Dopo aver recensito su “Il giornale” due recenti volumi dedicati al “ventennio in celluloide”, a Maurizio Cabona sono giunti in redazione diversi commenti e testimonianze. Pubblichiamo il tutto col consenso dell’autore.  

Maurizio Cabona

cineVentennio

Battuti dai film iraniani e cinesi negli incassi a Parigi, i residui film italiani filtrano dai confini come bagliori d’un tramonto. Ma perdere mollemente ciò che s’era conquistato duramente fa almeno capire quanto ciò fosse prezioso e così fioccano le rivalutazioni. C’è stata quella del cinema “di genere” - anche del più corrivo - degli anni Settanta, alla quale s’è dedicata la Mostra di Venezia nel 2004; nel 2006 ci sarà il convegno alla Cineteca nazionale di Roma, dedicato agli anni Trenta e Quaranta. Intanto molti film di allora tornano disponibili nei dvd della Rhv: da ultimi i classici di Camerini, fra i quali Gli uomini, che mascalzoni e Il signor Max, entrambi con De Sica sr., e quelli di Bonnard, come Avanti c’è posto e Campo dei Fiori, entrambi con Fabrizi. Perfino le  colonne sonore più suggestive echeggiano - accompagnati da fascinosi fruscii - nei cd della ViViMusica.

Stagionale, perciò normale rivisitazione? Sì, ora però c’è anche reinterpretazione. La fa la saggistica, evocando ora con rispetto un’era irrisa nell’interminabile dopoguerra. Recentemente è venuta anche la sanzione di Monicelli, che negli anni Trenta cominciava la carriera e ormai li definisce “il periodo migliore del nostro cinema” (Il Giornale, 22 novembre 2004; Corriere della Sera, 4 marzo 2005). Se presto è venuta il memoriale definitivo, Il cinema di Luigi Freddi (riedito da Gremese nel 1994) , resta da scrivere il saggio definitivo. Il cinema fra le due guerre attende ancora il suo De Felice.

Intanto Alberto Rosselli e Bruno Pampaloni offrono un corretto, distaccato, lucido quadro d’insieme, Il ventennio in celluloide (Settimo Sigillo, pagg. 234, euro 22), della sua dimensione mediatico-politica; Natalia Marino ed Emanuele Valerio Marino, con L’Ovra a Cinecittà (Bollati Boringhieri, pagg. 327, euro 32), raccontano i risvolti polizieschi del divismo. Infatti una grande industria cinematografica ha funzioni e strascichi di ogni tipo. S’è parlato di fabbrica del consenso, ma orientare il pubblico (“Il cinema è l’arma più forte”, proclamava Mussolini mettendo la prima pietra di Cinecittà) era meno ambito che svagarlo. E si capisce, con gli effetti della Grande depressione. E poi, col Duce dal balcone, il Divo dello schermo a un’italiana mancava meno che a un’americana.

Nelle opere di Rosselli e Pampaloni e di Marino e Marino il più interessante è il non-detto, perchè i loro saggi partono dal tacito presupposto dell’eccezionalità del periodo (totalitarismo, guerre internazionali, guerra civile) - fin qui nulla di nuovo - e giungono alla più o meno esplicita conclusione che il cinema di allora rispecchiava eminentemente il passaggio dalla comunità alla società: i valori rurali cedevano ai prezzi urbani; la famiglia tradizionale alla famiglia nucleare; i costumi cattolico-borghesi alle ipocrisie borghesi-cattoliche, invano contrastate dalle aspirazioni eroiche di alcuni intellettuali.

Formatisi in epoca fascista, Fellini (allora umorista del Marc’Aurelio e sceneggiatore) e Antonioni (allora critico del Corriere padano, quotidiano di Balbo) in epoca democristiana sarebbero stati cantori della svolta, talora compiaciuti, talora desolati; De Santis e Lizzani (allora critici del settimanale cinematografico di Vittorio Mussolini) avrebbero colto invece subito, col cadavere del fascismo che si muoveva ancora, i rischi della metamorfosi: già i loro primi film, oltre mezzo secolo fa, erano all’insegna del “Quest’Italia non ci piace!”. Emuli di Prezzolini? Neoluddisti? Spartachisti spartani? Professionisti dell’antibenessere? In realtà sensibili, prima di Pasolini, che il culmine dell’ascesa della loro industria culturale annunciava il declino nazionale. Calava la tensione sociale, ed era una necessità, ma con essa calavano la tensione politica e quella morale. Più realisti, altri cineasti - conservatori come Steno e Risi, mobilitatori come Lattuada e Monicelli - prendevano l’Italia come veniva. E comunque era ancora una signora Italia quella di Togliatti e Andreotti, Mattei e Mattioli.

Occorre un’angolazione antropologica, non una aneddotica, per riesaminare il cinema di ieri e rianimare quello di oggi. Essi hanno abbastanza in comune nella loro fine, stabilita dal loro inizio nella fase del sonoro, venendo l’uno come l’altro da un Paese troppo debole per imporre la sua lingua al mondo e troppo forte per farsene imporre un’altra. Lo stratagemma del doppiaggio, che ha tanto favorito Hollywood, è diventato un baluardo contro l’anglofonia.

