Carlo Romano

prefazione alla Storia della Lega Italiana per il Divorzio

Domenico Letizia: STORIA DELLA LEGA ITALIANA PER IL DIVORZIO. Europa Edizioni, 2013

 

Non mi sembra sbagliato affiancare le lotte per l’introduzione del divorzio in Italia ai cambiamenti di sensibilità reclamati dai giovani lungo gli anni Sessanta. Per l’Italia fu, rispetto agli altri paesi già attrezzati da tempo sul piano giuridico e sociale, un elemento in più che contribuiva a limare vecchie incrostazioni divenute ormai insopportabili. Si trattava in fin dei conti di rendere effettivi in un senso più completo quei diritti basilari della persona che gruppi animati da malintese ragioni morali avevano fino a quel momento rappresentato in termini di degradazione. Del resto non si voleva impedire a chi di quelle ragioni era assertore di continuare a esserlo, si voleva invece favorire la fuoriuscita da una trappola giuridica chi in piena coscienza vi si sentiva imprigionato e, questa volta sì, degradato nelle più elementari espressioni di vita.

Nel momento in cui dunque la gioventù, nell’affermare che il re “Occidente” era nudo, mostrava di esigere il libero corso delle forze vitali, era fatale che in Italia la lotta per l’introduzione del divorzio andasse nello stesso senso, per quanto ai giovani più agitati potesse sembrare un aspetto di nuovo tutto interno al deprecato “sistema”.  Tuttavia su quegli stessi giovani agitati avevano esercitato una funzione pressappoco pedagogica le riviste che come “ABC”, “L’Espresso” o “L’Astrolabio” avevano alzato il tono della campagna divorzista.  Chi si buttava a capofitto in questa battaglia non respingeva d’altronde l’eventuale loro contiguità tanto che un civettuolo Marco Pannella la sottolineava agghindandosi alla maniera dei “capelloni”, ancorché un più composto conservatore liberale come Aldo Bozzi facesse pensare all’Ottocento. La retorica dominante suggeriva in ogni caso di guardare a quanto accadeva come a un processo di modernizzazione e si assisteva inevitabilmente all’autorappresentazione del campo divorzista nei termini di una vasta e benintenzionata forza “progressista” alla quale stava a cuore l’allineamento dell’Italia agli altri paesi dell’Occidente con una generalmente rimarcata preferenza – in funzione anti-cattolica  – per quelli anglosassoni e protestanti.

Se si prescinde tuttavia da questo tipo di eloquenza prevalentemente giornalistica (ma di ascendenza “azionista”) è facile capire che in ballo non era tanto la contrapposizione fra modernità e tradizione quanto piuttosto un’affermazione di libertà che giusto nella tradizione cattolica era concepita come lecita allorché si fosse rivolta contro forze e ordinamenti tirannici. Una forza di questo tipo risultava essere per una enorme fetta della popolazione – come dimostrerà poi il referendum sul divorzio – proprio una Chiesa che si presentava ancora quale Chiesa di Stato, grazie all’articolo 7 della costituzione che accettava il concordato mussoliniano del ’29. Questo articolo passò col determinante contributo dei comunisti togliattiani che ancora negli anni Sessanta e dopo – quando con la direzione di Enrico Berlinguer avrebbe perso addirittura i caratteri del tatticismo per assumere quelli del “compromesso storico” - erano preoccupati di non dividere il popolo sulla materia religiosa (e su quella sessuale) tanto che nella battaglia sul divorzio furono tirati dentro non senza i loro peculiari indugi.

In un certo qual modo la Chiesa cattolica (cioè universale) e un PCI che si dichiarava comunque internazionalista proletario concepivano (paradossalmente?) la società italiana, meglio ancora la “nazione” italiana, come un che di organicamente definitivo che corrispondeva a una gigantesca comunità dove le tradizionali “lotte di campanile” facevano folklore senza poter essere così squisitamente rivelatrici, come erano, della miriade di comunità – “naturali” o “volontarie” che fossero, compresa quella piccola unità fondamentale chiamata famiglia – fluidificate dalle libere scelte dei loro componenti. 

La battaglia per il divorzio, in questo stato di cose dove era politicamente centrale la Democrazia cristiana, nonostante si esprimesse in molti casi attraverso la presunzione di idee cosiddette “avanzate” e non rinunciasse a toni anticlericali anche rabbiosi, significava sì portare il discorso sulla libertà - cosa di cui non si parlava mai abbastanza fuori dai ritualismi repubblicani – ma anche, in una appropriata dimensione antropologica, rivelare il paese. La ricostruzione storica che Domenico Letizia fa dell’associazionismo e dei movimenti dell’opinione pubblica che portarono – trionfalmente è il caso di dire – all’introduzione del divorzio in Italia, va letta anche in questo modo.