cineVentennio
Battuti
dai film iraniani e cinesi negli incassi a Parigi, i residui film italiani
filtrano dai confini come bagliori d’un tramonto. Ma perdere mollemente ciò che
s’era conquistato duramente fa almeno capire quanto ciò fosse prezioso e così
fioccano le rivalutazioni. C’è stata quella del cinema “di genere” - anche del
più corrivo - degli anni Settanta, alla quale s’è dedicata la Mostra di Venezia
nel 2004; nel 2006 ci sarà il convegno alla Cineteca nazionale di Roma,
dedicato agli anni Trenta e Quaranta. Intanto molti film di allora tornano
disponibili nei dvd della Rhv: da ultimi i classici di Camerini, fra i quali Gli uomini, che mascalzoni e Il signor Max, entrambi con De Sica sr.,
e quelli di Bonnard, come Avanti c’è
posto e Campo dei Fiori, entrambi
con Fabrizi. Perfino le colonne sonore
più suggestive echeggiano - accompagnati da fascinosi fruscii - nei cd della
ViViMusica.
Stagionale,
perciò normale rivisitazione? Sì, ora però c’è anche reinterpretazione. La fa
la saggistica, evocando ora con rispetto un’era irrisa nell’interminabile
dopoguerra. Recentemente è venuta anche la sanzione di Monicelli, che negli
anni Trenta cominciava la carriera e ormai li definisce “il periodo migliore
del nostro cinema” (Il Giornale, 22
novembre 2004; Corriere della Sera, 4
marzo 2005). Se presto è venuta il memoriale definitivo, Il cinema di Luigi Freddi (riedito da Gremese nel 1994) , resta da
scrivere il saggio definitivo. Il cinema fra le due guerre attende ancora il
suo De Felice.
Intanto
Nelle
opere di Rosselli e Pampaloni e di Marino e Marino il più interessante è il
non-detto, perchè i loro saggi partono dal tacito presupposto dell’eccezionalità
del periodo (totalitarismo, guerre internazionali, guerra civile) - fin qui
nulla di nuovo - e giungono alla più o meno esplicita conclusione che il cinema
di allora rispecchiava eminentemente il passaggio dalla comunità alla società: i
valori rurali cedevano ai prezzi urbani; la famiglia tradizionale alla famiglia
nucleare; i costumi cattolico-borghesi alle ipocrisie borghesi-cattoliche,
invano contrastate dalle aspirazioni eroiche di alcuni intellettuali.
Formatisi
in epoca fascista, Fellini (allora umorista del Marc’Aurelio e sceneggiatore) e Antonioni (allora critico del Corriere padano, quotidiano di Balbo) in
epoca democristiana sarebbero stati cantori della svolta, talora compiaciuti,
talora desolati; De Santis e Lizzani (allora critici del settimanale
cinematografico di Vittorio Mussolini) avrebbero colto invece subito, col
cadavere del fascismo che si muoveva ancora, i rischi della metamorfosi: già i
loro primi film, oltre mezzo secolo fa, erano all’insegna del “Quest’Italia non
ci piace!”. Emuli di Prezzolini? Neoluddisti? Spartachisti spartani?
Professionisti dell’antibenessere? In realtà sensibili, prima di Pasolini, che
il culmine dell’ascesa della loro industria culturale annunciava il declino
nazionale. Calava la tensione sociale, ed era una necessità, ma con essa
calavano la tensione politica e quella morale. Più realisti, altri cineasti -
conservatori come Steno e Risi, mobilitatori come Lattuada e Monicelli -
prendevano l’Italia come veniva. E comunque era ancora una signora Italia quella di Togliatti e Andreotti, Mattei e Mattioli.
Occorre
un’angolazione antropologica, non una aneddotica, per riesaminare il cinema di
ieri e rianimare quello di oggi. Essi hanno abbastanza in comune nella loro
fine, stabilita dal loro inizio nella fase del sonoro, venendo l’uno come l’altro
da un Paese troppo debole per imporre la sua lingua al mondo e troppo forte per
farsene imporre un’altra. Lo stratagemma del doppiaggio, che ha tanto favorito
Hollywood, è diventato un baluardo contro l’anglofonia.
Si
beffava il cinema di ieri per i telefoni bianchi; si beffa quello di oggi per i
telefonini neri. Ieri nei film mancava la rabbia (neorealismo rosa)? Oggi nei
film c’è la rassegnazione dei pasoliniani. E i tavianei - nel senso dei
fratelli - si sono ridotti a morettini. Dunque nel 2066 ci saranno autori che
si chineranno su questo cinema italiano del 2006 e che, come Rosselli e
Pampaloni, lo racconteranno come autobiografia della nazione? O che, come i
Marino, dedurranno dai rapporti del Sisde o della Dia, trovati in qualche
faldone, che nel 2006 aleggiava sulla nazione un clima delatorio?