Si beffava il cinema di ieri per i telefoni bianchi; si beffa quello di oggi per i telefonini neri. Ieri nei film mancava la rabbia (neorealismo rosa)? Oggi nei film c’è la rassegnazione dei pasoliniani. E i tavianei - nel senso dei fratelli - si sono ridotti a morettini. Dunque nel 2066 ci saranno autori che si chineranno su questo cinema italiano del 2006 e che, come Rosselli e Pampaloni, lo racconteranno come autobiografia della nazione? O che, come i Marino, dedurranno dai rapporti del Sisde o della Dia, trovati in qualche faldone, che nel 2006 aleggiava sulla nazione un clima delatorio?

Infatti, se Rosselli e Pampaloni privilegiano la panoramica e il contesto socio-storico sull’estetica e sull’economia (incassi), terreno per un’ulteriore ricerca, Marino e Marino si tuffano nel sottobosco dei pettegolezzi sulla Abba e sulla Ferida (per dire due nomi) senza correlare - neppure nelle note o in appendice - carriere e traversie, dando per scontato che sappia farlo il lettore; inoltre non spiegano mai che sempre e ovunque le polizie controllano le cinematografie e, in generale, le celebrità: solite a frequentazioni importanti, al denaro facile, alle trasgressioni, ai viaggi, sono ideale terreno di cultura per delinquenza organizzata e spie, come ricorda anche il film Confessioni di una mente pericolosa di George Clooney (2002). Quanto all’infiltrazione dell’Fbi a Hollywood, ha offerto casi atroci, dalla “caccia alle streghe” ai suicidi indotti di Marilyn Monroe (troppo legata al presidente John Kennedy e a suo fratello Robert, ministro della Giustizia) e Jean Seberg (troppo legata a un capo delle “Pantere nere”). In fondo, da noi si sono fatti veramente male solo la Ferida e Valenti, oltre a Marcuzzo della viscontiana Ossessione. E nessuno di loro per mano poliziesca.        

 

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M.C./ Il cinema italiano - fra i maggiori al mondo col muto - col sonoro subì una grave crisi, perché l’italiano non era lingua da esportazione. Hollywood riusciva a imporre il doppiaggio e così a conquistare - autarchia o no - maggiori aree di mercato anche in Italia. Alla rivoluzione tecnica si aggiunse la depressione economica, originata dal crollo di Wall Street, che sembrò annunciare l’eclisse, se non il tramonto del capitalismo. Ancora largamente agricola, l’Italia la superò con meno danni che la Germania, ricorrendo a un dirigismo che assimilò il fascismo a un “bolscevismo depotenziato”. Il forte intervento statale in Italia sarà però anche il modello del New Deal rooseveltiano e si concretizzerà, per il cinema, con la costituzione dell’Istituto Luce, del circuito produttivo-distributivo pubblico dell’Enic, con la fondazione del Centro sperimentale di cinematografia e infine di Cinecittà.

A questa rinascita e ai suoi risvolti talora desolanti sono dedicati due recenti libri (Rosselli e Pampaloni, Il ventennio in celluloide, Settimo sigillo; Marino e Marino, L’Ovra a Cinecittà, Bollati Boringhieri) di cui Il Giornale ha scritto ieri, rilevando che cosa resti, oltre sessant’anni dopo, di quella lezione. Il sistema di sovvenzioni, per esempio, consentì di formare nuove generazioni di cineasti, grazie ai quali già nel 1941 il nostro cinema diventava quello di un Paese avanzato, capace di riflettere la realtà, con una borghesia non più da operetta, con donne non più “o sante o puttane”, con una guerra rappresentata più sinceramente di quanto facesse Hollywood, una guerra dove nemmeno le vittorie consolavano del loro prezzo.

L’antropologia dell’italiano trovava infine uno specchio. Fra il 1942 e il 1943 si delineava dunque già quello che sarà il cinema del dopoguerra, che farà incetta di Oscar, di Palme e anche di Leoni d’oro, sebbene il fair play volesse che ogni cinematografia vincesse i suoi premi in trasferta. Oggi alcune di queste realtà sono solo ricordi: gli alti incassi nel mondo sono diventati modesti e altalenanti e solo in Italia, mentre l’industria del cinema è ridotta ad artigianato del cinema, salvo i lavori su commissione che hanno reso Cinecittà - ancora una volta - la Hollywood sul Tevere. Sul tema intervengono ora Carlo Lizzani, Mario Monicelli e Dino Risi.

 

Carlo Lizzani

E’ giusto - come ha fatto Maurizio Cabona nell’articolo di ieri sul Giornale, originato dai saggi di Rosselli e Pampaloni (Il ventennio in celluloide, Settimo Sigillo) e dei due Marino (L’Ovra a Cinecittà, Bollati Boringhieri) - rivolgere talora lo sguardo al passato per capire il presente. Sul cinema italiano del periodo fascista la critica più avveduta torna periodicamente - da decenni - con un tipo di giudizio sempre complesso e problematico: bocciatura dei film dei “telefoni bianchi”, di pura evasione, ed esortazione al cinema d’impegno furono del resto già bandiere della rivista di Vittorio Mussolini, Cinema.

