Maurizio
Cabona
the Artist
I grandi registi sono anche grandi reazionari,
persone che raccontano il passato come un mito storico o il futuro come un
incubo sociale. Orson Welles fu sincero dal primo film, identificandosi con
Randolph Hearst in Quarto potere; vocazione ribadita nell’Infernale Quinlan.
Esplicito fu anche Joseph Mankiewicz quando esaltò il potere nel Castello di
Dragonwyck. Ancora più espliciti Jean-Luc Godard in Alphaville e
Norman Jewison in Rollerball, che rappresentavano il loro futuro gelido
e venale come s’è poi concretizzato nel nostro presente.
In Italia, dove il carattere talora militaresco di
certi registi (si pensi ad Alessandro Blasetti e ai suoi non simbolici stivali)
andava camuffato più che altrove, Federico Fellini rivelò la sua visione del
mondo solo con Prova d’orchestra, opera esteticamente modesta ma
politicamente chiarissima. Lo stesso fece – meno consapevolmente – Mario
Monicelli col Marchese del Grillo, certo d’intesa col protagonista,
Alberto Sordi, che era uno dei suoi rari amici: si rammenti quando – ai popolani
di una Roma papalina, che gli chiedono la ragione degli ordini ricevuti – il
marchese replica secco secco: «Io so’ io, voi non siete un ca...». E se si vuol
trovare al cinema un nobile siciliano ricalcato su qualcuno di simile al barone
Julius Evola, lo si trova nel personaggio di James Mason in Gente di
rispetto di Luigi Zampa.
Ma c’è anche un altro tipo di reazionario, quello
piccolo, quello più credibile e comune, quello che non vuole comandare: gli
basta non obbedire. Certo, perché la sua storia diventi un film, occorre sempre
un grande regista, dove grande sta per bravo e autonomo. È il caso del francese
Michel Hazanavicius, che con Oss 117 Mission au Caire e Oss 117 Rio ne
répond plus ha fatto ridere la Francia delle sue velleità degli anni Cinquanta
e Sessanta, con un linguaggio politicamente scorretto. Il protagonista era Jean
Dujardin, la comprimaria Bérenice Bejo (figlia di esuli argentini in Francia e,
sempre nella realtà, incantevole moglie di Hazanavicius). Lo stesso triangolo è
all’origine di The Artist, il film muto e in bianco e nero scritto e
diretto da Hazanavicius da domani nelle sale italiane, che a Dujardin è valso
il premio per l’interpretazione all’ultimo Festival di Cannes, in maggio, e un
trionfo di pubblico al Lumière Film Festival di Lione in ottobre.
Il personaggio del film è un divo americano del cinema muto, George Valentin, un nome che evoca Rodolfo Valentino e una figura fisica che miscela quelle di Douglas Fairbanks e John Gilbert. All’avvento del sonoro, nel 1927, Valentin è all’apice del successo e rifiuta di adeguarsi alla tecnica. Però non è megalomane come Norma Desmond (Gloria Swanson) in Viale del tramonto di Billy Wilder, convinta che il pubblico l’abbia dimenticata non perché lei ha «smesso d’essere grande, ma perché il cinema è diventato piccolo». No, George Valentin semplicemente ritiene che il successo sia dell’artista – di qui il titolo del film – e non del tecnico (del suono, in questo caso). Ancor giovane, bello, sim-patico, Valentin confida nel suo carisma e nell’intelligenza del pubblico. E, come produttore, sceneggiatore e protagonista, insiste – siamo ormai nel 1929 – con un altro film muto, dove significativamente il suo personaggio è inghiottito dalle sabbie mobili… Sopraggiungono il crollo di Wall Street, l’insuccesso del film di e con Valentin, e il divorzio: insomma la rovina economica. Sale intanto l’astro di una comparsa, Pippi Miller (Bérenice Bejo), alla quale proprio Valentin aveva aperto le porte principali di Hollywood. Il loro rapporto è stato un amore maturato dal primo istante, senza dirselo e senza toccarsi. L’opposto di quel che normalmente avviene nell’ambiente del cinema (e anche negli altri). Dove non c’è desiderio realizzato, c’è desiderio sublimato: e sublimato in gratitudine, perché sarà Pippi Miller, che non vive monacalmente, ma considera “giocattoli” gli uomini che non sono George Valentin, a permettergli una seconda carriera, rispettandone l’intenzione di continuare a essere, nell’epoca del sonoro, un divo del muto… Cioè di rimanere se stesso e di rappresentare quelli che non vogliono cambiare, neppure in meglio. Inno al cinema, a coloro che l’hanno fatto più col genio che coi soldi, The Artist è produzione francese, con giovani protagonisti francesi e con maturi comprimari americani e inglesi (James Cromwell, John Goodman, Malcolm Mc Dowell), girata a Hollywood nei teatri di posa dove si realizzarono i classici del muto e del sonoro. Proprio per il fatto di essere muto con sottotitoli in inglese, The Artist può ambire non al marginale Oscar per il film non americano, ma al riconoscimento principale, l’Oscar per il miglior film in assoluto. E lo merita. Dujardin e la Bejo sono da tempo in tournée negli Stati Uniti – infatti non sono venuti alla presentazione a Roma – per sostenere questa speranza, che va confortata da un’assidua presenza, come le campagne elettorali di una volta, che si facevano tra le gente, non in tv. Anche in questo c’è qualcosa di reazionario, democraticamente reazionario. “Secolo d'Italia”, 8 dicembre 2011