Infatti,
se Rosselli e Pampaloni privilegiano
la panoramica e il contesto socio-storico sull’estetica e sull’economia
(incassi), terreno per un’ulteriore ricerca, Marino e Marino si tuffano nel
sottobosco dei pettegolezzi sulla Abba e sulla Ferida (per dire due nomi) senza
correlare - neppure nelle note o in appendice - carriere e traversie, dando per
scontato che sappia farlo il lettore; inoltre non spiegano mai che sempre e
ovunque le polizie controllano le cinematografie e, in generale, le celebrità:
solite a frequentazioni importanti, al denaro facile, alle trasgressioni, ai
viaggi, sono ideale terreno di cultura per delinquenza organizzata e spie, come
ricorda anche il film Confessioni di una
mente pericolosa di George Clooney (2002). Quanto all’infiltrazione dell’Fbi
a Hollywood, ha offerto casi atroci, dalla “caccia alle streghe” ai suicidi
indotti di Marilyn Monroe (troppo legata al presidente John Kennedy e a suo
fratello Robert, ministro della Giustizia) e Jean Seberg (troppo legata a un
capo delle “Pantere nere”). In fondo, da noi si sono fatti veramente male solo
la Ferida e Valenti, oltre a Marcuzzo della viscontiana Ossessione. E nessuno di loro per mano poliziesca.
§
M.C./ Il cinema italiano - fra i maggiori al
mondo col muto - col sonoro subì una grave crisi, perché l’italiano non era
lingua da esportazione. Hollywood riusciva a imporre il doppiaggio e così a
conquistare - autarchia o no - maggiori aree di mercato anche in Italia. Alla
rivoluzione tecnica si aggiunse la depressione economica, originata dal crollo
di Wall Street, che sembrò annunciare l’eclisse, se non il tramonto del
capitalismo. Ancora largamente agricola, l’Italia la superò con meno danni che
la Germania, ricorrendo a un dirigismo che assimilò il fascismo a un “bolscevismo
depotenziato”. Il forte intervento statale in Italia sarà però anche il modello
del New Deal rooseveltiano e si
concretizzerà, per il cinema, con la costituzione dell’Istituto Luce, del
circuito produttivo-distributivo pubblico dell’Enic, con la fondazione del
Centro sperimentale di cinematografia e infine di Cinecittà.
A questa rinascita e ai suoi risvolti talora desolanti sono dedicati due
recenti libri (Rosselli e Pampaloni, Il
ventennio in celluloide, Settimo sigillo; Marino e Marino, L’Ovra a Cinecittà, Bollati Boringhieri)
di cui Il Giornale ha scritto ieri,
rilevando che cosa resti, oltre sessant’anni dopo, di quella lezione. Il
sistema di sovvenzioni, per esempio, consentì di formare nuove generazioni di
cineasti, grazie ai quali già nel 1941 il nostro cinema diventava quello di un
Paese avanzato, capace di riflettere la realtà, con una borghesia non più da
operetta, con donne non più “o sante o puttane”, con una guerra rappresentata
più sinceramente di quanto facesse Hollywood, una guerra dove nemmeno le
vittorie consolavano del loro prezzo.
L’antropologia dell’italiano trovava infine uno specchio.
Fra il 1942 e il 1943 si delineava dunque già quello che sarà il cinema del
dopoguerra, che farà incetta di Oscar, di Palme e anche di Leoni d’oro, sebbene
il fair play volesse che ogni
cinematografia vincesse i suoi premi in trasferta. Oggi alcune di queste realtà
sono solo ricordi: gli alti incassi nel mondo sono diventati modesti e
altalenanti e solo in Italia, mentre l’industria del cinema è ridotta ad
artigianato del cinema, salvo i lavori su commissione che hanno reso Cinecittà
- ancora una volta - la Hollywood sul Tevere. Sul tema intervengono ora Carlo
Lizzani, Mario Monicelli e Dino Risi.
Carlo Lizzani
E’ giusto
- come ha fatto
Nelle sei
edizioni della mia Storia del cinema
italiano, apparse fra il 1953 e il 1982, ho sempre messo in rilievo - alla
maniera di De Felice, come auspica Cabona? - l’importanza del cinema di
Camerini, Blasetti e Franciolini. E fin dalla loro apparizione ho apprezzato l’opera
di nuovi talenti, come Lattuada, Castellani e Poggioli, all’interno di una
battagia critica orientata sul richiamo all’opera di Verga. Definii “formalisti”
quei talenti per la loro attenzione a una letteratura che ritenevo lontana
dalle nostre battaglie, ma li consideravo già protagonisti di un cinema lontano
dai “telefoni bianchi”. E, sempre in quegli anni, apprezzai anche autori, pur
coinvolti in certi film di propaganda, come Alessandrini e De Robertiis per la
loro grande professionalità.