Nelle sei edizioni della mia Storia del cinema italiano, apparse fra il 1953 e il 1982, ho sempre messo in rilievo - alla maniera di De Felice, come auspica Cabona? - l’importanza del cinema di Camerini, Blasetti e Franciolini. E fin dalla loro apparizione ho apprezzato l’opera di nuovi talenti, come Lattuada, Castellani e Poggioli, all’interno di una battagia critica orientata sul richiamo all’opera di Verga. Definii “formalisti” quei talenti per la loro attenzione a una letteratura che ritenevo lontana dalle nostre battaglie, ma li consideravo già protagonisti di un cinema lontano dai “telefoni bianchi”. E, sempre in quegli anni, apprezzai anche autori, pur coinvolti in certi film di propaganda, come Alessandrini e De Robertiis per la loro grande professionalità.

Rivisitazioni (libri, convegni, ecc.) sono sempre opportune, se non scoprono l’acqua calda. La critica radicale del fascismo ha infatti sempre messo in luce la coesistenza nel regime di spinte modernizzatrici (radio, architettura, Enciclopedia Treccani, Centro sperimentale di cinematografia, Cinecittà, ecc.) con mitologie ottocentesche, destinate al fallimento (nazionalismo, impero, corporazione, ritorno alla terra). Però paragoni col passato sono sempre difficili.

Per confontare cinema di ieri e di oggi, occorre rammentare la perdita della centralità del cinema stesso, nel campo del tempo libero. Negli anni Quaranta e Cinquanta si vendevano ancora mediamente ogni anno circa ottocento milioni di biglietti; oggi se ne vendono cento. Del resto il cinema non gode più di buona salute nemmeno a Hollywood. A renderne più difficile la situazione in Italia è la mancanza di un gioco di squadra.

I momenti di maggiore salute del nostro cinema sono stati quelli dell’impegno statale nel periodo fascista, aiutato però dopo il 1938 dall’esclusione illiberale dal mercato proprio del cinema hollywoodiano; poi quelli del periodo neorealista, in cui autori - pur ispirati da poetiche diverse - si trovarono uniti dalla voglia di scoprire le pieghe più nascoste del nostro Paese e delle nostre anime (Antonioni e Fellini); infine l’ondata genericamente definita della commedia all’italiana, che vide una trasversalità in molti film di molti autori, attori, tecnici, ecc.

Oggi - l’ho scritto spesso in questi ultimi anni - non mancano i talenti, ma non c’è una battaglia di tendenza ad accomunarli, rendendo riconoscibile l’identità del cinema italiano.

Ma è anche vero che gruppi, tendenze, battaglie di correnti prendono forma se al cinema è garantita una minima possibilità di sopravvivenza. Intanto occorre la sopravvivenza della memoria storica. La sala cinematografica è in declino, è vero, ma la tv ancora si nutre di cinema; dove sono finite però le regole che dovevano presiedere a un’equa presenza del cinema italiano nella progammazioni tv? E poi occorre la sopravvivenza delle iniziative produttive.

La prima regola per giungere a una vivacità del mercato è proprio la varietà delle offerte. La presenza nelle sale di molteplici offerte, a cominciare da quella nostra, non s’invoca per nostalgie stataliste, ma per la necessità di salvaguardare l’istituzione cinematografica nel suo complesso: dalla produzione alla distribuzione e all’esercizio. Negli anni Sessanta il cinema italiano era all’apice del successo anche commerciale grazie alla sua vivacità artistica e alle regole imposte al mercato, eppure proprio allora diventarono più cospicui anche gli incassi delle cinematografie straniere.    

 

Mario Monicelli

Il cinema negli anni del fascismo - che Maurizio Cabona ha ieri delineato sul Giornale - era una cosa seria, autentica nel costruire la finzione, nel raccontare storie per le quali il regime dava un supporto più serio paragonato a quello che offriva alla letteratura, all’esercito, alla diplomazia.

Si parla sempre solo, o quasi, di Cinecittà, la cui prima pietra fu messa nel 1937. Si dimentica però spesso il contingentamento dei film americani. Il cinema è un’arte minore, un’arte applicata all’industria. Con la loro capacità industriale, gli Stati Uniti ci sguazzavano.

A porre fine alla pacchia per le importazioni illimitate fu la legge italiana che imponeva la produzione di un film italiano, se si volevano doppiare due film americani. Il finanziamento del nostro cinema fruiva così degli incassi altrui.

Sento sempre ironia e disprezzo per i “telefoni bianchi”, eppure è da quel genere che quelli della mia generazione hanno imparato il mestiere. Non alludo solo ad autori ed attori, ma anche ai tecnici. Si lavorava con molta cura, anche se con senso d’inferiorità, sperando di non esser dileggiati dal pubblico, che confrontava quel che facevamo noi con quello che veniva da Hollywood.

Si sono così formati quadri, persone brave e modeste, che pensavano di non avere grandi qualità, ma le avevano. Lo si è visto nel dopoguerra, quando hanno dovuto combattere contro il cinema americano quasi a mani nude e hanno stupito il mondo per quel che sapevano fare.

Non era dunque solo una questione di talento - quello è di pochi - ma di professionalità. Giravamo le scene in bar veri e in strade, magari ricostruite, ma anche quelle vere, compiendo una rivoluzione strepitosa, facendo capire che il cinema era anche verità. Di lì il neorealismo; di lì - in Francia - la Nouvelle vague.

