Nel capitolo I di Tradurre l’inglese (tr. Maria Teresa Falanga, Milano, Bompiani, 1998), partendo dal confronto tra la versione italiana e quella inglese dello stesso brano di una guida turistica, e proseguendo con esempi tratti da diverse tipologie di testi, Tim Parks ci conduce verso la presa di coscienza del carattere rivelatore della traduzione. Analizzando quest’ultima è possibile tanto evidenziare gli aspetti problematici del brano originale (dal punto di vista sintattico e lessicale), quanto definire le strategie compositive degli autori in relazione al messaggio che intendono esprimere.
Il metodo adottato da Parks prevede di presentare a un gruppo di studenti di inglese la versione originale e quella tradotta di un medesimo brano e di chieder loro di identificare l’originale. Nel caso di estratti di guide turistiche o manuali di cucina, la maggior parte dei lettori solitamente identifica con esattezza l’originale, individuando nel testo i punti rivelatori che li hanno aiutati nella loro decisione.
L’analisi di guide turistiche o di manuali di cucina, o di qualunque altro testo che non abbia ambizioni letterarie, dimostra che essenziale alla buona riuscita di una traduzione è l’identificazione dell’obiettivo del testo originale e non la riproduzione fedele del lessico, delle strutture sintattico-grammaticali, del registro. La connotazione culturale implicita in testi in qualche misura “tecnici” impone scelte diverse di presentazione di uno stesso tema. Così, se in un manuale di cucina rivolto ad un pubblico anglosassone si potrà tranquillamente far riferimento all’avversione verso il cucinare e all’utilizzo di pietanze surgelate, in quello rivolto alla cultura italiana sarà senz’altro più produttivo, ai fini del messaggio, velare tali riferimenti e insistere piuttosto su concetti come “la buona cucina”. Un traduttore deve insomma necessariamente considerare la funzione del testo e le peculiarità linguistiche e culturali del pubblico destinatario, e deve di conseguenza adattare il contenuto della sua traduzione alle nuove esigenze di riferimento, anche a scapito della precisione di corrispondenza semantica.
Questo per quanto riguarda testi tecnici, o comunque descrittivi o conoscitivi. Ma come regolarsi nel caso di traduzione di testi letterari? Si può definire a priori la funzione di un brano di letteratura, l’intenzione dell’autore, la sua forza illocutoria (p. 11)?
Nell’ambito dei testi letterari, Parks introduce la differenza tra romanzi “di genere” e letteratura vera e propria. I primi sono romanzi ben identificabili in quanto a categoria di appartenenza (ad esempio i romanzi gialli, o quelli di fantascienza). Sono opere che rispondono a precisi canoni, che seguono determinate forme compositive facilmente rintracciabili in qualunque cultura esistano i medesimi generi, e dunque facilmente trasferibili, traducibili, semplicemente adattando il contenuto al formato della cultura ricevente.
La vera letteratura, le “opere d’arte”, al contrario, mirano esattamente a differenziarsi dal genere, ad esprimere contenuti originali in forme originali sovvertendo, rinnegando, rivoluzionando quanto è stato fino al momento. Inoltre il testo letterario presenta una molteplicità di “intenzioni” spesso non ben definite, non esplicite; queste molteplici funzioni rendono il testo letterario diverso dalle altre tipologie e complicano il compito del traduttore, costretto ad interpretare le ipotetiche intenzioni dell’autore.
Nel sottoporre agli studenti un brano tratto da Women in Love di D.H. Lawrence e la sua traduzione all’italiano, senza che questi sapessero di che brano si trattasse né quale fosse la lingua originale e quale la traduzione, Tim Parks realizza che la maggior parte dei lettori attribuiva originalità alla versione italiana ed evidenziava nel testo inglese gli elementi anomali, distanti dallo standard linguistico, in conseguenza dei quali ritenevano si trattasse di una traduzione, e neanche ben riuscita. Parks spiega che tale risultato è dovuto alla difficoltà da parte di un non-madrelingua, per quanto esperto, a discernere tra l’uso poetico della lingua e quello semplicemente mediocre; è difficile per un non-madrelingua riconoscere non tanto le deviazioni di stile, registro, lessico, quanto la loro capacità evocativa, la capacità di trascendere il significato letterale delle parole per comunicare messaggi più profondi e complessi.
