Rimasto
nei cassetti, questo saggio di Zuccarino risale al 2007
Giuseppe Zuccarino
Celan e l’esperienza dell’impossibile
È noto che Paul Celan ha avuto per lungo tempo la fama di essere un poeta difficile, quasi impenetrabile. La sua replica a coloro che gli muovevano tale accusa non era la più adatta a conciliarseli: «Al giorno d’oggi è di voga rinfacciare alla Poesia la sua “oscurità”. […] Mi consentano di riportare un detto di Pascal, un detto che lessi in Lev Šestov qualche tempo fa: Ne nous reprochez pas le manque de clarté puisque nous en faisons profession! – Questa, credo, è la – seppur non congenita – oscurità che è propria della Poesia, in vista di un incontro che muove da una distanza o estraneità che essa stessa, forse ha inteso progettare»1.
Ciò che rende difficile l’interpretazione dei suoi testi consiste nel lavoro svolto sul piano del pensiero e su quello della lingua tedesca, che si trova dunque ad essere sensibilmente modificata. Le tecniche stilistiche di Celan prevedono fra l’altro un costante e fulmineo passaggio da un’immagine all’altra, dall’astratto al concreto e viceversa, la coniazione di neologismi, un uso anomalo degli «a capo», che a volte spezzano in due la parola, e dei titoli, spesso incorporati nel primo verso del testo ed evidenziati graficamente con l’impiego delle maiuscole. A ciò si aggiunge il recupero di vocaboli arcaici o di tecnicismi: come ricorda Moshe Kahn, Celan «leggeva con predilezione dizionari antichi, come per esempio quello dei fratelli Grimm, oppure dizionari tecnici e botanici, dai quali estraeva un ricco materiale di parole. Così incontriamo parole come per esempio Eulenflucht (l’ora del levar delle civette) o chymisch (chymico) che nella lingua tedesca erano dimenticate da più di duecento anni, oppure termini tecnici come Meermühle (mulino di mare), Strahlenwind (vento irradiante) o Laufkatze (carrello in corsa). Naturalmente, tutte queste parole si trovano nelle poesie di Celan prima per quello che indicano; ma per il modo in cui vengono usate, oltrepassano al tempo stesso il loro significato originale»2.
Tutto ciò non ha un rapporto diretto, ma neppure può dirsi del tutto estraneo, rispetto al fatto che l’esistenza del poeta è stata segnata da piaghe dolorosissime. Nato a Czernowitz, in Bucovina, da una famiglia ebrea, a vent’anni ha visto l’occupazione di quel paese prima da parte dei Russi e poi, nel 1941, delle truppe rumene e tedesche, che hanno iniziato a perseguitare gli israeliti. I suoi genitori sono stati deportati e uccisi nel Lager di Michailovka, in Ucraina, mentre Celan, salvatosi per caso, è stato rinchiuso in un campo di lavoro, da cui ha potuto uscire solo nel 1944. Si è trasferito allora a Bucarest, poi a Vienna e infine a Parigi. Nei decenni successivi, la sua vita è divenuta un po’ più regolare: si è sposato e ha avuto due figli (uno dei quali morto alla nascita), è stato lettore presso l’École Normale Supérieure, ha cominciato ad essere conosciuto per le sue raccolte di versi. Ma nonostante ciò si è trovato a soffrire di gravi disturbi psichici, che l’hanno costretto a vari soggiorni in clinica. Questa condizione di disagio lo ha accompagnato fino all’esito tragico: il suicidio nell’aprile del 1970.
Per aiutarci a configurare in termini meno vaghi il nesso fra una certa esperienza dell’impossibile subita da Celan sul piano del vissuto e un’analoga (e diversa) prova da lui sperimentata al livello della lingua, può essere utile l’osservazione di un autore per certi aspetti a lui affine, Edmond Jabès: «Più Celan va innanzi nella sua ricerca poetica, più diventa difficile la leggibilità della sua grande poesia. Celan ha quasi inventato una nuova lingua tedesca perché ha messo insieme delle parole, come se le parole potessero in quel momento salvarlo […]. Ha voluto fare l’impossibile con il linguaggio, ma questo impossibile non significava per lui solo desiderio di dire, ma anzi desiderio di tacere»3.
Vediamo, sia pure per rapidi accenni, in che modo lo stesso Celan ha cercato di definire il proprio rapporto con la poesia. In un testo del 1948 redatto per un amico pittore, egli scrive: «Mi era diventato lampante che l’uomo non solo languiva nelle catene della vita esteriore, ma anche era imbavagliato e impossibilitato a parlare – e se dico “parlare” intendo con ciò l’intera sfera degli umani mezzi d’espressione – per il fatto che le sue parole (gesti o movimenti) gemevano sotto il peso millenario di un’apparente e deformata sincerità – cos’era meno sincero della tesi secondo cui tali parole in fin dei conti sarebbero in qualche modo ancora le stesse! Dovetti dunque anche dedurre che su quanto lotta da tempo immemorabile per trovare espressione si è pure posata la cenere di significati perenti, e altra ancora! In che modo allora il nuovo dovrebbe scaturire in tutta la sua purezza? Ben vengano, dai più remoti distretti dello spirito, parole e immagini e gesti, velati come nel sogno e come in sogno svelati»4. Qui Celan si mostra consapevole che le parole vanno ripensate e reinventate, per scuotere loro di dosso la cenere dell’uso consueto, per non parlare di una diversa e più tragica cenere5. Tuttavia sembra ancora riporre fiducia in una poetica di tipo surrealista, che valorizzi il sogno.