Il regime fascista ha molto aiutato il cinema. I produttori trovavano volentieri porte aperte al Ministero della Cultura popolare, senza nemmeno sentirsi imporre opere di propaganda fascista. Ne ricordo due sole, Camicia nera di Forzano e Vecchia guardia di Blasetti. Gli altri film - come Squadrone bianco di Genina - erano patriottici, non fascisti, e non sarebbero stati diversi in altri Paesi “antifascisti”.

Poi c’erano commedie come Mille lire al mese di Max Neufeld, ebreo rifugiato in Italia e messo a dirigere film per l’Asse! Questo raccontava di un ingegnere italiano (Osvaldo Valenti) mandato a collaudare la neonata rete tv ungherese, che prendeva a schiaffi il direttore della medesima e veniva salvato dalla fidanzata (Alida Valli)...

Se non c’erano imposizioni, c’erano proibizioni, ma solo per adulteri e suicidi, se la storia era ambientata in Italia. Allora la si ambientava a Parigi o Budapest: il quartiere Coppedè di Roma è stata la “Budapest” del nostro cinema, con personaggi che avevano nomi presi dall’elenco telefonico della capitale ungherese, ma erano interpretati da attori italiani.

Che cosa rimane di quell’epoca del nostro cinema? Ho scritto dei tecnici, che hanno insegnato a lungo, perfino agli americani, come fare grande cinema: nel secondo King Kong, quello del 1974, gli effetti speciali sono di un italiano.

E’ andata meno bene coi registi. Negli ultimi trent’anni le nuove generazioni sono state schiacciate dai Visconti, Antonioni, Fellini, De Sica, Rossellini, Germi, poi dai Bellocchio e dai Bertolucci. Infatti molti giovani si sono limitati a imitarli, dandosi a un “cinema da festival” poco costoso ma anche meno redditizio.

Non ci può essere un cinema davvero “alto” senza un cinema presunto “basso”. E per avere un’industria, occorrono Pieraccioni e Panariello, Vanzina e Parenti, gente che agli imprenditori facciano correre rischi relativi. Una volta acquisiti i registi “sicuri”, ci si può permettere quelli “insicuri”. Comunque, se i geni non sono nati, i soldi non li inventano.

 

Dino Risi

Esito di fronte al discorso storico sul cinema italiano, come quello che fa Maurizio Cabona sul Giornale di ieri, traendo lo spunto da libri che esaminano il cinema di ieri (dei “telefoni bianchi”) per riflettere sul cinema di oggi (dei “telefonini neri”).

Nel 1940 ho infatti cominciato la mia carriera da assistente alla regia di Soldati, che girava Piccolo mondo antico con Alida Valli - meno per cinefilia che per campare allegramente. Vivevo alla giornata, non mettevo in pratica delle teorie. Era l’epoca in cui i “telefoni bianchi” squillavano sempre meno, perché già si profilava il neorealismo. Più tardi io sarei stato iscritto al “neorealismo rosa”, come lo chiamavano certi critici per sfottere chi s’accontentava di fare cinema di consumo, anche se poi quei film erano densi di riferimenti alla realtà politica: del resto non volevo atteggiarmi a critico del “sistema”.

Agli inizi della mia carriera, dunque, la vita del regista era comoda, ma con la tv, poi, è successo quel che è successo. Però non penso che il cinema italiano sia morto: caso mai è morto un modo di fare cinema e se ne farà un altro, in altro modo. Vedo ancora del bel cinema italiano, per il quale c’è però poco spazio, visto che quello americano presidia le sale. Capita spesso che i film italiani possano uscire solo d’estate, che da noi, a differenza che negli Stati Uniti, è una stagione infelice; quando escono d’inverno, certi film italiani (di Parenti, di Pieraccioni) incassano ancora più di quelli americani.

Ciò per la quantità. Ma c’è anche qualità. Cito i primi film che mi vengono in mente: Muccino con L’ultimo bacio e Ricordati di me; Garrone con L’imbalsamatore; Virzì con Caterina va in città, Avati con La seconda notte di nozze; Placido con Romanzo criminale; Soldini con Pane e tulipani. Se fossero usciti venti o trent’anni fa, avrebbero il loro posto nella piccola storia del cinema italiano. Perché la rivalutazione dei miei primi film - ma anche di quelli di Monicelli, Rossellini, De Sica - è stata del resto un’onda di ritorno dalla Francia: la critica transalpina ha aperto gli occhi a quella italiana.

Ormai le sale cinematografiche restano solo nelle grandi città, dunque il cinema si vede ancora, ma in modo diverso; e si fa ancora, ma in modo diverso. Il digitale lo mette alla portata di tutti e ormai il regista è pari allo scrittore, cui occorre per il suo romanzo solo carta e penna.

 

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Valter Vecellio

Caro Direttore,

solo uno stolido ignorante e in malafede può negare la grandezza raggiunto dal cinema italiano sotto il ventennio fascista; a scanso di ogni possibile equivoco. Chi scrive non ha alcuna simpatia per quel regime, con chi si dice suo erede, e a quella tradizione si richiama. Troppo alto il prezzo pagato per far giungere i treni in orario, se mi consenti la battuta. Ma ha ragione da vendere Maurizio Cabona quando ha sottolinea sul Giornale il grande debito che il Cinema deve a “quel” Cinema.