Aspetto ancora più interessante, Parks afferma che proprio analizzando la traduzione tale uso inconsueto della lingua viene in superficie, e che analizzando i nodi interpretativi che la sintassi ardita o il lessico ripetuto e rinnovato propongono si può arrivare ad una comprensione maggiore della poetica dell’autore, della complessità e della coesione interna del testo letterario. È anche attraverso la lingua stessa insomma, e la struttura stessa del romanzo, che l’autore decide di veicolare i significati più profondi del suo messaggio, la sua ambiguità e ambivalenza. Nelle traduzioni, spesso in maniera inevitabile, si tende invece a semplificare la lingua, a riportarla entro termini convenzionali, facilmente comprensibili e di scorrevole lettura.
Tim Parks intende dimostrare la sua tesi analizzando brani diversi di differenti autori di lingua inglese e le rispettive traduzioni all’italiano. Intende dimostrare che attraverso il loro confronto si può riuscire a comprendere in maniera più completa tanto il testo originale quanto il fenomeno stesso della traduzione.
Di seguito riferirò le tesi esposte da Parks nel quarto capitolo di Tradurre l’inglese, “Tradurre le ‘parole di fumo’ di Mrs Dalloway”. Cercherò poi nei testi di riferimento ulteriori esempi che confermino o confutino la tesi di Parks. Le citazioni, seguite dal numero di pagina tra parentesi, sono tratte da:
·
Virginia
Woolf, Mrs Dalloway, Genova,
Cideb, 1992.
· Virginia Woolf, La signora Dalloway, tr. Nadia Fusini, Milano, Feltrinelli, 1993.
· Tim Parks, Tradurre l’inglese, tr. Maria Teresa Falanga, Milano, Bompiani, 1998.
Tim Parks prende in analisi la traduzione di Nadia Fusini del capolavoro di Virginia Woolf, Mrs Dalloway. Sostiene Parks che nel suo lavoro la Fusini si sia lasciata coinvolgere a tal punto dall’analisi critica dell’originale da “alterare il testo per adattarlo alla propria interpretazione individuale” (p. 135).
Parks individua alcune divergenze ricorrenti tra l’originale e la traduzione: tendenza ad eliminare le congiunzioni sentite come superflue; semplificazione delle immagini più complesse mediante la rielaborazione della sintassi o l’aggiunta di elementi esplicativi; interpretazione di ciò che è vago; riduzione della tensione provocata in inglese dal ripetersi dei participi presenti; difficoltà nel rendere in traduzione parole come “to issue”, “smoke”, “to wind”; difficoltà ad interpretare l’uso peculiare dei pronomi da parte di Woolf. Secondo Parks in tutti i casi si tratta di elementi chiave per comprendere la poetica della Woolf. Caratteristica fondamentale dell’opera è infatti il continuo oscillare dei protagonisti tra il definito e l’indefinito, “tra gli angusti limiti del sé e l’ebbrezza del perdersi nell’altro” (p. 154). Laddove i protagonisti del romanzo si avvicinano all’essenza della vita, alla sua ricchezza e complessità, la sintassi si fa originale, contorta, a tratti ermetica; al contrario, quando i personaggi si richiudono nel loro tranquillizzante sé, anche la scrittura si semplifica. Ma Virginia Woolf non spiega tutto questo, semplicemente lo esprime, lo trasmette, usando le parole in maniera magistrale. La traduzione dovrebbe allora, secondo Parks
segnalare le immagini ricorrenti che Woolf offre come esplicite chiavi di lettura del romanzo [...] seguire, per quanto possibile, il livello di definizione dell’inglese, riproducendone in italiano la coerenza o l’incoerenza creativa. (p. 154)
Parks sostiene che la traduttrice, pur conscia della complessità e profondità del romanzo, non sempre riesce a trasferire in italiano la corrispondente complessità della lingua, e proprio nei momenti più oscuri della prosa di Woolf, ad esempio quando l’autrice cerca di rendere la mente di un uomo folle, adotta le strategie di cui prima.
Vediamo qualche esempio.