Se passiamo ad un altro testo, posteriore di dieci anni, ci troviamo di fronte a considerazioni non dissimili sulla lingua, ma unite a un’idea della poesia che si è lasciata alle spalle la speranza nelle magiche risorse dell’inconscio. Alludendo al fatto che gli eventi storici degli anni di guerra hanno cancellato la realtà precedente, incluso il paese della sua infanzia, Celan nota che di quel mondo sembra essere sopravvissuta solo la lingua tedesca. «La lingua, essa sì, non ostante tutto, rimase acquisita. Ma ora dovette passare attraverso tutte le proprie risposte mancate, passare attraverso un ammutolire orrendo, passare attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte. Essa passò e non prestò parola a quanto accadeva; ma attraverso quegli eventi essa passò. Passò e le fu dato di riuscire alla luce, “arricchita” da tutto questo. Con questa lingua, in quegli anni e negli anni che seguirono, io ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per accertare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi una prospettiva di realtà»6. Celan è posto dunque nella paradossale situazione di chi deve esprimersi nella stessa lingua di chi ha sterminato il suo popolo, un idioma che egli non può né vuole accusare di complicità con un tale evento, ma a cui non gli è certo più concesso di ricorrere con naturalezza. Dunque, nelle liriche che produce, «s’accosta con la propria esistenza alla lingua, ferito di realtà e realtà cercando»7.
Lo stesso anno, in risposta a un’inchiesta, Celan parla dello stato attuale della poesia tedesca: «Il suo linguaggio si è fatto più sobrio, più attento ai fatti, essa diffida del “bello”, essa tenta di essere vera. […] Pur nella totale, irrinunciabile poliedricità dell’espressione, ciò che preme a questo linguaggio è di essere preciso. Esso non trasfigura, non “poetizza”, esso nomina e instaura, cerca di delimitare il campo del possibile e del dato. Beninteso: all’opera qui non è mai la lingua stessa, la lingua in sé e per sé; bensì sempre e soltanto un io che parla dal particolare angolo d’incidenza della propria vita e che ricerca una delimitazione, un orientamento»8. Anche altrove, scrivendo su uno dei suoi maestri, Osip Mandel’štam, Celan ribadisce che la poesia è un fatto individuale e storico: «Il luogo del poema è un luogo umano; “un luogo nel Tutto”, certo, ma qui, quaggiù, nel tempo. Il poema rimane, con tutti i suoi orizzonti, un fenomeno sublunare, terrestre, creaturale. È lingua di un singolo individuo divenuta figura, ed essa possiede oggettività, oggettualità, presenza, presenzialità»9.
Com’è noto, il
più ampio e importante degli interventi poetologici celaniani è costituito da Il meridiano, discorso tenuto nel
Un ultimo
accenno meritano due brevi dichiarazioni di Celan, datate rispettivamente 1960
e
Anche ai giorni nostri, i pochi poeti capaci di fare questo, ossia di pervenire ad una lingua altra senza bisogno di chiamare in aiuto altre lingue, sono quelli che si scontrano regolarmente con l’esperienza dell’impossibile. E tuttavia ciò non li condanna affatto al silenzio. Così uno di essi, Andrea Zanzotto, ha potuto osservare, sintetizzando assai bene i vari aspetti di questa problematica: «La poesia oggi non può non sentirsi “impossibile”, ma il sentimento di tale realtà rientra pur sempre nello “spazio curvo” della poesia; le “impossibilità di esistere” della poesia sono infinite, forse – com’erano le sue possibilità. E tutte da dire»15.
(2007)
Note
1 P. Celan, Il meridiano. Discorso in occasione del
conferimento del Premio Georg Büchner, Darmstadt, 22 ottobre
2 M. Kahn, Introduzione a P. Celan, Poesie, tr. it. Milano, Mondadori, 1976,
p. 14.
3 E. Jabès, Risposta ai relatori, in AA. VV., Il libro dell’assenza di Dio, Pordenone,
Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 1988, p. 95.
4 Edgar Jené e il sogno del sogno, in La verità della poesia, cit., p. 26.
5 È quella che
Celan nominerà con desolata insistenza in una famosa poesia: «Cenere, / Cenere,
cenere. / Notte. / Notte-e-notte» (Stretta,
in Grata di parole, in Poesie, tr. it. Milano, Mondadori, 1998,
p. 337). Su questa lirica si veda il commento di Peter Szondi (Lettura di «Stretto», in L’ora che non ha più sorelle. Studi su Paul
Celan, tr. it. Ferrara, Gallio, 1990, pp. 9-68), secondo cui la «cenere»
allude ai forni crematori e allo sterminio degli Ebrei.
6 Allocuzione in occasione del conferimento
del Premio letterario della Libera Città Anseatica di Brema, in La verità della poesia, cit., p. 35.
7 Ibid., p. 36.
8 Risposta a un questionario della libreria
Flinker, Parigi (1958), ibid.,
pp. 37-38.
9 La poesia di Osip Mandel’štam, ibid., p. 49.
10 Il meridiano, cit., pp. 10, 11, 13 (Atemwende, ossia «svolta del respiro»,
sarà il titolo di una raccolta poetica celaniana del 1967).
11 Ibid.,
p. 15.
12 Ibid.,
p. 17.
13 Lettera
a Hans Bender, ibid., p. 58.
14 Risposta a un’inchiesta della libreria
Flinker, Parigi (1961), ibid., p.
59.
15 A. Zanzotto, Poesia? (1976), in Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori, 1999, p. 1203.