Ho avuto modo di rendermene pienamente conto anni fa, quando al Festival di Locarno, nell’ambito di una retrospettiva dedicata al “Peplum all’italiana”, ebbi modo di vedere Scipione l’Africano. Un film del 1937, diretto da Carmine Gallone, e interpretato da Annibale Ninchi, Camillo Pilotto, Fosco Giachetti, Isa Miranda, Francesca Bragiotti. Film superbo, impeccabile dal punto di vista tecnico: fantastiche le scene di massa, realizzate senza effetti speciali, utilizzo di computer e di altre diavolerie dell’oggi. Film dichiaratamente di “regime”, certo: con un Annibale che ha le fattezze dell’etiope Menelik e un soldato romano che a un certo punto se ne esce con: “Noi legionari, reduci della Spagna e ora combattenti in Africa”, e via un profluvio di fasci littori… Del resto, Mussolini in persona commissionò il film: che esalta il culto del Capo, e l’idea di coraggio e patriottismo. Ma tutto questo non offusca o intacca minimamente la qualità del film, che è un piccolo capolavoro, e certamente un classico.

Un altro piccolo capolavoro visto, sempre a Locarno, è: Inviati speciali di Romolo Marcellini, interpretato da Nerio Bernardi, Onorato Bindoni, Mario Brizzolati, Otello Cazzola. Un film del 1943, in piena guerra; eppure è straordinario come l’industria cinematografica italiana pure in quei giorni duri e faticosi sapesse realizzare opere di quel calibro. La sceneggiatura porta le firme di Giuseppe Castelletti, Alberto Consiglio, Ennio Flaiano, Asvero Gravelli e Virgilio Lilli. La storia è ambientata nel 1936, un gruppo di giornalisti che “racconta” la guerra civile. Anche questo un film di “regime”: il giornalista italiano s’innamora di una collega americana, che si rivela essere una spia al soldo dei comunisti sovietici. Un film, se si vuole, ingenuo nel descrivere l’ambiente dei corrispondenti di guerra, che fa ampie concessioni più all’idea che ci si poteva fare del giornalista, che della realtà effettuale.  Però, anche qui: considerati i tempi, e i mezzi a disposizione che non dovevano essere tanti, che bel film! Tecnicamente impeccabile, e non privo di sfaccettature che non lo fanno completamente “di regime”.

Il cinema italiano, del resto, ha contratto un grosso debito con Romano Mussolini. Paolo Pillitteri nel suo raccomandabile Il cinema tra fiction e falsità (Spirali ed.), scrive: “Figlio del Duce, buon autore di soggetti e sceneggiature cinematografiche, patron della rivista Cinema nella quale si cimentavano i migliori critici del tempo (e vivaio di giovani talentosi, da Antonioni a De Santis), protettore di autore e grande estimatore del cinema americano con la cui industria voleva instaurare in prima persona una collaborazione produttiva, poi abortita, anche per intervento di Luigi Freddi, il potentissimo, fascistissimo ma intelligentissimo padrone della cinematografia italiana…”. Romano era amico e protettore, tra gli altri, di Roberto Rossellini, che nel 1937 partecipò alla sceneggiatura e alla realizzazione di un “classico” dell’epoca, quel Luciano Serra pilota (soggetto, per inciso, di Romano Mussolini che si firmava Tito Silvio Mursino).    

Indubbiamente Mussolini padre aveva benissimo compreso che straordinario strumento di consenso poteva essere il cinema e in genere la macchina da presa. Basterebbe, a documentarlo, la cura perfetta che dedicò in occasione di un’intervista televisiva destinata al pubblico americano. Intervista dove Mussolini parla in un inglese più che accettabile, lingua che peraltro non conosceva e dunque aveva imparato a memoria le risposte. “La cinematografia è l’arma più forte”, fece scrivere in occasione dell’inaugurazione di Cinecittà. I dittatori questo lo avevano perfettamente compreso, da Stalin a Hitler (che utilizzò a fondo le capacità artistiche della regista Leni Riefenstahl, autrice peraltro del bellissimo Olympia).  E’ “la materializzazione dell’illusione, strumento artistico in grado “di adattare per lo schermo, in maniera completamente sensibile, la dialettica dei dibattiti ideologici in forma pura”, teorizzò Sergej M. Ejzenstejn. La si metta come si vuole e si crede: ma ai “telefoni bianchi” (o “neri”) il cinema italiano deve tutto o quasi.

 

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M.C. / Il passaggio dal cinema dei telefoni bianchi a quello dei telefonini neri non è stato incruento. Sull’assassinio di  Luisa Ferida e Osvaldo Valenti sono apparsi vari libri, come quello di Odoardo Reggiani, Luisa Ferida - Osvaldo Valenti. Ascesa e caduta di due stelle del cinema (Spirali, 2001). Ma le testimonianze di Valentina Cortese sulla loro vita e di Gualtiero Jacopetti sulla loro morte sono inedite.

 

Valentina Cortese

Il confine tra cinema e realtà talora è sottile. Fra chi ne ha fatto le spese in Italia, il critico cinematografico Maurizio Cabona citava domenica scorsa sul Giornale casi atroci: quello dai più dimenticato di Elio Marcuzzo, comprimario in Ossessione di Luchino Visconti (1942); e quello noto di una coppia notissima, Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. Infatti Osvaldo era così bravo, recitando da cattivo, che qualcuno credette che cattivo fosse sul serio.