Septimus Warren Smith, aged about thirty,
pale-faced, beak nosed, wearing brown shoes and a shabby overcoat, with hazel
eyes which had that look of apprehension in them which makes complete strangers
apprehensive too. The world has raised its whip; where will it descend?
Everything had come to a standstill. The throb of the motor engines sounded like a pulse irregularly drumming through an entire body. The sun became extraordinarily hot because the motor car had stopped outside Mulberry’s shop window; […] Was he not being looked at and pointed at; was he not weighted there, rooted to the pavement, for a purpose? But for what purpose? (pp. 17-18)
Septimus Warren Smith, sui trent’anni circa, pallido in volto, il naso aquilino, le scarpe marroni e una giacca sdrucita, gli occhi color nocciola, e nello sguardo un’aria di apprensione che comunicava anche agli estranei. Il mondo aveva sollevato la frusta, sarebbe discesa?
Tutto si fermò! La vibrazione dei motori, intanto, continuò a pulsare come un battito irregolare che attraversi un corpo. Il sole infocò, perché la macchina s’era fermata appena fuori del negozio di Mulberry; […] Non era proprio lui che tutti guardavano, additavano, e soppesavano, abbarbicato lì al marciapiede, per un qualche scopo? Ma quale? (pp.11-12)
Nel riferimento allo sguardo di Septimus la traduzione accenna alla comunicazione tra lui e gli estranei, mentre il dramma di Septimus, il suo crimine, come lui stesso lo definisce, è precisamente la sua incapacità a qualunque relazione; l’originale non dice che lo sguardo comunica, ma soltanto che rende gli altri apprensivi. L’immagine della frusta è completamente stravolta e resa incomprensibile: la scelta di tradurre un present perfect (“has raised”) con un trapassato prossimo impedisce di attribuire l’affermazione alla mente di Septimus, e anzi sembra volerla imputare alla voce narrante, come se fosse il seguito della descrizione. In secondo luogo, eliminando l’avverbio “where” e sostituendo il futuro con il condizionale per accordarlo al tempo verbale scelto prima, si ipotizza che la frusta possa anche non colpire; ma questo non è il pensiero di Septimus, che invece è in apprensione perché sa che colpirà, ma non sa dove: l’allusione alle bombe che hanno sconvolto la vita di Septimus è persa nella traduzione. Il paragrafo successivo si apre in inglese con un preterito trapassato; è Septimus che osserva, e questo è il resoconto del suo pensiero: tutto si era fermato prima che Septimus iniziasse a pensare, prima cioè che paventasse il prossimo colpo di frusta. Nella traduzione al contrario pare che tutto si sia fermato in attesa del possibile colpo di frusta, e l’attesa è resa ancor più enfatica dal punto esclamativo assente nell’originale. Sembra una libera interpretazione della traduttrice, confermata subito dopo dall’inserimento dell’avverbio “intanto” e di “continuò a pulsare” invece di “pulsava”. Sembra che la traduttrice abbia preferito descrivere la scena come avrebbe fatto un cronista, piuttosto che accettare di entrare nei meandri della mente malata di Septimus. Il pensiero di Septimus non è reso nel suo fluire, non ci viene raccontato come se lo vedessimo, con la serie di immagini vivide che Woolf ha utilizzato; e non ci sono dubbi che si tratti del pensiero illogico di Septimus, e non di una descrizione obiettiva, dal momento che ci viene detto che il sole infocò per via della sosta della macchina. Septimus osserva, pensa, aspetta il colpo di frusta, ed è terrorizzato perché pensa di essere lui (anche qui la traduttrice aggiunge l’avverbio “proprio”) ad essere guardato e additato. Ma non “soppesato”; Septimus stava lì “zavorrato”, “appesantito” e “abbarbicato” (mentre il mondo “vacillava” e “tremava”) per uno scopo, anche se non ricorda più quale; dunque perché gli altri lo guardavano e lo additavano? Con la traduzione si perde l’idea di precarietà di Septimus, che sta abbarbicato alla vita perché sente che così deve essere ma non sa più per quale motivo; si insinua anche l’idea che gli altri in qualche modo colpevolizzino Septimus, imputino a lui responsabilità che non ha, e lo spingano così al suicidio, anche se ancora neppure sappiamo che avverrà. In realtà non sono gli altri a soppesarlo per qualche scopo, è lui che osserva il mondo, e si inchioda ad esso, per qualche scopo. Sembra, come sostiene Parks, che la traduttrice tenda a semplificare la complessità , a spiegare l’oscuro, a interpretare liberamente e ad anticipare temi che Woolf affronta nel romanzo con delicatezza e gradualità. La tendenza alla banalizzazione e reinterpretazione è vistosa anche nel seguente passo, dove tra l’altro si nota l’omissione della congiunzione di apertura:
So there was no excuse; nothing whatever the matter, except the sin for which human nature had condemned him to death; that he did not feel. (p. 109)
Non c’erano scuse, non aveva niente, era solo il peccato per il quale la natura umana è stata condannata a morte; per questo non provava nulla. (p. 81)
Ricondurre il peccato del quale parla Woolf al peccato della natura umana, al peccato originale, significa far partecipare Septimus alla vita degli uomini esattamente al pari degli altri, e significa che il suo non provare nulla è una mera conseguenza di questa ovvietà, di questo suo essere “umano”. Al contrario, quello che dice Woolf, quello che pensa Septimus, è che lui è stato condannato a morte dalla natura umana per un peccato preciso, cioè quello della sua insensibilità. Il ribaltamento del senso di questa frase appare davvero come un peccato imperdonabile!
Vediamo come vengono tradotti i pensieri di Clarissa .
Millicent Bruton, whose lunch parties where said to be extraordinarily amusing, had not asked her. No vulgar jealousy could separate her from Richard. But she feared time itself, and read on Lady Bruton’s face, as if it had been a dial cut in impassive stone, the dwindling of life; how year by year her share was sliced; how little the margin that remained was capable any longer of stretching, of absorbing, as in the youthful years, the colours, salts, tones of existence, so that she filled the room she entered, and felt often, as she stood hesitating one moment on the threshold of her drawing-room, an exquisite suspense, such as might stay a diver before plunging while the sea darkens and brightens beneath him, and the waves which threaten to break, but only gently split their surface, roll and conceal and encrust as they just turn over the weeds with pearl. (pp. 36-37)
Millicent Bruton, i cui pranzi si diceva fossero straordinariamente divertenti, non l’aveva invitata. Non era certamente una volgare gelosia che potesse dividerla da Richard. Temeva invece il tempo, e sul volto di Lady Bruton, come fosse stata una meridiana intagliata nella roccia impassibile, leggeva il diminuire della vita, come di anno in anno la sua porzione si assottigliava; quanto il poco margine che le restava non fosse più suscettibile di allungarsi, di assorbire i colori, i sapori, le tonalità dell’esistenza, come negli anni giovanili, quando entrando in una stanza lei la riempiva, e sentiva per un attimo, mentre esitava sulla soglia del salotto, una sospensione squisita, quella forse che potrebbe fermare un tuffatore prima di tuffarsi nel mare che sotto di lui si fa più cupo e luminoso, con le onde che minacciano di rompersi, ma appena leggermente alla superficie si divaricano, e trascinano e nascondono e mescolano alghe e perle mentre si rivoltano. (p. 26)
Si nota la maggior ampiezza, non necessaria, della seconda frase in italiano paragonata alla concisione della corrispondente inglese, così come la scelta di iniziare la terza frase con il verbo anziché con la congiunzione “but”. L’utilizzo del verbo “assottigliarsi” non crea problemi accanto all’immagine della meridiana, ma Woolf ha usato il più inusuale ma certamente evocativo “sliced”. Inoltre si nota la tendenza, molto comune in vari punti della traduzione, a sostituire le forme passive con le forme attive, e così “was sliced”, cioè “veniva tagliata a fette”, diventa appunto “si assottigliava”. Nella seconda parte di questo brano la traduzione si discosta ancora di più dalla carica espressiva dell’originale: non è “quanto il poco margine” ma “quanto poco il margine”; non è “quando entrava in una stanza lei la riempiva” ma “così che riempiva la stanza in cui entrava”; “sentiva spesso” diventa “sentiva per un attimo”; sono dettagli, ma sembrano