Charles Wright, autoritratto di poeta in Italia
A partire dal
1957, il rapporto con l’Italia intrattenuto da Charles Wright, Poeta Laureato
del 2015, si è protratto nel tempo, dimostrandosi, nella portata del
coinvolgimento emotivo e intellettuale, istigatore della nascita e della
formazione del poeta (“mi sono imbattuto nel mio senso della lingua in Italia”;
“l’Italia ha completamente ristrutturato il mio modo di vedere il mondo”). Egli
è di stanza per quattro anni a Verona al servizio dell’esercito americano e,
dopo una laurea allo Iowa Writers’
Workshop, nel 1964 è ospite Fulbright a “La Sapienza”
di Roma, ritornando in seguito a insegnare alle Università di Padova e di
Firenze. Il suo italiano è lingua finemente posseduta, cosa che gli ha permesso
di tradurre in inglese Dino Campana e Eugenio Montale. Unita al paesaggio del
Sud – del Tennessee, dove è nato nel 1935, e della Virginia, dove è approdato
nel 1983 presso la neoclassica University of Virginia a Charlottesville –
l’Italia circola nelle sue vene in modo altrettanto familiare ai fini di una
sua personale ricerca del numinoso nella natura come nell’oggetto d’arte. La
sua fortuna da noi è stata sino ad ora discreta e affidata ai fiorentini
Gaetano Prampolini e Antonella Francini.
In questi giorni il suo nome circola in libreria su un libro di versi dedicato
al nostro paese, Italia, una
selezione da buona parte dei suoi 24 volumi (l’ultima sua fatica è il più
americano Caribou
del 2014), curata da Moira Egan e Damiano Abeni (Donzelli, pp. 348, € 18.50).
Da Verona – e
dai suoi San Zeno, Capitolare, Sant’Anastasia (Pisanello)
– a Sirmione, e alla “grotta” di Catullo, la strada è breve. Ed è su quel
percorso che inizia l’avventura sapienziale di Wright, il quale si fa “turista”
dei sacred places ma per
il tramite della parola di Ezra Pound
– il suo Virgilio – nell’allora fresca traduzione con testo a fronte dei Canti pisani per mano di Alfredo Rizzardi (1953), il sofferto poema in undici canti che, nel
registrare la cronaca quotidiana di una tragedia, cerca riparazione nel soffio
del paraclèto e nella memoria di una “bellezza
difficile” (beauty is
difficult) come è incastonata nei monumenti of unageing intellect, direbbe W. B. Yeats. È questo impatto che,
ai suoi inizi (gli anni settanta), apre la visione di Wright al riconoscimento
“devozionale” del noumeno del reperto artistico, e dello spiritus loci abitante lo spazio italiano e, più tardi, dei paesaggi delle
sue origini, stabilendo una continuità di sguardo fra mondi diversi, cosa che
non fa di lui un semplice poeta “del viaggio” e della notazione diaristica ma una mente inseguita da una quête metafisica,
anche quando si ferma a osservare “insetti luminosi” o a commentare un dipinto:
“Parlo della quiete, del riserbo / di un centrotavola di porcellana, un vaso
lacrimale, una brocca, / … / Parlo di bottiglie, di rovina, / e di quello che
usiamo per illuminare la tenebra, e del perché …” (Morandi), in quei puntini di sospensione sta non detto (o non
esprimibile) quel che conta.
Nelle sue prime
prove tale trasporto all’epifanico è già conquistato sul lago che Catullo
chiamò Benaco: “Le erbacce si sono infoltite nei
frutteti e le foglie pendono inascoltate sotto le arcate.…
Accordi sparuti da un liuto spettrale, è vero, scendono talora sulle ali dello
stesso vento alpino che come un pastore continua a guidare le piccole onde
sulla sponda… se rimanesse immobile senza dire nulla,
potrebbe immaginare di sentire il ritmo appena sincopato di un esametro nel
fondo dei filari di ulivo, mentre il sommuoversi degli uccelli notturni si
sposta verso alberi più cupi. Ma questo è tutto”. È poesia in prosa questo Notturno (anche musicale e pittorico
alla Whistler), che cerca l’eco dell’esametro (o trimetri giambici) nel “riso
delle onde”, il domi cachinnorum
di Catullo.