Ero ancora una ragazzina quando ho conosciuto Luisa e Osvaldo. Nel 1941 del mio esordio, girai diversi film. Dopo Il bravo di Venezia di Carlo Campogalliani, con Rossano Brazzi, partecipai a La cena delle beffe di Alessandro Blasetti, dove Valenti era il perfido Giannetto Malespini, che ingannava e faceva impazzire Neri Chiaromontesi, interpretato da Amedeo Nazzari.

Sempre nello stesso anno lavorai a Primo amore di Gallone, ancora al fianco di Valenti. Rammento che Luisa veniva sempre a trovarlo nel teatro di posa, durante le riprese: tanto lei era adorabile e meravigliosa, tanto Osvaldo era affascinante e increbilmente colto. Avevo per loro solo amore e ammirazione.

Così, quando ho saputo che Luisa e Osvaldo erano stati uccisi a Milano alla fine dell’aprile 1945, perché accusati di essere dei torturatori di partigiani, sono stata non solo addolorata, ma presa dal raccapriccio.

Infatti non avevo e non ho mai - minimamente creduto alle accuse che venivano mosse contro di loro. Sono stati solo vittime di momenti orrendi.

 

Gualtiero Jacopetti

Da ragazzo avevo visto Osvaldo Valenti e Luisa Ferida quasi sempre coinvolti in sofferte vicende amorose sullo schermo. Nella realtà - come ricorda sul Giornale di domenica scorsa Maurizio Cabona - essi hanno poi pagato con la vita il fatto d’essere stati divi in epoca fascista.

Della Ferida nemmeno oggi so dire se fosse brava o no: mi piaceva troppo per badare a come recitava; di Valenti invece pensavo che fosse un bravo attore. Infatti rammento ancora il vile e tremendo Giannetto della Cena delle beffe di Blasetti (1941), che rubava la scena al grande Nazzari.

Come tutti i ragazzi fanatici di cinema, allora sognavo anch’io di’incontrare i miei attori preferiti, un giorno o l’altro nella vita. Incontrai invece Valenti e la Ferida il giorno della loro morte.

Avvenne in una piovosa mattina di inizio maggio 1945, a Milano, cimitero del Musocco.

I cadaveri rinvenuti in periferia, nel corso della notte, erano stati ricomposti alla meglio e allineati in attesa di identificazione, compito che spettava a me, giovane ufficiale del controspionaggio alleato, alla ricerca di alcuni personaggi scomparsi.

Anche quel giorno non avevo trovato niente di compatibile con le mie foto segnaletiche, tutte di maschi adulti. Quando stavo per andarmene, mi accorsi però del corpo di una donna: braccia conserte a nascondere il seno nudo, un piede senza scarpa, finita sotto la gonna che, pietosamente abbassata, nascondeva lo sconcio. Accanto a lei, Luisa, c’era lui, Osvaldo, un occhio divelto dall’orbita e posato sulla fronte.

 

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M.C./ Cinema italiano di ieri, cinema italiano di oggi: il dibatitto continua. Regista per Totò, produttore per Fellini, Turi Vasile indica che il cuore antico (e gayo) del neorealismo pulsava in pieno fascismo, poco dopo il Concordato, nel film Ragazzi di Perilli (1933). Figlio del fondatore della Mostra di Venezia, Giovanni Volpi è lieto che grandi registi infine prendano atto della crisi del nostro cinema: è il primo passo per porvi rimedio. Sceneggiatore di Mediterraneo (1991, premio Oscar) e regista di El Alamein (2003), Enzo Monteleone dichiara la sua passione per i grandi fatti della storia, quando altri registi di mezz’età si danno al genere detto “due camere e cucina”. Patriota di sinistra - nel suo Tepepa (1968) il rivoluzionario Thomas Milian impugnava il tricolore quando sconfiggeva il reazionario Orson Welles -, Giulio Petroni evoca per contrasto il neorealismo mélo di Giuseppe de Santis, col quale fece apprendistato. Ribelle prima che regista, ma anche inquisitore prima che avvocato, Pasquale Squitieri fa una requisitoria delle sue. Grande è il disordine sotto il cielo, quando si agitano idee.     

 

Pasquale Squitieri

Il cinema italiano nasce a Napoli e Torino. Più a Napoli che a Torino: Napoli aveva le stimmate della fantasia, della scenografia naturale, del mito canoro, anche se le pellicole erano ancora mute, ma sottolineate da un pianoforte; Torino era l’industria, la spinta tecnologica. Napoli e Torino erano dunque la sintesi del cinema: il sistema più costoso per raccontare una storia. Mussolini comprende che è “l’arma più forte”, come ha ricordato Maurizio Cabona sul Giornale dell’altroieri e ieri hanno ribadito Carlo Lizzani e Mario Monicelli.

Il Duce trasferisce tutto a Roma, fonda Cinecittà e impianta una vera e propria industria cinematografica, vanto del regime e dell’opportunismo culturale. Si producono centinaia di film, molti dei quali in lingua inglese. Quella che Sartre definirà “la legione straniera della cultura”, si fionda su questo nuovo linguaggio elementare, tecnico, completamente falso. Un linguaggio primordiale, che avrebbe dovuto precedere di millenni la sintesi della pittura e la monumentalità del bronzo o del marmo: il cinema è già nella colonna traiana o nei geroglifici egizi, se non addirittura nei graffiti paleolitici, ma, per motivi tecnici, compare solo millenni dopo. Il suo de profundis lo ha ben recitato Antonioni nel recente Mosè.