strategie volte a semplificare la frammentarietà dell’originale, che si impegna invece a riprodurre non una mera descrizione dei pensieri di Clarissa, raccontati dall’esterno, ma esattamente i pensieri mentre vengono pensati: Clarissa sta ripensando alla sua giovinezza, alla capacità che aveva di assorbire l’esistenza e dunque di riempire le stanze (il mondo) con la sua presenza. La potente immagine del tuffatore risulta indebolita dall’aggiunta del “forse”, così come la ristrutturazione della frase non permette di apprezzarne l’intensità. Infatti si aggiunge il complemento al verbo “plunging,” scaricando la tensione in una descrizione dettagliata e lineare. Il mare nell’originale è presentato dopo un avverbio, “mentre”, e questo conferisce pathos alla frase; il mare si fa cupo e luminoso, ma non “di più”, non muta il suo essere solo perché il tuffatore si sta buttando; le onde non sono una caratteristica del mare (“con le onde” sembra voler suggerire questo, mentre Woolf ci mostra il mare e le onde, due entità distinte); e queste onde non fanno niente altro (“just”) che rivoltarsi, e nel far ciò ricoprono le alghe con la perla. Senza dubbio è un’immagine oscura, difficile da interpretare, e anche la costruzione della frase è inusuale, ambigua, con la risoluzione solo alla fine, senza punteggiatura che aiuti a decifrarla. Ma nella traduzione tutto si fa chiaro, e l’immagine del mare diventa quasi banale.
Then came the most exquisite moment of her whole life passing a stone urn with flowers in it. Sally stopped; picked a flower; kissed her on the lips. The whole world might have turned upside down! The other disappeared; there she was alone with Sally. And she felt that she had been given a present, wrapped up, and told just to keep it, not to look at it - a diamond, something infinitely precious, wrapped up, which, as they walked (up and down, up and down), she uncovered, or the radiance burnt through, the revelation, the religious feeling! (p. 43)
E allora giunse il momento più squisito della sua vita, quando passando davanti all’urna di pietra con dentro i fiori, Sally si fermò, colse un fiore, e la baciò sulle labbra. Fu come se il mondo intero sprofondasse! Scomparvero tutti, c’erano solo lei e Sally. Le sembrò che le fosse stato fatto un regalo, ben impacchettato, che doveva conservare così, senza guardarlo - un diamante, qualcosa di infinitamente prezioso, ben impacchettato, ma mentre camminavano (su e giù, su e giù), le si aprì, o forse lo splendore trapassò la carta, la rivelazione, il sentimento mistico! (p. 31)
La risistemazione della
punteggiatura e l’aggiunta delle congiunzioni “quando” e “e” diminuiscono la
tensione della frase. Eppure si tratta di una scena cruciale, stupisce come mai
non si sia voluto rispettare il ritmo voluto da Woolf. Inoltre, il mondo non
sembrò sprofondare, ma Clarissa pensa che avrebbe anche potuto andare gambe all’aria,
in quel momento contavano solo lei e Sally, completamente perse l’una nell’altra,
come suggerisce anche l’uso ripetuto di “wrapped up”, difficile da rendere in
italiano nel suo doppio significato. Si preferisce omettere la congiunzione
“and” all’inizio della terza frase, e sostituire quella seguente con il pronome
relativo “che”; le congiunzioni che spesso anticipano le
riflessioni di Clarissa, così come quelle degli altri personaggi, indicano il
flusso dei pensieri tali come compaiono nella mente, uno dietro l’altro, senza
che siano necessariamente logica
conseguenza uno dell’altro. La mente procede per libere associazioni, aggiunge
un tassello dopo l’altro al mosaico dei ricordi, o delle sensazioni, ma la
traduzione sembra ricondurre la tecnica che Woolf inventa per trasferire su
carta la mente altrui ad una serie di proposizioni logiche e lineari, ad una
perfetta e dettagliata descrizione, o anche, come dice Parks, ad
una sorta di parafrasi del pensiero (p. 161). Ancora, sul finire della frase,
inspiegabilmente la traduttrice aggiunge un “ma” e decide di non far aprire il
pacchetto a Clarissa, bensì di lasciare che accada mentre camminano, quasi
fosse per via del movimento. Woolf non dice questo, nell’inglese non c’è
traccia di avversativa, e inoltre fu davvero Clarissa a “scoprire” qualcosa.