Lasciati Verona
e il Garda (dove ritornerà più volte), i primi passi di Wright nella scoperta
dell’Italia sembrano essere quelli di un poeta “notturno”, appunto, di uno che
esperisce lo ‘straordinario” nell’ora onirica (o liturgica per un
anglo-cattolico non ortodosso) o, altrettanto spesso, un’ora “orfica”. Così è a
Firenze, vissuta “alla maniera” di Dino Campana: “Firenze, abisso di luce che
s’avviluppa: // Le linee dei tram, come ali di fuoco – / le loro scintille
protratte e reiterate, le loro grida sussurrate: // L’Arno, serpente
rifulgente, tocca / i chiostri bianchi della fiamma, alleggerendosi / di un
peso, il gelo delle sue scaglie / … / – Adoro le puttane all’antica / gonfie di
sperma / che si lasciano andare di peso, come rospi enormi, a quattro zampe” (Notturno); oppure, sulla scia aggiunta di
Oscar Wilde, ecco di nuovo: “Firenze: un vortice, una bocca, / vertiginoso
alveare … // Notturno // Firenze, gola verticillata, / un sibilo d’ali che si
chiudono / il fiume tortuoso in fiamme, / acqua come scaglie nella vampa del
fuoco” (Note per Oscar Wilde a San
Miniato). Per quanto fiore a verticillo, Firenze si mostra tentacolare, uroborica. Pur con le prove del suo imperturbato Umanesimo
e l’ascetismo del Beato Angelico, essa è città che non invita alla conversione,
come fu nel caso di Oscar Wilde, non rasserena, anzi inquieta l’anima,
l’accende di turbolenze, cosa curiosa nel caso di Wright, e quindi effetto
forse del tramite “infernale” del Dino Campana di Notturno teppista e di Oscar
Wilde a S. Miniato, di cui il Notturno
di Wright appare traduzione/imitazione, e di cui in italiano andava forse
ripreso qui e là il lessico: “Firenze” scrive Campana nel suo Notturno “nel fondo era gorgo di luci di
fremiti sordi: / Con ali di fuoco i lunghi rumori fuggenti / Del tram
spaziavano: il fiume mostruoso / Torpido riluceva come un serpente a squame / …
/ Amo le vecchie troie / Gonfie lievitate di sperma / Che cadono come rospi a
quattro zampe”. Una scrittura in
apparenza estranea al sentire di Wright.
Con tutto il
rispetto per i suoi mentori, ci si può chiedere cos’è lo stile per Charles
Wright. “Quando ogni cosa risuona come un click” egli risponde
all’intervistatore della “Paris Review”
nel 1989, “lo stile è Stile, tutto
inestricabilmente avviluppato nella lingua e nelle ambizioni della lingua,
tutto palpabile nella radianza che la lingua offre. È una pregnanza del
particolare, suppongo, a dispetto della solennità del generale. Trascendenza
dentro la stessa pelle della lingua … è una necessità interiore … una haecceitas”. I sacred places
italiani, i sacred landscapes
della sua America dei caribù, dell’Appalachia e del Blue Ridge, visibile dalla
collina del Monticello di Jefferson a Charlottesville,
sono la haecceitas
che respira nello “stile” di Wright, anche nel rovescio genialmente sovversivo
della voce orfica di Campana. Ma tutto avviluppato nella lingua, e dentro la sua (di Wright) “pelle”, tutto
interiorizzato verso l’espressione devozionale tesa alla trascendenza,
all’oltre dello hic et nunc, perché i monumenti dell’“intelletto che non
invecchia”, quelli dell’arte (e della natura, se nessuno la disturba) sono
eterni.
Wright ha
dichiarato che chi guarda e legge
sulla pagina una sua poesia debba essere poi capace di dire di aver visto “a painting on the wall”, ovvero un
oggetto d’arte. Proviamoci con questo Autoritratto
che nasce a Verona e poi s’incammina altrove: “Madonna dell’Ortolo.
San Giorgio, arco e pietra. / Le pendici collinari alte sul Piave. // Luoghi e
cose che mi hanno colpito, Walt, / in Italia. A piedi, Gran Catalogatore,
vent’anni e passa fa. // San Zeno e il Caffè Dante. Il sito di Catullo. / … /
Sulla tomba di John Keats / scende la sera invernale,
dall’abito nero senza stelle e bordato di ghiaccio, / puri respiri di coloro
che risorgono dai morti. // Dino Campana, Arthur Rimbaud. / Hart
Crane e Emily Dickinson. Lo Château Nero”. Lo Château è di Cézanne, Walt è “padre”
Whitman, Keats è sepolto a Roma, e il suo nome non
c’è sulla lapide, perché esso “was writ in water”, un’acqua che qui Wright ferma in un gelo
senza tempo che rianima il respiro. L’“autoritratto” sul muro è complesso e
ambizioso ma dice molto.
“il manifesto-Alias”, 5 febbraio 2017