Il testo della conferenza tenuta in aprile a Genova nell’ambito del ciclo curato da Sandro Ricaldone, e svoltosi a Palazzo Spinola col sostegno della Provincia di Genova, sui vari aspetti dell’avanguardia italiana. La “postilla” è stata stesa in occasione della pubblicazione su “Fogli di Via” n.0 (novembre 2009, Fondazione De Ferrari).

 

Carlo Romano

Addomesticazioni futuriste

Da circa trent’anni ci vengono propinati in tutte le salse – nazionali, locali e estere – i piatti coloriti del Futurismo. Era dunque prevedibile che alla tavola del centenario del suo manifesto fondativo ci sarebbe stata soltanto dell’enfasi stilizzata con la proliferazione, in ogni dove, di taverne del “Santopalato” e serate di cibi indigesti a sollazzo di patetici snob. Cosa aspettarsi d’altra parte da un movimento che programmaticamente disprezzava la pastasciutta? Quando per l'appunto oltre un quarto di secolo fa si pensò bene (per davvero) di “sdoganarlo”, come si usa dire fra i politicanti, lo si fece badando innanzitutto a ricollocarlo su piedistalli (ahimè traballanti) che gli conferissero quell’aria “libertaria” che i libertari in senso stretto gli negavano, poco o per nulla sensibili alle sue sirene e pieni di ribrezzo per un “programma politico” (fosse solo quello!) maturato fra organicismi per altro confusi. Si sono fatte tante cose buone, per carità, e finalmente lo si è studiato come meritava, ma ci si è trovati il più delle volte a parlar d’altro rispetto a quel che era. I bravi studiosi (per davvero) sono anche quelli che hanno generato l’equivoco. Sembra impossibile che non si possa apprezzare e valutare degnamente il Futurismo a partire da quel che era, da una schiettezza fascista (o fascistoide, se vi pare così di alleggerirne il peso) che balza agli occhi. E questo si unisce ovviamente alla più completa incomprensione di quest’altro fenomeno, perennemente giudicato privo di cultura e mai valutato, anche quando lo si ritenga aberrante, come un’umana opzione (politica e culturale) fra quelle disponibili - e in tempi di crisi se ne accorsero personaggi differenti riuscendovi a vedere un’alternativa praticabile. Ricordo di aver detto all’incirca queste cose nel corso di un convegno marsigliese di molti anni fa raccogliendo lo stupore di Giovanni Lista (grande studioso del Futurismo, indubbiamente) e il solo plauso da un gruppetto “fascista” di giovanissimi che all’epoca potevano confondersi con i loro coetanei “dark”.  Mi pare fossero di Bordeaux. Quest’anno di ricorrenza ha portato per la verità alcuni (pochi) tentativi di riequilibrio, penso a quello di Emilio Gentile (“La nostra sfida alle stelle”, Laterza 2009)  e a quello di Angelo D’Orsi ( “il futurismo tra cultura e politica”, Salerno 2009). Li si saluti, se non  altro, per un ritorno dell’interpretazione, quando nei trent’anni, o giù di lì, che si sono rammentati si è cercato nel fondo del barile soprattutto figure ed episodi (com’era necessario fare, beninteso). Scontate ma non risolte rimangono infatti questioni assai importanti come il rapporto Italia-Francia, che si pensa possa esaurirsi (da una parte e dall’altra) nelle insensate diatribe nazionaliste (futurismo da una parte e cubismo e orfismo dall’altra oppure, per i più ricercati, Canudo e Apollinaire) cosicché anche una certa compenetrazione di futurismo e divisionismo appare secondaria, se non ininfluente. Ma è anche il ruolo del Futurismo come “avanguardia delle avanguardie” a essere conformisticamente, papagallescamente ribadito forti di basi cronologiche (le quali anch’esse andrebbero valutate con qualche attenzione) che lasciano poco spazio alle congetture, e ne lasciano tanto poco che si trascurano altre genealogie, magari più salienti, come quella dei “modelli”. Che relazione intercorre, ci si dovrebbe chiedere, fra chi - pur strombazzando e gonfiando il petto con un certo innegabile gusto dello humor, non lo nego - guardava in buona sostanza alla caserma e chi – pur scimmiottando un rigore giudiziario, comunque da barzelletta – alle caserme preferiva i tavolini dei caffè?