Rivisitazioni
(libri, convegni, ecc.) sono sempre opportune, se non scoprono l’acqua calda.
La critica radicale del fascismo ha infatti sempre messo in luce la coesistenza
nel regime di spinte modernizzatrici (radio, architettura, Enciclopedia
Treccani, Centro sperimentale di cinematografia, Cinecittà, ecc.) con mitologie
ottocentesche, destinate al fallimento (nazionalismo, impero, corporazione,
ritorno alla terra). Però paragoni col passato sono sempre difficili.
Per
confontare cinema di ieri e di oggi, occorre rammentare la perdita della
centralità del cinema stesso, nel campo del tempo libero. Negli anni Quaranta e
Cinquanta si vendevano ancora mediamente ogni anno circa ottocento milioni di
biglietti; oggi se ne vendono cento. Del resto il cinema non gode più di buona
salute nemmeno a Hollywood. A renderne più difficile la situazione in Italia è
la mancanza di un gioco di squadra.
I momenti
di maggiore salute del nostro cinema sono stati quelli dell’impegno statale nel
periodo fascista, aiutato però dopo il 1938 dall’esclusione illiberale dal
mercato proprio del cinema hollywoodiano; poi quelli del periodo neorealista,
in cui autori - pur ispirati da poetiche diverse - si trovarono uniti dalla
voglia di scoprire le pieghe più nascoste del nostro Paese e delle nostre anime
(Antonioni e Fellini); infine l’ondata genericamente definita della commedia
all’italiana, che vide una trasversalità in molti film di molti autori, attori,
tecnici, ecc.
Oggi - l’ho
scritto spesso in questi ultimi anni - non mancano i talenti, ma non c’è una
battaglia di tendenza ad accomunarli, rendendo riconoscibile l’identità del
cinema italiano.
Ma è
anche vero che gruppi, tendenze, battaglie di correnti prendono forma se al
cinema è garantita una minima possibilità di sopravvivenza. Intanto occorre la
sopravvivenza della memoria storica. La sala cinematografica è in declino, è
vero, ma la tv ancora si nutre di cinema; dove sono finite però le regole che
dovevano presiedere a un’equa presenza del cinema italiano nella progammazioni
tv? E poi occorre la sopravvivenza delle iniziative produttive.
La prima
regola per giungere a una vivacità del mercato è proprio la varietà delle
offerte. La presenza nelle sale di molteplici offerte, a cominciare da quella
nostra, non s’invoca per nostalgie stataliste, ma per la necessità di
salvaguardare l’istituzione cinematografica nel suo complesso: dalla produzione
alla distribuzione e all’esercizio. Negli anni Sessanta il cinema italiano era
all’apice del successo anche commerciale grazie alla sua vivacità artistica e
alle regole imposte al mercato, eppure proprio allora diventarono più cospicui
anche gli incassi delle cinematografie straniere.
Mario Monicelli
Il cinema
negli anni del fascismo - che
Si parla
sempre solo, o quasi, di Cinecittà, la cui prima pietra fu messa nel 1937. Si
dimentica però spesso il contingentamento dei film americani. Il cinema è un’arte
minore, un’arte applicata all’industria. Con la loro capacità industriale, gli
Stati Uniti ci sguazzavano.
A porre
fine alla pacchia per le importazioni illimitate fu la legge italiana che
imponeva la produzione di un film italiano, se si volevano doppiare due film
americani. Il finanziamento del nostro cinema fruiva così degli incassi altrui.
Sento
sempre ironia e disprezzo per i “telefoni bianchi”, eppure è da quel genere che
quelli della mia generazione hanno imparato il mestiere. Non alludo solo ad
autori ed attori, ma anche ai tecnici. Si lavorava con molta cura, anche se con
senso d’inferiorità, sperando di non esser dileggiati dal pubblico, che
confrontava quel che facevamo noi con quello che veniva da Hollywood.
Si sono
così formati quadri, persone brave e modeste, che pensavano di non avere grandi
qualità, ma le avevano. Lo si è visto nel dopoguerra, quando hanno dovuto
combattere contro il cinema americano quasi a mani nude e hanno stupito il
mondo per quel che sapevano fare.
Non era
dunque solo una questione di talento - quello è di pochi - ma di
professionalità. Giravamo le scene in bar veri e in strade, magari ricostruite,
ma anche quelle vere, compiendo una rivoluzione strepitosa, facendo capire che
il cinema era anche verità. Di lì il neorealismo; di lì - in Francia - la Nouvelle vague.
