Maurizio Cabona
Dino Risi (1916-2008)
Per star vicino
a Dino Risi, occorreva stargli lontano. Solitario che soffriva di solitudine,
esigeva da me affetto, salvo stupirsene. Dopo decenni trascorsi fra gente che
recita sempre, Risi era sospettoso, fino a chiedermi brusco: «Ma che cosa ti
aspetti?». Temeva che avessi una sceneggiatura nel cassetto. Toltosi il dubbio
che non ne avevo, Risi finì col gradire senza interrogativi che ascoltassi le
sue descrizioni al vetriolo. E ne proponessi di mie.
Milanese di Roma, Risi gradiva da me, più giovane genovese di Milano,
una devozione da figlio, scandita da regolari, madistanziate telefonate. Solo
quelle per il compleanno, il 23 dicembre, e quelle per Natale quasi
coincidevano. E comunque, più che di amici, avrebbe gradito chiamate di amiche.
Intitolò "Vorrei una ragazza" la raccolta di aforismi pubblicata su
mia iniziativa dall’amico Gianfranco Monti per l’Asefi. Risi volle una foto di
Monica Bellucci in copertina. Lei non raccolse l’implicito invito, ma almeno il
libretto tornò ad attirare l’attenzione di stampa su di lui. Pochi mesi dopo
gli veniva assegnato il Leone d’oro alla carriera. Collegando eco del libro e
premio, mi telefonò. Disse solo: «Grazie». Lo meritavo, come lui aveva meritato
il Leone? Comunque sia, questo è uno dei miei ricordi più cari. Nell’occasione
della consegna, alla Mostra di Venezia, l’Istituto Luce pubblicò una raccolta
di testimonianze su Risi. Mi occupai di quella di Giancarlo Giannini, dopo che
Sophia Loren si era sottratta: proprio lei, l’unica, con Agostina Belli, di cui
Risi m’avesse sempre parlato bene...
Ma torniamo a Roma. Qui le mie visite avvenivano nel residence, dove
Risi s’era trasferito da quando aveva detto alla moglie: «Me ne vado». Sperava
d’esser trattenuto? La risposta però non erano state lacrime, ma valigie, già
pronte. Alla signorile ma scarna civiltà di Risi, impressa in certi suoi film,
cercavo d’adeguarmi. Insieme si pranzava poco e si cenava spesso; ma fu per
pranzo che Risi mi cucinò, con le sue mani, un risotto milanese ai Parioli. Di
quelli che il suo amico cremonese Ugo Tognazzi, sedicente cuoco, non sapeva
fare. Che cosa si raccontano per un decennio un regista fra i maggiori, ma
ormai quasi inattivo, e un critico che, per età, aveva potuto recensirlo ben
poco? Risi sapeva di non aver un lungo futuro, sebbene dimostrasse sessant’anni
quando ne aveva ottanta.
Tramite lui io percorrevo un lungo passato, non con gli occhi di
cinefilo, ma di curioso. La gente di spettacolo recita anche e soprattutto
davanti ai giornalisti; la tenera rudezza di Risi escludeva questa simulazione.
La sua aneddotica svariava dagli anni Trenta in poi ed era centrata sempre su
un episodio significativo, descrivendo icasticamente persone e momenti, che
fosse il suo apprendistato da psichiatra all’ospedale di Voghera o l’amore con
Alida Valli sul set di Piccolo mondo antico, con connessa, folle gelosia di
Mario Soldati per l’apprendista psichiatra che aveva assunto come assistente
alla regia.
Il tempo avrebbe ingigantito per Risi quel ricordo sentimentale: era di
Alida, l'Alida d’allora, l’unica foto in una cornice maestosa del suo sobrio
appartamento, che a tutto somigliava tranne che un mausoleo. Rivedere i propri
film piaceva all’Alberto Sordi in età, non a Risi. Lui era contento solo che le
Tv li trasmettessero. «Per i diritti d’autore», mi spiegava. Preferiva sembrar
venale che vanitoso. Una delle ultime volte che ci siamo visti, mi aveva
regalato dei libri, nel nostro continuo scambio. Stavolta però i suoi non erano
saggi sul cinema che lo lasciavano indifferente: erano romanzi e me li diede
con una certa solennità, prendendoli dalle pile che aveva sul tavolino davanti
al divano. «Questi - spiegò -me li aveva regalati Vittorio. Ormai non mi
servono più». Da allora tengo sempre vicino, quando scrivo, Il castello dei rifugiati di Céline.
Prima edizione.
“Il Giornale”, 8 giugno 2008