Il cinematografo crea poteri e arroganze incredibili. Produttori che si ergono ad arbitri del destino di migliaia di aspiranti maschi e femmine; registi improvvisati che arrivano sul set con stivali e frustino; scrittorelli che, sulla scia di Liala, si atteggiano a nuovi Hugo; proletari e proletarie camuffati da gladiatori o Messaline. Le trame son sempre le stesse, scopiazzate dalle sceneggiate napoletane o da barzellette da caserma. Tutto questo funziona. Si afferma il divismo, importato dagli Usa. Ma il vero divo da noi è il Duce. Come Stalin in Russia; come Hitler in Germania; come il pioniere bianco, uccisore di indiani, negli Stati Uniti.

Il cinema stravolge tutto: la storia, l’antropologia, i linguaggi, le religioni, i costumi, le leggi morali. Tutto è al servizio dell’happy-end. Tutto, bene o male, al servizio della propaganda. Un buon esempio, sempre da noi, è quella sintesi di odio razziale, Su”ss l’ebreo di marca nazista, che ebbe critiche entusiastiche sulle riviste specializzate. Ma il dollaro correva anche allora. Il pubblico affolla le sale. Si identifica in Valentino o Grata Garbo. Condivide le pene di Clark Gable al quarto divorzio e gli amori infelici di Jean Harlow . Poi, le bombe di Hiroshima e Nagasaki, le immagini dei Lager mettono fine alla pagliacciata immaginaria. Stavolta i fotogrammi non costruiscono un happy-end. Sembra esserci solo the End.

E arrivano i geni dell’immagine. Welles, Resnais, Vajda, Rossellini (con l’immenso Germania anno zero), Fellini, Antonioni, e poi Altman, Lumet, Rocha, Bellocchio, Wenders, Straub. Il fotogramma acquista una potenza drammaturgica inquietante. La stagione è magica, ma è una curva tendenziale destinata a spegnersi nell’indifferenza del mercato. Mercato che reinventa la tv. E allora eccoci tornare a Ridolini e alle ansie per gli amori infelici della Ferilli. Qualche film resiste alla bufera, ma il Cinema è morto. Non è sepolta però la voglia di raccontare per immagini. Non più con pellicole e divi, ma tornando all’arte antica del dipinto. Un’arte che le meraviglie della tecnologià mettono a disposizione di tutti: il digitale. Viva il Cinema dunque, quello nuovo.

                                                                                                       

Enzo Montelone

Gli articoli sul Giornale di Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Dino Risi hanno evocato soprattutto il cinema italiano di ieri. L’articolo di Maurizio, Cabona che li originava, però arrivava fino ai giorni nostri. Intervengo su quelli, perché mi sono avvicinato al cinema in anni relativamente recenti, proprio quando Paolo Bertetto gli dedicava un libro intitolato Il più brutto del mondo!

Se il cinema del regime fascista era stato megafono dell’epoca, era stato anche, a tutti gli effetti, industria cinematografica. Fra quel periodo e quello in cui ho cominciato a lavorare, quest’eredità - sfociata nel neorealismo, poi nella commedia all’italiana - era approdata alla commediaccia all’italiana (Pierino contro tutti, ecc.).

Non solo. Nel dopoguerra c’era stato un cinema italiano economicamente e tecnicamente non diverso da quello americano e del resto del mondo. Nel 1975 ecco la svolta epocale, che sintetizzo citando film ai poli estremi: a New York Taxi Driver di Scorsese, a Roma Il tassinaro di Sordi! La commedia all’italiana - persa la spinta caustica, innovativa, dura, eppur cinematografica - s’era ridotta a barzelletta. Nel 1977, ecco la seconda svolta, con Guerre stellari di Lucas e Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg: gli americani cambiavano il cinema in un modo tale che gli altri non potevano più seguirli.

La mia generazione, che s’era dunque accostata al cinema in quel frangente, doveva dunque inventarsi un cinema “fai da te”, con film come Notte italiana di Mazzacurati (1987) e Domani accadrà di Luchetti (1988), prodotti dalla Sacher di Moretti. Sempre in quel periodo, scrivevo Marrakech Express con Gabriele Salvatores, avendo come modello il film di Scola, Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? Poi abbiamo fatto Mediterraneo con due lire e con attori per lo più semisconosciuti all’epoca, venendo da due film (Marrakech e Turné) che non avevano incassato molto.

Nella genealogia di Mediterraneo ci sono una sceneggiatura non realizzata, quella dell’Armata s’agapò, e un film di successo, Tutti a casa. Stranamente, nessuno della mia generazione aveva raccontato i grandi episodi della storia italiana. Ci si era concentrati sull’oggi e dimenticato lo ieri. Certo, Avati aveva frequentato il passato, ma quello delle piccole cose; faceva eccezione Scola, che però era di altra generazione, con Una giornata particolare, dove la visita di Hitler a Roma era vissuta attraverso la frenesia che coglieva un condominio.