Il regime
fascista ha molto aiutato il cinema. I produttori trovavano volentieri porte
aperte al Ministero della Cultura popolare, senza nemmeno sentirsi imporre
opere di propaganda fascista. Ne ricordo due sole, Camicia nera di Forzano e Vecchia
guardia di Blasetti. Gli altri film - come Squadrone bianco di Genina - erano patriottici, non fascisti, e non
sarebbero stati diversi in altri Paesi “antifascisti”.
Poi c’erano
commedie come Mille lire al mese di Max Neufeld, ebreo rifugiato in Italia
e messo a dirigere film per l’Asse! Questo raccontava di un ingegnere italiano
(Osvaldo Valenti) mandato a collaudare la neonata rete tv ungherese, che
prendeva a schiaffi il direttore della medesima e veniva salvato dalla
fidanzata (Alida Valli)...
Se non c’erano
imposizioni, c’erano proibizioni, ma solo per adulteri e suicidi, se la storia
era ambientata in Italia. Allora la si ambientava a Parigi o Budapest: il
quartiere Coppedè di Roma è stata
Che cosa
rimane di quell’epoca del nostro cinema? Ho scritto dei tecnici, che hanno
insegnato a lungo, perfino agli americani, come fare grande cinema: nel secondo
King Kong, quello del 1974, gli
effetti speciali sono di un italiano.
E’ andata
meno bene coi registi. Negli ultimi trent’anni le nuove generazioni sono state
schiacciate dai Visconti, Antonioni, Fellini, De Sica, Rossellini, Germi, poi
dai Bellocchio e dai Bertolucci. Infatti molti giovani si sono limitati a
imitarli, dandosi a un “cinema da festival” poco costoso ma anche meno
redditizio.
Non ci
può essere un cinema davvero “alto” senza un cinema presunto “basso”. E per
avere un’industria, occorrono Pieraccioni e Panariello, Vanzina e Parenti,
gente che agli imprenditori facciano correre rischi relativi. Una volta
acquisiti i registi “sicuri”, ci si può permettere quelli “insicuri”. Comunque,
se i geni non sono nati, i soldi non li inventano.
Dino Risi
Esito di
fronte al discorso storico sul cinema italiano, come quello che fa
Nel 1940
ho infatti cominciato la mia carriera da assistente alla regia di Soldati, che
girava Piccolo mondo antico con Alida
Valli - meno per cinefilia che per campare allegramente. Vivevo alla giornata,
non mettevo in pratica delle teorie. Era l’epoca in cui i “telefoni bianchi”
squillavano sempre meno, perché già si profilava il neorealismo. Più tardi io
sarei stato iscritto al “neorealismo rosa”, come lo chiamavano certi critici
per sfottere chi s’accontentava di fare cinema di consumo, anche se poi quei
film erano densi di riferimenti alla realtà politica: del resto non volevo
atteggiarmi a critico del “sistema”.
Agli
inizi della mia carriera, dunque, la vita del regista era comoda, ma con la tv,
poi, è successo quel che è successo. Però non penso che il cinema italiano sia
morto: caso mai è morto un modo di fare cinema e se ne farà un altro, in altro
modo. Vedo ancora del bel cinema italiano, per il quale c’è però poco spazio,
visto che quello americano presidia le sale. Capita spesso che i film italiani
possano uscire solo d’estate, che da noi, a differenza che negli Stati Uniti, è
una stagione infelice; quando escono d’inverno, certi film italiani (di
Parenti, di Pieraccioni) incassano ancora più di quelli americani.
Ciò per
Ormai le
sale cinematografiche restano solo nelle grandi città, dunque il cinema si vede
ancora, ma in modo diverso; e si fa ancora, ma in modo diverso. Il digitale lo
mette alla portata di tutti e ormai il regista è pari allo scrittore, cui
occorre per il suo romanzo solo carta e penna.
§
Valter Vecellio
Caro Direttore,
solo uno stolido ignorante e in malafede può
negare la grandezza raggiunto dal cinema italiano sotto il ventennio fascista;
a scanso di ogni possibile equivoco. Chi scrive non ha alcuna simpatia per quel
regime, con chi si dice suo erede, e a quella tradizione si richiama. Troppo
alto il prezzo pagato per far giungere i treni in orario, se mi consenti
Ho avuto modo di rendermene pienamente conto anni fa,
quando al Festival di Locarno, nell’ambito di una retrospettiva dedicata al
“Peplum all’italiana”, ebbi modo di vedere Scipione
l’Africano. Un film del 1937, diretto da Carmine Gallone, e interpretato da
Annibale Ninchi, Camillo Pilotto, Fosco Giachetti, Isa Miranda, Francesca
Bragiotti. Film superbo, impeccabile dal punto di vista tecnico: fantastiche le
scene di massa, realizzate senza effetti speciali, utilizzo di computer e di altre diavolerie
dell’oggi. Film dichiaratamente di “regime”, certo: con un Annibale che ha le
fattezze dell’etiope Menelik e un soldato romano che a un certo punto se ne
esce con: “Noi legionari, reduci della Spagna e ora combattenti in Africa”, e
via un profluvio di fasci littori… Del resto, Mussolini in persona commissionò
il film: che esalta il culto del Capo, e l’idea di coraggio e patriottismo. Ma
tutto questo non offusca o intacca minimamente la qualità del film, che è un
piccolo capolavoro, e certamente un classico.
