Giuliano Galletta

Aurelio Caminati (1924-2012)
Ho conosciuto Aurelio Caminati, morto venerdì a Genova all'età di 88 anni, a metà degli anni Settanta, quando lui era già un pittore affermato (la sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia è del 1956) e io uno studente universitario, ai primi passi sia come giornalista che come artista. Ciò nonostante si stabilì subito fra noi un’eccezionale sintonia e amicizia, resa possibile dalla sua disponibilità culturale, politica e umana e da una grande curiosità nei confronti di una generazione particolarmente turbolenta, da tutti i punti di vista. Caminati del pittore aveva tutto, in primo luogo l’aspetto, cappelli argentei, papillon multicolore, cappello panama e, negli ultimi anni, anche un bastone portato sempre con grande eleganza, ma soprattutto del pittore aveva la mano che gli permetteva di dominare qualsiasi tecnica: dalla pittura alla scultura, dalla ceramica all’affresco, che lo ha visto impegnato al Carlo Felice, dal video alla scenografia. Ma negli anni Settanta Caminati stava sperimentando un nuova fase della sua carriera con l’invenzione delle “Trascrizioni”, performance di massa in cui l’artista creava azioni a metà fra teatro di strada e tableau vivant, ispirate ai dipinti dei maestri da Magnasco a Fussli a David. Nel 1978 i filmati che documentavano quegli eventi - particolarmente memorabile quello dedicato al tema della follia che si svolse a bordo di un barcone sui navigli milanesi - furono proiettati in una rassegna sul cinema d’artista al Centre Pompidou di Parigi. In occasione di una grande antologica che Palazzo Ducale gli aveva dedicato nel 1998 aveva detto, a proposito delle “Trascrizioni”: «Per me non si trattava di uscire dalla pittura, di usare un altro mezzo, ma di entrarci più a fondo. Io volevo animare la pittura, volevo attivare i personaggi, far vivere i colori, muovermi nello spazio reale come se fosse lo spazio del quadro». Una svolta importante ma soltanto una delle numerose svolte di un percorso di ricerca iniziato nel Dopoguerra sempre all’insegna di un’immensa passione per la pittura, per il “mestieraccio” di pittore in cui Caminati eccelleva. Negli anni Sessanta si trova nel cuore dei movimenti di avanguardia collaborando, senza mai smarrire la sua originalità, con Lucio Fontana, Piero Manzoni, Mimmo Rotella. «Caminati è stato protagonista» spiega Franco Sborgi, docente di storia dell’arte contemporanea all’università di Genova «di alcuni dei principali movimenti artistici nazionali, dal Neorealismo alla Nuova Figurazione, dalla Pop Art all’Iper-realismo alla performance». Un eclettismo stilistico che qualcuno gli aveva rimproverato ma che l’artista ha sempre rivendicato: «Non ho mai voluto accettare la logica del mercato» raccontava in una intervista del 1997 «che imponeva, una volta scovata una formula pittorica di ripeterla all’infinito. Era quello che molti galleristi e anche qualche critico voleva da me ma che io non potevo dargli». Per lui la pittura era sempre un viaggio ma lui amava anche i viaggi veri, sin dagli anni Cinquanta, quando con Emilio Scanavino andò a Parigi per conoscere Alberto Giacometti e a Londra per incontrare Francis Bacon, il pittore che Caminati più amava: «Ricordo che lavorava» mi ha raccontato una volta «in uno studio dove regnava il più totale caos, che assomigliava più a una discarica che a un atelier, ma in mezzo a questi cumuli di cartacce. improvvisamente, apparivano appoggiati su bellissimi cavalletti inglesi, questi enormi quadri, puliti, perfetti, che sembravano arrivare da un’altra dimensione». Lo studio di Caminati, in via Balbi, era sicuramente più ordinato ma credo vi albergasse la stessa, ostinata e forse inspiegabile, certezza della necessità della pittura.
Il Secolo XIX, 7 luglio 2012