Domenico Pistilli 

Maurizio Cabona, viaggiatore

Maurizio Cabona di zone ne ha conosciute. Scrittore, giornalista (Candido, Gazzetta Ticinese, Il Secolo XIX, Il Giornale, Il Foglio, La Verità, Il Messaggero) e critico cinematografico. Quando non era ai grandi Festival (Berlino, Cannes, Venezia…), lavorava a Milano e poi Lugano, poi Genova e infine ancora Milano. Di sé dice: “Emigrante del nord, relativamente fortunato, a forza di guidare tra Milano e Genova da quasi mezzo secolo, mi annoio. Mi tengo sveglio mettendo in ordine alfabetico i posti dove sono stato”.

 

Li ricorda tutti?

“Facciamo una prova, se le va”.

Aleppo, Siria

 

Prendo nota. 

“Aix-en-Provence, Aleppo, Amburgo, Amman, Amsterdam, Anversa, Atene, Avignone, Baghdad, Bali, Bangkok, Barcellona, Basilea, Bassora, Belfast, Belgrado, Bellinzona, Brazzaville, Bruxelles, Cairo, Calvi, Coira, Colonia, Corte, Damasco, Delft, Derry, Donaueschingen, Douarnenez, Dresda, Drogheda, Eilat, Erbil, Fiume, Galway, Gand, Gerusalemme, Gettysburg, Giacarta, Ginevra, Granada, Grenoble, Haifa, Heidelberg, Helsinki, Hong Kong, Innsbruck, Ivalo, Kiel, Kuala Lumpur, Kursk, Kuwait City, Landeck, La Valletta, Leeuwarden, Lione, Losanna, Lovanio, Macao, Madrid, Malaga, Marsiglia, Minden, Monte Carlo, Mosca, Mount Vernon, Nazaret, New York, Nizza, Norimberga, Palmira, Parigi, Pola, Potsdam, Sankt-Polten, Schwerin, Sion, Siviglia, Sparta, Stoccolma, Strasburgo, Sylt, Tartus, Tel Aviv, Vienna, Washington, Zurigo”.

 

In tutti questi posti come è arrivato?

“Possibilmente con i mezzi pubblici, che mi permettono di leggere, scrivere, dormire. Se, invece, intende come mai io sia arrivato un po’ ovunque, direi per lavoro. Spesso non erano posti ambiti dai colleghi perché ne ignoravano lingua e storia e soprattutto non pensavano di ricavarne qualcosa. Intendo per loro, non per i lettori”.

 

Ogni soggiorno avrà avuto peculiarità. Ma ci sono terre, città, culture, tradizioni incontrate che ricorda con maggiore intensità?

“I posti che adottavo. Berlino e Dresda per i bombardamenti subiti un tempo, Baghdad e Belgrado per quelli che stavano subendo, nel ’91 e nel ’99 rispettivamente, Belfast e Derry per ragioni non identiche, ma analoghe. Anche i film dell’infanzia mi spingevano più volentieri verso certi posti: Hong Kong, Londra, Parigi, New York”.

 

Ci racconti un po’ dei momenti più significativi nelle trasferte…

“Essere arrivato, in qualsiasi posto, è già un’emozione. Dove si giunge per la prima volta, ogni via, o quasi, è una sorpresa. Meno il posto era turistico, quindi battuto da altri, più mi emozionava. È la logica del ‘io ci sono arrivato, voi no’”.

 

Tra Cannes, Grenoble, Lione, Parigi. Come descriverebbe il suo rapporto con la Francia e la cultura francese?

“In principio fu Grenoble: luglio-agosto 1973, studente ai corsi estivi dell’università costruita negli anni di De Gaulle. Spendevo ciò che avevo in libri. Per fame sono tornato a Genova sottopeso. Ma sarei ripartito dopo una notte di sonno. Era la libertà dell’adulto, assaporata quando ero appena maggiorenne (lo si diventava a 21 anni) e il fatto che, dal 1964, seconda media, studiavo la lingua francese. Cannes è venuta nel maggio 1978: primo Festival per me di una lunga serie. Nell’agosto seguente, l’Université d’été del GRECE a Roquefavour, nell’entroterra di Aix-en-Provence… Mete che, da Genova, distano meno di Bolzano o Udine e molto meno di Roma”.

 

Derry, Belfast. Che cosa ci dice delle Sei Contee?