Un altro piccolo capolavoro visto, sempre a Locarno, è: Inviati speciali di Romolo Marcellini,
interpretato da Nerio Bernardi, Onorato Bindoni, Mario Brizzolati, Otello
Cazzola. Un film del
Il cinema italiano, del resto, ha contratto un grosso
debito con Romano Mussolini. Paolo Pillitteri nel suo raccomandabile Il cinema tra fiction e falsità (Spirali
ed.), scrive: “Figlio del Duce, buon autore di soggetti e sceneggiature
cinematografiche, patron della rivista Cinema
nella quale si cimentavano i migliori critici del tempo (e vivaio di giovani
talentosi, da Antonioni a De Santis), protettore di autore e grande estimatore
del cinema americano con la cui industria voleva instaurare in prima persona
una collaborazione produttiva, poi abortita, anche per intervento di Luigi Freddi,
il potentissimo, fascistissimo ma intelligentissimo padrone della cinematografia italiana…”. Romano era amico e
protettore, tra gli altri, di Roberto Rossellini, che nel 1937 partecipò alla
sceneggiatura e alla realizzazione di un “classico” dell’epoca, quel Luciano Serra pilota (soggetto, per
inciso, di Romano Mussolini che si firmava Tito Silvio Mursino).
Indubbiamente Mussolini padre aveva benissimo compreso
che straordinario strumento di consenso poteva essere il cinema e in genere la
macchina da presa. Basterebbe, a documentarlo, la cura perfetta che dedicò in
occasione di un’intervista televisiva destinata al pubblico americano.
Intervista dove Mussolini parla in un inglese più che accettabile, lingua che
peraltro non conosceva e dunque aveva imparato a memoria le risposte. “La
cinematografia è l’arma più forte”, fece scrivere in occasione
dell’inaugurazione di Cinecittà. I dittatori questo lo avevano perfettamente
compreso, da Stalin a Hitler (che utilizzò a fondo le capacità artistiche della
regista Leni Riefenstahl, autrice peraltro del bellissimo Olympia). E’ “la
materializzazione dell’illusione, strumento artistico in grado “di adattare per
lo schermo, in maniera completamente sensibile, la dialettica dei dibattiti
ideologici in forma pura”, teorizzò Sergej M. Ejzenstejn. La si metta come si
vuole e si crede: ma ai “telefoni bianchi” (o “neri”) il cinema italiano deve
tutto o quasi.
§
M.C.
/ Il passaggio dal cinema dei telefoni bianchi a quello
dei telefonini neri non è stato incruento. Sull’assassinio di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti sono apparsi
vari libri, come quello di Odoardo Reggiani, Luisa Ferida - Osvaldo Valenti. Ascesa e caduta di due stelle del
cinema (Spirali, 2001). Ma le testimonianze di Valentina Cortese sulla loro
vita e di Gualtiero Jacopetti sulla loro morte sono inedite.
Valentina Cortese
Il
confine tra cinema e realtà talora è sottile. Fra chi ne ha fatto le spese in
Italia, il critico cinematografico
Ero
ancora una ragazzina quando ho conosciuto Luisa e Osvaldo. Nel 1941 del mio
esordio, girai diversi film. Dopo Il
bravo di Venezia di Carlo Campogalliani, con Rossano Brazzi, partecipai a La cena delle beffe di Alessandro
Blasetti, dove Valenti era il perfido Giannetto Malespini, che ingannava e
faceva impazzire Neri Chiaromontesi, interpretato da Amedeo Nazzari.
Sempre
nello stesso anno lavorai a Primo amore di
Gallone, ancora al fianco di Valenti. Rammento che Luisa veniva sempre a
trovarlo nel teatro di posa, durante le riprese: tanto lei era adorabile e
meravigliosa, tanto Osvaldo era affascinante e increbilmente colto. Avevo per
loro solo amore e ammirazione.