Per altro, sarebbe opportuno trascinare la domanda fino ad investire tempi e luoghi dove se ne possa verificare la superstite congruenza. Tuttavia,  morto Marinetti, a parte commoventi quanto velleitari tentativi di resurrezione come quello cercato dal pittore Enzo Benedetto, del Futurismo se ne colsero soprattutto frammenti. Ci fu anche una linea di continuità, garantita da artisti come Munari, sfociata nelle ricerche cosiddette “concrete” con particolare giocosità, o da altri, come Arrigo Lora Totino, sfociata nella poesia visiva e sonora. Si rimane comunque fra i brandelli di sermoni che viceversa aspiravano alla totalità. Lo stesso vale per il “Teatro Sintetico” e il “rumorismo” riverberati da Fluxus – per giunta legato più a una certa idea di Duchamp o di Cage, per non dire, qualsiasi cosa si intendesse dire, di Zen e Haiku, che al futurismo.

I gruppi di artisti avevano del resto ormai preso – alludo al dopoguerra – fisionomie più leggere. Si amava parlare di “gruppi sperimentali”, dove il richiamo scientifico stava probabilmente per la rappresentazione “sperimentale” che l’arte si diceva offrisse di nuovi rapporti fra gli uomini. Anche in questo caso il nesso, talvolta stretto, era col Surrealismo per un verso o con certo Modernismo per un altro, più che col Futurismo. Fluxus poi, costituendosi come gruppo, si affrettava ad affermare la propria informalità fino all’inconsistenza. Buona soluzione che demoliva anche le più comiche contraffazioni burocratiche delle Avanguardie, ma riduceva tutto agli incontri sporadici fondati sulle opportunità espositivo-sceniche, verrebbe da dire sull’opportunismo. Un  modello, a ben guardare, sorretto pure dalle coeve Neoavanguardie letterarie. Senza contare che quegli stessi elementi che sembravano decisivi sul piano di una cultura apparentemente condivisa, potevano risultare ininfluenti se si prendeva in  considerazione il singolo protagonista.

Voglio tuttavia - prendendo spunto da questi ultimi propositi - spezzare una lancia in favore del Futurismo. Ma non del Futurismo originario, coi suoi effetti dirompenti e il procedere impassibilmente militaresco, bensì di quello cosiddetto “secondo” che pur coincideva con Marinetti accademico d’Italia e il Fascismo regime. Questo “secondo Futurismo”, nelle sue molteplici declinazioni locali e anche stilistiche, malgrado tutto mi sembra somigliare, negli atteggiamenti di fondo, a quanto si è detto innanzi dei gruppi del dopoguerra, quantunque sia difficile immaginare una qualsivoglia relazione fra l’uno e gli altri. Non mi addentrerò in ogni caso, per concludere, nella subdola questione, ancor oggi strumentalmente dibattuta, che viene risolta  in cosa diverrà un’artista e in cosa politicamente è stato, che poco ha a che fare con quanto ho detto all’inizio circa l’interpretazione del Futurismo (semmai si tratta di uno strano contrappeso). Dico solo che – grazie soprattutto ad Asger Jorn, mi pare – ritroviamo nel dopoguerra un poeta (e un artista visivo) stravagante come Farfa, insignito di roboanti incarichi nella Patafisica organizzata, se così si può dire. Probabilmente, non meno che inconsapevolmente, “patafisico” Farfa lo era anche negli anni Trenta, e tanto mi basta. (e deve bastare anche a voi).

Postilla

In qualcuno, questa conferenza ha suscitato irritazione e insofferenza. “Ecco”, mi è stato rimproverato, “ogni volta che si parla di Futurismo c’è chi arriva a cianciare di fascismo”. Davvero uno strano modo di argomentare, come se fra i due soggetti, fascismo e futurismo, ci fosse estraneità e addirittura conflitto. Per giunta l’asseverazione di tale estraneità sarebbe affidata in special modo a vari indizi che avvicinerebbero il Futurismo al comunismo moscovita, come se una tirannia “lavasse” l’altra. Certamente questi vari indizi non vanno taciuti, ma andrebbero usati per ragionare, per tentare di capire. Del resto è noto che le mele non si sommano alle pere, se non alla voce frutta. Per altro,  avendo come indizio una comune passione per la marmellata, e nient’altro, parrebbe strano che si arrivasse a concludere che due estranei  la pensino allo stesso modo su un bel po’ di altre questioni che non siano pasticcini e panini imbottiti (ma anche in questi casi si dovrebbe procedere con cautela, non è detto che la marmellata piaccia a tutti sul pane o nella farcia dei dolciumi). Altrettanto noto è che cani e gatti muovono la coda per motivi differenti. Le ragioni per non capirsi sono dunque varie. E quel che si stenta a capire è soprattutto l’ovvio, così, volendola sfuggire, si cade nella banalità. “Uomo repellente ma grande scrittore”! Quante volte lo si è sentito dire a proposito di Céline? Cos’è, mi chiedo, che fa un uomo repellente (se uomini di tal fatta esistono)  e cosa lo fa un grande scrittore? Forse i suoi tre famosi puntini di sospensione? Mah! In poche parole: se “fascista” il Futurismo perde di interesse?