Jean Montalbano
Canned Heat
Wilson
Gilles Cornec: Alan
Wilson, l'âme de Canned Heat. Le Mot et le
Reste, 2022
Meno noto di altri soci del club dei 27, Alan Wilson (Arlington,
Massachusetts 1943 - Topanga Canyon, California 1970)
armonicista-chitarrista e saltuariamente cantante, creatore del suono dei Canned Heat, firmatario di due
tra i loro maggiori successi, dopo altre indagini (che già ne hanno
sottolineato la figura anomala e spostata nel sistema, all'epoca non ancora
consolidato e formattato, del rock statunitense) è la materia elusiva di questa
biografia, dovuta alla penna partecipe di Cornec e
svolta sotto il segno del crepuscolo e dell’emblematica civetta. Evitando le
chiose psicologiche, per cui pure non mancano tanti appigli, se ne traccia il
profilo di una vita che, pur gratificata da una non richiesta notorietà, venne
vissuta con disagio dal ragazzo della costa est che si sentiva affratellato ai
devoti musicologi diretti verso armonie e modalismi del sud, in cerca delle
radici del delta blues, più di quanto non si sentisse sedotto dall'esibizione
scomposta dei coetanei, con vista sul Pacifico, stanziati tra L.A. e Frisco. Come altri caduti giovani in un vecchio Victrola senza più uscirne, Wilson si volle ricercatore sul
campo, prima che collezionista di dischi, scopritore di pepite tralasciate
dalle incursioni di Alan Lomax, proprio come l’altro
sradicato della costa orientale, l'acustico “über alles” John Fahey, di cui seguiva
i concerti trascrivendone dal vivo i pezzi con una facilità tale da sconcertare
l'autore della “Trasfigurazione di Blind Joe Death”. Fu proprio una forte trascurata miopia (gli
occhiali sempre rotti e incerottati, e comunque smarriti, si conquistano, come
un controcanto derisorio, vari paragrafi del libro) che, col pensiero rivolto a
Blind Lemon Jefferson e Blind
Blake, spinsero Fahey a soprannominarlo “Blind Al” e in seguito, apprezzatane l'erudita sapienza
musicale, “Blind Owl”.
Fahey, grazie a cui Wilson
conoscerà Bukka White, sarà poi ospitato in un disco
degli ormai lanciati Canned Heat,
ma il “tradimento” elettrico della Civetta Cieca Wilson (tipo il felice summit
con John L. Hooker tramandato nell'album Hooker n' Heat)
farà abortire avventure e collaborazioni progettate durante le sbrigliate
spedizioni esplorative. Allora saranno già finite al banco dei pegni le
medaglie guadagnate sul campo più traditional,
il suo accompagnare all’armonica il redivivo Mississippi John Hurt nel 1964 o i mesi trascorsi con uno spaesato Son
House, da cui ricordò di avere imparato a dire sumfin
per something ricordandogli, in
cambio, come andassero suonati i suoi stessi pezzi trascurati e disimparati col
passare degli anni. L’attenzione per una vocalità (espressa
possibilmente fuori dalla “lingua del New England”)
negletta dai colleghi, bianchi o neri, che le preferivano un lasciarsi andare
strumentale e spettacolare di basso conio (scorciatoie prese perfino da un
Jimmy Cotton), sarà un aspetto puntigliosamente studiato del suo blues modale.
Tra i tanti, avidamente appresi a memoria e trascritti, c'era un pezzo di Charley Patton che andava cantato “come quando si picchia
la moglie”. Istruzioni per l'uso che mal s'accomodavano con la ricezione bianca
della tradizione rurale che spopolava appunto nei locali giovanili, accomunando
nel revival folk, Baez, Dylan o van Ronk tra un Club
47, a Cambridge, e il Village newyorkese. Piuttosto,
frequentando e accompagnando i superstiti testimoni del blues d'anteguerra,
divenne chiaro a Wilson che comprende il blues chi non lo riduce a raccolta di
deprimenti canzoni di protesta, svendendone la bellezza all'incanto della
questione razziale; e ne accosta verità e misteri chi ne smonta le forme prima
di montare il proprio repertorio nello stile del Delta: il limite del blues
style sta solo in quelle cinque note.
Pur sostenuto dall'onda revivalista (un equivoco da lui attribuito all’uso
dell’amplificazione) l'orecchio assoluto di Wilson ne favoriva una più
immediata e vivente connessione con il blues rurale (operazione resa più ardua
per tanti simili gruppi inglesi, il cui suono portava tracce pressoché
incancellabili della deviazione per Chicago, a rischio incombente di
stereotipi) e con il suono e la vibrazione da cui lievita: uno dei suoi
obiettivi sarà unire blues e musica indiana nel perfetto swing vedico di On
the road again.
Nemmeno il richiamo del west californiano, dove pure gli avvenne di
trovarsi ad un happening mattutino con le Mothers e
metà Doors (e la cosa fece esclamare, con
giustificati motivi, a qualche manager in erba che “c'è da fare del grano”) ne
fagocitò del tutto, coinvolgendolo nel libero darsi delle groupies,
l'animo ritratto in paure e riserbi al di qua di ogni disinvolto lasciarsi
dire: ritraendosi, più che esibendosi, a proprio agio dietro il muro degli
amplificatori più che nel gioioso darsi e dimen(tic)arsi
del divetto rock. Col suo Thoreau sempre in tasca e
fiero delle competenze in botanica, Al Wilson pareva non aver mai lasciato i
boschi del New England. Schivo e come infastidito dal
vivere l'avventura della rock band e i suoi dilemmi inattesi come quello,
presentatosi alla vigilia di un concerto (luglio 1969) se “sostituire un
chitarrista drogato (Henry Vestine) con un chitarrista drogato (Mike Bloomfield)”, Wilson si riservava un angolo precario,
disagiato e da altri inattingibile, in cui sugli assegni, inviatigli dalla casa
discografica e non incassati, prendeva note e appunti in vista di blues
dall'aria sempre più sinistra e la quotidianità via via si squadernava nel disagio
delle “piaghe che devastano l'anima, lentamente, nella solitudine” di cui
scriveva Sadegh Hedayat a
proposito della sua Civetta cieca.