Fondamentale nel cinema mondiale, il cinema bellico era stato dimenticato in Italia. Così con El Alamein (2002) ho fatto - anche da regista - un film di guerra esente dalle ingenuità sentimentali e patriottiche che venavano i film degli anni Cinquanta su quella stessa battaglia. Ero in controtendenza: i film a sfondo africano e bellico, come Scemo di guerra di Risi - tratto da Il deserto della Libia di Tobino, che ora anche Monicelli vuol portare sullo schermo - e Tempo di uccidere di Montaldo, tratto dal romanzo di Flaiano, non avevano incassato  molto. El Alamein è giunto a un milione e mezzo di euro ed è uscito in tutta Europa, ma le copie per l’Italia erano solo oottanta; quelle di Eccezzziunale veramente capitolo secondo... me di Vanzina sono oltre cinquecento.  

 

Giulio Petroni

L’interpretazione del cinema italiano data da Maurizio Cabona su Il Giornale di domenica suggerisce che, per esprimere un parere sul presente, occorre volgersi al passato, pur senza assumere atteggiamenti revisionistici. Ecco allora tornare alla mente le varie epoche del nostro cinema: “telefoni bianchi”, spesso snobisticamente bistrattata; neo-realismo, a volte eccessivamente sopravvalutata... Ma ci fu anche un’altra moda che nell’immediato dopoguerra giocò un ruolo: quella del realismo socialista. Lo slogan mussoliniano - “Il cinema è l’arma più forte” - era stato raccolto dai comunisti, che esercitavano - allora, come forse oggi - un’influenza egemone sull’intellettualità italiana.

Ho conosciuto dall’interno questa corrente del cinema  come collaboratore alla regia di Giuseppe De Santis, detto Peppe, a Un marito per Anna Zaccheo (1953). Peppe era visceralmente legato alla terra di origine, alla sua estrazione paesana, al folklore della “civiltà contadina”. Nelle riunioni conviviali si abbandonava al ruolo di capo-corista di canzoncine rurali. Devo alla sua frequentazione la conoscenza di questi versi: “Ardamme lu fazzulettone / che t’aggio portato da Frosinone…”.

De Santis non sfuggiva alle impostazioni ideologiche, ma le temperava con la ciociara ispirazione, attingendo da certo cinema americano e soprattutto dal mélo. Ciò dava al suo neo-realismo un carattere spurio per i soloni del realismo socialista. Lo scultore Marino Mazzacurati appioppò a Peppe l’etichettta di maestro del realismo ciociarista.

Ho rivisto, dopo tanti anni, Un marito per Anna Zaccheo. Non avrei dovuto farlo. Silvana Pampanini, è sdolcinata e lagnosa. Massimo Girotti è un improbabile marinaretto. L’unico a suo agio era Amedeo Nazzari. Il dramma di De Santis come autore fu di aver rifiutato il mutar dei tempi. Il “suo” mondo, in gran parte fittizio, si andava sfaldando. Ancora giovane, Peppe era diventato un uomo d’altri tempi. L’ultimo film con la sua inequivocabile impronta fu Uomini e lupi del 1956 e da lì iniziò la sua caduta. Riuscì a mettere in piedi un altro paio di film, avvalendosi di una mano protesa da oltre la “cortina di ferro”. Tra l’uno e l’altro diresse per un produttore napoletano La garçonnière e dovettero trascorrere dodici anni prima di Un apprezzato professionista di sicuro avvenire. In questi due film De Santis si cimentò con un mondo che, cinematograficamente, gli era estraneo: la borghesia, decadente e corrotta. L’esito di queste ultime prove fu pénible. Il mito di De Santis si frantumò con la stessa rapidità con la quale si era affermato.

 

Giovanni Volpi

Finalmente si ammette che il cinema italiano marcia verso il cimitero. La conversione a U di registi  - salvo Dino Risi - “impegnati” è una gradevole sorpresa e il merito di averla avviato è dell’articolo di Maurizio Cabona. E questa conversione a U mi fa rammentare alcuni detti.

Comincio con quelllo di Douglas MacArthur che nel 1945 disse: “In Francia collaborazionista è chi ha collaborato più di altri”. Poi viene quello di Talleyrand, citato da Edgar Faure quando lo accusavano in parlamento di essere una girandola: “Non è la girandola che si muove, è il vento che si sposta”. Terza viene la battuta di Kim Philby morente, dopo i deludenti anni moscoviti: “L’ex comunista non esiste. Dimenticate la parola ex”. Per tornare al cinema, preferisco di gran lunga citare Jacqueline Bisset che, per prima se ne uscì con questa frase poi molto ripetuta da altri: “Non sono né l’ala destra, né l’ala sinistra; sono l’aeroplano.”.

Gli incassi dei film con Christian De Sica e Boldi, o dei film dei Vanzina - meglio i Vanzina, comunque - sono necessari, come dice Monicelli. Ma come mai chi oggi compie la svolta a U, prima - durante i decenni dell’“impegno”, nei quali chi non la pensava in un certo modo aveva  insormontabili difficoltà a lavorare nello spettacolo - non ha potuto farci nulla?

Nessuno è tenuto a essere in controtendenza. Ma segnalo che, quasi settant’anni fa, la Mostra di Venezia - fondata dal conte Giuseppe Volpi, mio padre - nell’anno XVII dell’era fascista metteva come film ‘apertura La grande illusione, film pacifista del filocomunista Jean Renoir, e lo premiava.