Così,
quando ho saputo che Luisa e Osvaldo erano stati uccisi a Milano alla fine dell’aprile
1945, perché accusati di essere dei torturatori di partigiani, sono stata non
solo addolorata, ma presa dal raccapriccio.
Infatti
non avevo e non ho mai - minimamente creduto alle accuse che venivano mosse
contro di loro. Sono stati solo vittime di momenti orrendi.
Gualtiero Jacopetti
Da
ragazzo avevo visto Osvaldo Valenti e Luisa Ferida quasi sempre coinvolti in
sofferte vicende amorose sullo schermo. Nella realtà - come ricorda sul Giornale di domenica scorsa
Della
Ferida nemmeno oggi so dire se fosse brava o no: mi piaceva troppo per badare a
come recitava; di Valenti invece pensavo che fosse un bravo attore. Infatti rammento
ancora il vile e tremendo Giannetto della Cena
delle beffe di Blasetti (1941), che rubava la scena al grande Nazzari.
Come
tutti i ragazzi fanatici di cinema, allora sognavo anch’io di’incontrare i miei
attori preferiti, un giorno o l’altro nella vita. Incontrai invece Valenti e la
Ferida il giorno della loro morte.
Avvenne
in una piovosa mattina di inizio maggio
I
cadaveri rinvenuti in periferia, nel corso della notte, erano stati ricomposti
alla meglio e allineati in attesa di identificazione, compito che spettava a
me, giovane ufficiale del controspionaggio alleato, alla ricerca di alcuni
personaggi scomparsi.
Anche
quel giorno non avevo trovato niente di compatibile con le mie foto
segnaletiche, tutte di maschi adulti. Quando stavo per andarmene, mi accorsi
però del corpo di una donna: braccia conserte a nascondere il seno nudo, un
piede senza scarpa, finita sotto la gonna che, pietosamente abbassata,
nascondeva lo sconcio. Accanto a lei, Luisa, c’era lui, Osvaldo, un occhio
divelto dall’orbita e posato sulla fronte.
§
M.C./ Cinema
italiano di ieri, cinema italiano di oggi: il dibatitto continua. Regista per
Totò, produttore per Fellini, Turi Vasile indica che il cuore antico (e gayo)
del neorealismo pulsava in pieno fascismo, poco dopo il Concordato, nel film Ragazzi di Perilli (1933). Figlio del
fondatore della Mostra di Venezia, Giovanni Volpi è lieto che grandi registi
infine prendano atto della crisi del nostro cinema: è il primo passo per porvi
rimedio. Sceneggiatore di Mediterraneo
(1991, premio Oscar) e regista di El
Alamein (2003), Enzo Monteleone dichiara la sua passione per i grandi fatti
della storia, quando altri registi di mezz’età si danno al genere detto “due
camere e cucina”. Patriota di sinistra - nel suo Tepepa (1968) il rivoluzionario Thomas Milian impugnava il
tricolore quando sconfiggeva il reazionario Orson Welles -, Giulio Petroni
evoca per contrasto il neorealismo mélo di
Giuseppe de Santis, col quale fece apprendistato. Ribelle prima che regista, ma
anche inquisitore prima che avvocato, Pasquale Squitieri fa una requisitoria
delle sue. Grande è il disordine sotto il cielo, quando si agitano idee.
Pasquale Squitieri
Il cinema
italiano nasce a Napoli e Torino. Più a Napoli che a Torino: Napoli aveva le
stimmate della fantasia, della scenografia naturale, del mito canoro, anche se
le pellicole erano ancora mute, ma sottolineate da un pianoforte; Torino era
l’industria, la spinta tecnologica. Napoli e Torino erano dunque la sintesi del
cinema: il sistema più costoso per raccontare una storia. Mussolini comprende
che è “l’arma più forte”, come ha ricordato
Il Duce
trasferisce tutto a Roma, fonda Cinecittà e impianta una vera e propria
industria cinematografica, vanto del regime e dell’opportunismo culturale. Si
producono centinaia di film, molti dei quali in lingua inglese. Quella che
Sartre definirà “la legione straniera della cultura”, si fionda su questo nuovo
linguaggio elementare, tecnico, completamente falso. Un linguaggio primordiale,
che avrebbe dovuto precedere di millenni la sintesi della pittura e la
monumentalità del bronzo o del marmo: il cinema è già nella colonna traiana o
nei geroglifici egizi, se non addirittura nei graffiti paleolitici, ma, per
motivi tecnici, compare solo millenni dopo. Il suo de profundis lo ha ben
recitato Antonioni nel recente Mosè.