Siamo di nuovo in presenza di un libero flusso di pensieri fissato su carta,
reso in maniera magistrale da Woolf grazie ai doppi sensi (“wrapped up”,
“uncovered”), all’uso della punteggiatura (con gli incisi che, non risolvendo
immediatamente a frase, aumentano la tensione e creano disorientamento) ma
soprattutto grazie alla sintassi, libera, aperta, fluida proprio come il
susseguirsi dei pensieri. Siamo davanti ad un caso di “ricerca, da parte di
Woolf, di strategie che tendono al trascendentale attraverso un offuscamento
della sintassi” (p. 159) e compito della traduzione dovrebbe essere quello di restituire tale
offuscamento anche in italiano perché parte integrante del messaggio dell’opera. Certo, non sempre è semplice mantenere le peculiarità dell’originale
in una lingua tanto diversa.
Tim Parks nota che la traduttrice sembra non cogliere appieno il valore del verbo “to issue” che ricorre più volte nel romanzo. Vediamo un esempio.
As the ancient song bubbled up opposite Regent’s Park Tube Station, still the earth seemed green and flowery; still, though it issued from so rude a mouth, a mere hole in the earth, muddy too, matted with root fibres and tangled grasses, still the old bubbling burbling song, soaking through the knotted roots of infinite ages, and skeletons and treasure, streamed away in rivulets over the pavement and all along the Marylebone Road, and down towards Euston, fertilising, leaving a damp stain. (p. 99)
Mentre l’antica canzone gorgogliava di fronte alla stazione di Regent’s Park, la terra appariva ancora verde e fiorita; anche se usciva da una bocca rozza, un buco nella terra, in più fangoso, coperto di radici fibrose e di erba intricata, la vecchia canzone che gorgogliava, ribolliva, impregnando le radici nodose di secoli infiniti, e scheletri e teschi, scorreva in rivoli sull’asfalto per tutta Marylebone Road, fin giù verso Euston, come fosse concime, lasciando una macchia di umido. (p. 72)
Qui non è tanto il verbo “issued” a creare problemi, anche se “usciva” è senz’altro meno connotato, quanto l’insieme della frase, lunghissima, un intero paragrafo, e carica di immagini ripetute e allusive. D’altronde l’utilizzo da parte di Woolf del verbo “issue” ci mette in guardia sulle sue intenzioni: sta per donarci l’immagine della “vita che sgorga nella forma più essenziale e, soprattutto, più indefinita” (p. 150). E proprio questo sgorgare impetuoso e inevitabile è reso ad esempio dall’uso ripetuto dell’avverbio “still”. La traduttrice decide di ignorare questa ridondanza, perdendo tra l’altro un riferimento al contrasto tra l’immobilità e lo scaturire tumultuoso della vita, assimilata ad una canzone ma descritta come acqua che sgorga (“bubbling”, “burbling”, “soaking”, “fertilising”, mai “still” nel senso di immobile). Altro contrasto inspiegabilmente ignorato e travisato dalla traduttrice (che traduce “treasure” con l’incredibile “teschi”) è quello tra “skeletons and treasure”, dove il “tesoro”, la cosa preziosa, è chiaramente la vita, o meglio, la capacità di viverla appieno, di assorbirla come si si fa con l’acqua, mentre gli scheletri sono le occasioni perse, i resti sterili, la propria aridità, il tempo passato che può comunque ancora (“still”) essere fertilizzato dai rivoli della canzone.
