano "spunti di riflessione" trovino una
tessitura appropriata. Sui temi dell'immigrazione, dell'identità e del "sovranismo", tanto problematicamente dibattuti fra
certezze contrapposte, si è messo in luce, grazie all'esposizione mediatica,
soprattutto il filosofo Diego Fusaro caratterizzandosi per un'imbarazzante
ripetitività sfoggiata con l'aria del sapiente che alla gravità dei problemi
affida la sua propria gravità di espressione, purtroppo monotona.
Messo di fronte, grazie
alla generosità di un amico, a un libro di Renato Cristin
(I Padroni del Caos) ho sperato - dico subito invano - di poter agguantare non
tanto degli elementi di condivisione - che chiaramente vedevo distanti fin
dalla presentazione - quanto il piacere di imparare e, coi miei modesti mezzi,
di confrontarmi. Cristin, studioso di Husserl e Heidegger, non ha
esitazioni a definire il suo "un libro di filosofia della
contemporaneità" orientato a "una proposta filosofica e politica neo-reazionaria".
Mi piacerebbe davvero aver capito, a chiusura del libro, cosa Cristin intenda con un termine che gli stessi
"reazionari" usano con discrezione e che nel tempo ha conteso a
quello di contro-rivoluzionario il senso più compiuto. Ma c'è altro da non
capire, e la testa fra le nuvole dei metafisici non c'entra proprio.
Il problema filosofico di
Cristin è la minaccia che l'immigrazione reca
all'identità italiana ed europea sconvolgendo le comunità delle quali dà per
accertata la sopravvivenza, quando mi sembra evidente a chiunque - ma potrei
anche sbagliarmi - che dette comunità non esistano più nemmeno nei quartieri o
nei condomini dove la gente, se può, evita ogni contatto con gli altri come
fosse una sorta di fastidiosa cerimonia. A meno di non credere che esse si
vedano ricostituite nelle anche troppo frequenti disgrazie o nella fortuna alle
elezioni politiche ma anche, in modo altrettanto emotivo, nell'ascolto
dell'inno nazionale. Di fatto sembrano molto più coese comunità costituite fra
scacchisti di ogni paese, collezionisti di auto d'epoca o altre combinazioni di
intenti fra perfetti sconosciuti.
Devo puntualizzare che mi
riempiono di nostalgia i ricordi della mia cara nonna paterna quando rievocava
un mondo di ieri che pur coglievo ancora in gran parte nella mia infanzia degli
anni Cinquanta, ma non dovevo aspettare Pier Paolo Pasolini per capire che
qualcosa andava inesorabilmente cambiando (e non fatico a dire in peggio se Cristin volesse arruolarmi fra i "reazionari").
Il problema è proprio questo, i cambiamenti che rendono problematica
"l'identità", anche quella dei singoli che pur rimanendo se stessi sono passati attraverso trasformazioni non dettate
semplicemente dall'invecchiamento o dal rinnovo periodico di una burocratica
"carta di identità".
Quando si dice che sono
crollati imperi e civiltà e che dunque se siamo travolti dall'immigrazione, in
un mondo che in pochi decenni ha raddoppiato la propria popolazione, dobbiamo
semplicemente adattarci, rimango francamente perplesso. Assisto quotidianamente
come tutti a episodi di incomprensione che vengono qualificati in vari modi, in
alcuni casi, spero rari, per coprire termini "razziali" ormai
screditati che la maggior parte rigetta indignata, ma fra il fatalismo e le più
lugubri aspettative c'è sempre la possibilità di cercare di capire senza
doversi sentire in guerra con interi continenti dai quali si staccano persone
che hanno in testa quelle stesse scadenze che avevamo noi tanti anni fa
desiderando un piccolo scomodo capolavoro qual era la 500 Fiat. Se poi col
tempo si celebreranno riti vudu in San Pietro cosa sarà mai? In fin dei conti
non abbiamo alcuna certezza che il mondo durerà tanto.
Ciò non significa che Cristin eviti di capire quel che sta succedendo, ma non dà
soluzioni (ancorché una di queste ho il sospetto sia proprio la guerra, quando
quell'altra, "umanitaria", dell'"aiutiamoli a casa loro",
sia tristemente implicita in più di un secolo di sfruttamento coloniale e post
coloniale). Un suo strumento di battaglia - del quale tuttavia non abusa,
rendendosi probabilmente conto di quanto sia spuntato - è l'accusa di "buonismo"
(un "grave" problema sembra essere per lui a questo proposito papa Bergoglio con la sua chiesa, del resto messa da tempo alle
strette) il che naturalmente induce a chiedersi cosa sia il suo contrario: fate
voi (a me di esser buono o cattivo importa poco, "sono quel che sono, vivo
ai margini della città, non sono come te" recitava la canzone).
Cristin non dà soluzioni ma riflette preoccupato non meno che
aggressivo su temi quali l'islam. Dargli torto è difficile e non è facile
accettare l'intolleranza dei religiosi e impossibile accettare quella dei
criminali "islamisti". Ciò nondimeno penso che sia lecito
interrogarsi su cosa possa passare veramente per la testa di chi vive fra il
Mediterraneo e l'Indonesia. Un tentativo lo fece Naipaul
e fu tutt'altro che rassicurante. La mia limitatissima esperienza con persone
provenienti da quell'area ha dato però risultati infinitamente meno drammatici.
Mi è capitato perfino di pensare che alcune di quelle persone abbiano scelto
l'Europa per potersi concedere senza troppi problemi l'ebbrezza del vino. Ma,
ripeto, non pretendo che la mia esperienza possa far testo.
I problemi dei problemi,
ma è impossibile capire perché, a Cristin sembrano
comunque essere insieme recenti - la cosiddetta, dagli americani, "french theory" - e antichi -
nientemeno che il marchese De Sade. Asseverare cosa leghi il tutto, per giunta
in mancanza di soluzioni esplicite, è impossibile. Filosofo che sia, a Cristin manca l'arte della trama e dell'ordito (nonché la
capacità di distinguere fra chi ha parole di critica verso il sionismo o lo
Stato di Israele e gli antisemiti). Ad ogni modo farsi beffe della "french theory" risulterebbe
anche gradevole se non le si opponesse come filosofo a tutto tondo quel Bernard
Henry Levy che ebbe l'unico merito, a un certo momento, con gran clamore
giornalistico, di affermare sull'impero Sovietico cose che altri ripetevano da
anni (e in seguito, gli va riconosciuto, di ragionare, senza i preconcetti che Cristin evidenzia nel suo libro, su Jean Paul Sartre).
Quanto al "marchese" che André Breton definì "divino", Donatien-Alphonse-François conte de Sade, abbassare il tiro
è sconsigliabile, ma vedervi un punto di congiunzione fra Spinoza, gli epicurei
e libertini del XVII secolo, anche quando fossero preti, e i Feuerbach, Stirner, Marx e Nietzsche è necessario e non come punto di demerito
come vorrebbe far credere Cristin. Che nelle sue
opere si annidi anche il tedio non lo nega nessuno. Ma è un tedio che, quando
lo si coglie per un certo verso, sospinge il lettore all'ilarità e a quel senso
dell'umorismo che concorre alle stesse domande di libertà che Sade quando
voleva rendeva apertamente fino alle estreme conseguenze, esse stesse
tragicamente umoristiche, tanto da far pensare tanto, al contrario di Cristin che si pascia della
qualifica di filosofo.
“Fogli di Via” n. 26