Il
cinematografo crea poteri e arroganze incredibili. Produttori che si ergono ad
arbitri del destino di migliaia di aspiranti maschi e femmine; registi
improvvisati che arrivano sul set con
stivali e frustino; scrittorelli che, sulla scia di Liala, si atteggiano a
nuovi Hugo; proletari e proletarie camuffati da gladiatori o Messaline. Le
trame son sempre le stesse, scopiazzate dalle sceneggiate napoletane o da
barzellette da caserma. Tutto questo funziona. Si afferma il divismo, importato
dagli Usa. Ma il vero divo da noi è il Duce. Come Stalin in Russia; come Hitler
in Germania; come il pioniere bianco, uccisore di indiani, negli Stati Uniti.
Il cinema
stravolge tutto: la storia, l’antropologia, i linguaggi, le religioni, i
costumi, le leggi morali. Tutto è al servizio dell’happy-end. Tutto, bene o male, al servizio della propaganda. Un
buon esempio, sempre da noi, è quella sintesi di odio razziale, Su”ss l’ebreo di marca nazista, che ebbe
critiche entusiastiche sulle riviste specializzate. Ma il dollaro correva anche
allora. Il pubblico affolla le sale. Si identifica in Valentino o Grata Garbo.
Condivide le pene di Clark Gable al quarto divorzio e gli amori infelici di
Jean Harlow . Poi, le bombe di Hiroshima e Nagasaki, le immagini dei Lager mettono fine alla pagliacciata
immaginaria. Stavolta i fotogrammi non costruiscono un happy-end. Sembra esserci solo the
End.
E
arrivano i geni dell’immagine. Welles, Resnais, Vajda, Rossellini (con
l’immenso Germania anno zero),
Fellini, Antonioni, e poi Altman, Lumet, Rocha, Bellocchio, Wenders, Straub. Il
fotogramma acquista una potenza drammaturgica inquietante. La stagione è
magica, ma è una curva tendenziale destinata a spegnersi nell’indifferenza del
mercato. Mercato che reinventa
Enzo Montelone
Gli
articoli sul Giornale di Carlo
Lizzani, Mario Monicelli, Dino Risi hanno evocato soprattutto il cinema
italiano di ieri. L’articolo di Maurizio, Cabona che li originava, però
arrivava fino ai giorni nostri. Intervengo su quelli, perché mi sono avvicinato
al cinema in anni relativamente recenti, proprio quando Paolo Bertetto gli dedicava
un libro intitolato Il più brutto del
mondo!
Se il
cinema del regime fascista era stato megafono dell’epoca, era stato anche, a
tutti gli effetti, industria cinematografica. Fra quel periodo e quello in cui
ho cominciato a lavorare, quest’eredità - sfociata nel neorealismo, poi nella
commedia all’italiana - era approdata alla commediaccia all’italiana (Pierino contro tutti, ecc.).
Non solo.
Nel dopoguerra c’era stato un cinema italiano economicamente e tecnicamente non
diverso da quello americano e del resto del mondo. Nel 1975 ecco la svolta
epocale, che sintetizzo citando film ai poli estremi: a New York Taxi Driver di Scorsese, a Roma Il tassinaro di Sordi! La commedia
all’italiana - persa la spinta caustica, innovativa, dura, eppur
cinematografica - s’era ridotta a barzelletta. Nel 1977, ecco la seconda
svolta, con Guerre stellari di Lucas
e Incontri ravvicinati del terzo tipo di
Spielberg: gli americani cambiavano il cinema in un modo tale che gli altri non
potevano più seguirli.
La mia
generazione, che s’era dunque accostata al cinema in quel frangente, doveva
dunque inventarsi un cinema “fai da te”, con film come Notte italiana di Mazzacurati (1987) e Domani accadrà di Luchetti (1988), prodotti dalla Sacher di
Moretti. Sempre in quel periodo, scrivevo Marrakech
Express con Gabriele Salvatores, avendo come modello il film di Scola, Riusciranno i nostri eroi a ritrovare
l’amico misteriosamente scomparso in Africa? Poi abbiamo fatto Mediterraneo con due lire e con attori
per lo più semisconosciuti all’epoca, venendo da due film (Marrakech e Turné) che
non avevano incassato molto.
Nella
genealogia di Mediterraneo ci sono
una sceneggiatura non realizzata, quella dell’Armata s’agapò, e un film di successo, Tutti a casa. Stranamente, nessuno della mia generazione aveva
raccontato i grandi episodi della storia italiana. Ci si era concentrati
sull’oggi e dimenticato lo ieri. Certo, Avati aveva frequentato il passato, ma
quello delle piccole cose; faceva eccezione Scola, che però era di altra
generazione, con Una giornata particolare,
dove la visita di Hitler a Roma era vissuta attraverso la frenesia che coglieva
un condominio.