Was everybody dining out, then? Doors were being opened here by a footman to let issue a high-stepping old dame, in buckled shoes, with three purple ostrich feathers in her hair. Doors were being opened for ladies wrapped like mummies in shawls with bright flowers on them, ladies wiht bare heads. (p. 193)
Erano tutti a cena fuori? Ecco un domestico che apriva la porta per lasciar passare una vecchia dama di alto lignaggio, con scarpe a fibbia e tre piume di struzzo rosso porpora nei capelli. Altre porte si aprivano e ne uscivano signore avvolte come delle mummie in scialli a fiori variopinti, a capo nudo. (p. 148)
In questo caso la carica evocativa di “issue” è persa completamente. Di nuovo, Woolf sceglie di usare tale verbo per descrivere la vita che fluisce, questa volta nelle sembianze di un’anziana ed elegantissima dama, pronta per un ricevimento, pronta per la serata in società. “Lasciar passare” è il modo più comune per descrivere la scena in italiano, e l’attenzione si concentra sulla descrizione dell’abbigliamento. Questo anche perché, come già notato in precedenza, la traduttrice preferisce spesso ignorare le tante forme passive presenti nell’inglese, cambiando la focalizzazione. Nell’originale il fuoco è tutto sulle porte, le stesse porte che all’inizio del romanzo abbiamo visto scardinare (anche in quel caso con l’identico spostamento di focalizzazione che non può passare inosservato). Le porte, dunque, anzi, “porte” senza neanche articolo, proprio per rendere l’universalità dell’evento in contrasto con “le porte” intime di Clarissa Dalloway, porte che vengono aperte per far sgorgare, fluire, prorompere queste signore, avvolte sì come mummie, ma in scialli pieni di vitalità. È Peter Walsh che registra la scena, e sappiamo che sta andando alla festa di Clarissa. Peter continua a camminare per Londra, ad osservare, a riflettere, e ad un certo punto:
The cold stream of visual impression failed him now as if the eye were a cup that overflowed and let the rest run down its china walls unrecorded. The brain must wake now. The body must contract now, entering the house, the lighted house, where the door stood open, where the motor cars where standing, and bright women descending: the soul must brave itself to endure. (p.194)
Il flusso di impressioni visive ora s’arrestò, come se l’occhio fosse una coppa colma che trabocchi e lasci cadere l’eccesso lungo le pareti di porcellana. Il cervello adesso doveva risvegliarsi. Entrando nella casa, la casa illuminata, con la porta aperta, lì dove le vetture si fermavano e ne scendevano delle splendide signore, il corpo doveva contrarre i muscoli, l’anima farsi forte per affrontare la prova. (p. 149)
Il flusso di impressioni ad un certo punto “tradisce” Peter, gli viene a mancare perché lui è troppo emotivamente coinvolto, saturo di contenuto e incapace di registrarne ancora. La traduzione, pur non rispettando pienamente l’originale, riesce a rendere molto bene questa idea di saturazione, anche se, contrariamente a “failed him”, “s’arrestò” non sposta l’attenzione su Peter. Lascia perplessi invece la scelta di posporre “il corpo doveva contrarre i muscoli”, allontanandolo così dall’immagine del cervello che deve svegliarsi. Nell’originale il corpo e il cervello sono esortati a riprendere il controllo di loro stessi “adesso”, ripetuto tre volte, perché è “adesso” che Peter sta per entrare nella casa, la casa dove la porta stava aperta, e non veniva aperta come quelle che abbiamo visto prima. È la porta di Clarissa, scardinata, che permette alle altre porte di essere aperte, è la sua disponibilità, il suo donarsi agli altri, il suo illuminare che riempie la vita, la dona, la illumina. Tutto questo nella traduzione è perso, a vantaggio dell’ennesima descrizione convenzionale.
Dall’analisi di questi passi risulta in effetti una certa imprecisione nel trasferire all’italiano le infinite implicazioni del romanzo di Virginia Woolf. La traduttrice ha spesso optato per scelte stilisticamente eleganti, ma non sempre coerenti con l’indefinitezza e l’apparente incoerenza dell’originale. Spesso si sono persi riferimenti chiari alle tematiche centrali del libro, si sono semplificate immagini indubbiamente oscure, ermetiche, come dice Parks. Le parole chiave non sempre hanno trovato giusto risalto nella versione italiana. Certo non è semplice arrivare ad una traduzione capace tanto di cogliere gli aspetti essenziali dell’opera, quanto, e soprattutto, di renderli in italiano senza alterare troppo il livello lessicale e sintattico e senza proporre una versione assolutamente illeggibile dal punto di vista stilistico. Ma è indubbio che, prescindendo dal giudizio sul valore della traduzione, un esercizio di analisi siffatto permette davvero una comprensione più profonda tanto dell’opera originale, quanto delle sfide e delle insidie che accompagnano il compito del traduttore.