“Altra emozione connessa alla storia e al cinema. Aprile 1992, l’Eire era già meno povera che nella mia infanzia grazie alla CEE, ma in un paese dell’interno, Athlone o nei pressi, vidi la povertà che avevo visto nei paesi dell’entroterra ligure da piccolo: una ragione di più per muovere a tenerezza. Da Galway presi la strada verso Derry, badando a non tenere la destra. Lunghi tratti di strade deserte, in assenza di veicoli che ti vengono incontro fanno prevalere l’insidiosa abitudine nella guida. Derry, il suo fiordo, la luce del crepuscolo primaverile, dopo la pioggia, è stata uno spettacolo di per sé. Mi incantavo davanti ai murales. Ma la guerra civile si avvertiva soprattutto nei quartieri cattolici di Belfast”.

 

A Dresda dove ci fu il bombardamento del febbraio 1945. Che cosa ha pensato camminando per le vie della città?

“Ho camminato pochissimo. Arrivato nel pomeriggio, mi precipitai al museo d’arte, prima che chiudesse. L’alba seguente – maggio 1993 – ero piegato in due da una colica renale. Presi un taxi e mi ricoverai all’ospedale. Era ancora una struttura Ddr, l’unificazione era relativamente recente. La falda acquifera era stata inquinata dagli scavi per trovare uranio. Non potevo bere l’acqua del rubinetto. I parenti degli altri ricoverati mi portavano loro da bere. Ricordo un signore nella mia stessa stanza, che aveva conosciuto Genova 1944-45. Dolore di colica a parte, come a Grenoble, mi sarei stabilito lì”.

 

E poi Belgrado. Lei ha curato un libro: Ditelo a Sparta. Serbia ed Europa. Contro l’aggressione della Nato. Titolo eloquente.

“Sì, evocavo gli Spartani alle Termopili reincarnarsi nella Serbia 1999. A Belgrado sono stato più volte tra 2003 e 2009. Le macerie dei ministeri e dell’edificio della tv non erano state rimosse, come un memento. La Serbia aveva dovuto ritirarsi dal Kosovo, ma i serbi mantenevano ancora il Montenegro e lo Stato era ancora quello jugoslavo, almeno sulla carta. Scoprivo come la propaganda della guerra fredda fosse stata ingannevole. Ricordo due ambasciatori, Zanardi Landi e poi Merola, che avendo alla Farnesina come direttore generale Vattani sr. hanno fatto al più alto livello possibile l’interesse nazionale”.

 

Tra le sue mete ci sono state Baghdad e Damasco…

“Baghdad e Damasco erano due miti fin dall’infanzia e adolescenza, quando mi incantavo a guardare i tg, specie in occasione dei colpi di Stato. Il partito Baath, un fascismo arabo, permeava ambo i Paesi, confinanti e antagonisti: l’Iraq ricco, la Siria povera. Ho visto i loro popoli prima della devastazione che li ha colpiti tra il 1991 e oggi. La potenza regionale, erede del Califfato di Baghdad, era l’Iraq, che aveva trovato una sovranità condizionata, ma più ampia di quella dei restanti Paesi arabi. Damasco era meno grande e meno bella, la perla della Siria era l’Aleppo del suk coperto, dove nel 1998 ho vagato con Enzo Biagi, stupito dalla tenacia nel trattare i miei acquisti”.

 

I viaggi compiuti hanno contribuito a delineare una fotografia nitida del grande gioco della geopolitica? Con che esiti?

“I viaggi permettono i disinganni. Si smette di credere di appartenere ai buoni, opposti ai ‘cattivi’. Il grande gioco è lo scontro degli interessi dei sistemi economici egemoni. Di nitido c’è che non ci sono ‘buoni’”.

 

Tanti i modi di viaggiare. Qual è lo sguardo da avere, allontanandosi da casa?

“Non bisogna avere quello dei turisti, ma so che è difficile, specie agli inizi. L’orrore è lo sguardo dei neo-colonizzatori, dei maestrini dell’Occidente”.

 

Di che cosa ha nostalgia?

“Di me, per come ero, con i miei sforzi di raccontare ciò che vedevo. Ma non ne ho dei posti: il dolore per chi ho visto morire, per ciò che è stato distrutto, l’ha cancellata”.

 

Ultima domanda. Simbolicamente che cos’è il viaggio?

“È come un film: si vive in un altro spazio, in un altro tempo. Non c’è sincronia tra i popoli. Per fortuna”.

“barbadillo.it”, 7 Marzo 2023