Fondamentale
nel cinema mondiale, il cinema bellico era stato dimenticato in Italia. Così
con El Alamein (2002) ho fatto -
anche da regista - un film di guerra esente dalle ingenuità sentimentali e
patriottiche che venavano i film degli anni Cinquanta su quella stessa
battaglia. Ero in controtendenza: i film a sfondo africano e bellico, come Scemo di guerra di Risi - tratto da Il deserto della Libia di Tobino, che
ora anche Monicelli vuol portare sullo schermo - e Tempo di uccidere di Montaldo, tratto dal romanzo di Flaiano, non
avevano incassato molto. El Alamein è
giunto a un milione e mezzo di euro ed è uscito in tutta Europa, ma le copie
per l’Italia erano solo oottanta; quelle di Eccezzziunale
veramente capitolo secondo... me di Vanzina sono oltre cinquecento.
Giulio Petroni
L’interpretazione del cinema italiano data da
Ho conosciuto dall’interno questa corrente del
cinema come collaboratore alla regia di
Giuseppe De Santis, detto Peppe, a Un
marito per Anna Zaccheo (1953). Peppe era visceralmente legato alla terra
di origine, alla sua estrazione paesana, al folklore della “civiltà contadina”.
Nelle riunioni conviviali si abbandonava al ruolo di capo-corista di canzoncine
rurali. Devo alla sua frequentazione la conoscenza di questi versi: “Ardamme lu fazzulettone / che t’aggio
portato da Frosinone…”.
De Santis non sfuggiva alle impostazioni ideologiche, ma
le temperava con la ciociara ispirazione, attingendo da certo cinema americano
e soprattutto dal mélo. Ciò dava al
suo neo-realismo un carattere spurio
per i soloni del realismo socialista.
Lo scultore Marino Mazzacurati appioppò a Peppe l’etichettta di maestro del realismo ciociarista.
Ho rivisto, dopo tanti anni, Un marito per Anna Zaccheo. Non avrei dovuto farlo. Silvana
Pampanini, è sdolcinata e lagnosa. Massimo Girotti è un improbabile
marinaretto. L’unico a suo agio era Amedeo Nazzari. Il dramma di De Santis come
autore fu di aver rifiutato il mutar dei tempi. Il “suo” mondo, in gran parte
fittizio, si andava sfaldando. Ancora giovane, Peppe era diventato un uomo
d’altri tempi. L’ultimo film con la sua inequivocabile impronta fu Uomini e lupi del 1956 e da lì iniziò la
sua caduta. Riuscì a mettere in piedi un altro paio di film, avvalendosi di una
mano protesa da oltre la “cortina di ferro”. Tra l’uno e l’altro diresse per un
produttore napoletano La garçonnière e
dovettero trascorrere dodici anni prima di Un
apprezzato professionista di sicuro avvenire. In questi due film De Santis
si cimentò con un mondo che, cinematograficamente, gli era estraneo: la
borghesia, decadente e corrotta. L’esito di queste ultime prove fu pénible. Il mito di De Santis si
frantumò con la stessa rapidità con la quale si era affermato.
Giovanni Volpi
Finalmente
si ammette che il cinema italiano marcia verso il cimitero. La conversione a U
di registi - salvo Dino Risi -
“impegnati” è una gradevole sorpresa e il merito di averla avviato è
dell’articolo di
Comincio
con quelllo di Douglas MacArthur che nel 1945 disse: “In Francia
collaborazionista è chi ha collaborato più di altri”. Poi viene quello di
Talleyrand, citato da Edgar Faure quando lo accusavano in parlamento di essere
una girandola: “Non è la girandola che si muove, è il vento che si sposta”.
Terza viene la battuta di Kim Philby morente, dopo i deludenti anni moscoviti:
“L’ex comunista non esiste. Dimenticate la parola ex”. Per tornare al cinema,
preferisco di gran lunga citare Jacqueline Bisset che, per prima se ne uscì con
questa frase poi molto ripetuta da altri: “Non sono né l’ala destra, né l’ala
sinistra; sono l’aeroplano.”.
Gli
incassi dei film con Christian De Sica e Boldi, o dei film dei Vanzina - meglio
i Vanzina, comunque - sono necessari, come dice Monicelli. Ma come mai chi oggi
compie la svolta a U, prima - durante i decenni dell’“impegno”, nei quali chi
non la pensava in un certo modo aveva
insormontabili difficoltà a lavorare nello spettacolo - non ha potuto
farci nulla?
Nessuno è
tenuto a essere in controtendenza. Ma segnalo che, quasi settant’anni fa, la
Mostra di Venezia - fondata dal conte Giuseppe Volpi, mio padre - nell’anno
XVII dell’era fascista metteva come film ‘apertura La grande illusione, film pacifista del filocomunista Jean Renoir,
e lo premiava.