Lo scorso 11 dicembre (per durare fino al 31 gennaio) si è aperta a Roma, nella Sala dell'Armeria
Inferiore di Castel Sant'Angelo, nei dieci anni dalla scomparsa,  una mostra - dipinti, illustrazioni, vignette satiriche, fumetti -  dedicata  a Guido Buzzelli.
Il catalogo, curato da Grazia de Stefani (ordinatrice della mostra) e edito da Palombi, riproduce la maggior parte delle opere esposte. I testi sono di Claudio Strinati, Ferruccio Giromini, Paola Pallottino e Natale Spinet. Proponiamo di seguito la presentazione di Ferruccio Giromini.

 

Ferruccio Giromini

nei labirinti del malessere

 

 

A dieci anni dalla sua scomparsa, lo ricordiamo ancora in molti con nostalgia, con rispetto, con affetto. Minuto, scuro, nervoso, barbetta luciferina, occhi vivi e penetranti per uno sguardo intelligente e giudicante, un uomo tanto amabile quanto serio, quanto – sotto sotto – inquietante. E come dimenticare Guido Buzzelli, uno dei protagonisti della più grande stagione europea del disegno narrativo del tardo Novecento, una figura grande, a beffardo dispetto della sua statura fisica, e una personalità artistica metamorfica e realmente non catalogabile?

Niente affatto catalogabile. Come si fa a classificare, dove poter incasellare, un artista che ha saputo essere, senza tradirsi, via via illustratore, disegnatore satirico, fumettista, pittore – senza tradirsi e senza tradire il pubblico? In ogni settore della sua attività, obiettivamente, Buzzelli sapeva adattarsi con scioltezza ai canoni linguistici richiesti dall’occasione e intanto, in modi sorprendenti, seppe non essere mai banale e anzi sbalordire sempre le distinte platee con qualche guizzo inaspettato. Di fatto il Maestrino romano, come veniva chiamato, era preda di una portentosa energia maltrattenuta, che lo portava in balìa di un gorgo creativo titanico, incontrastabile, fino a sbatterlo sulle spiagge ardue e vergini della preistoria dei sentimenti. Non si esprimeva per luoghi comuni, mai; piuttosto per simboli, potenti e turbinosi. Così si spiegano le sue molteplici bizzarrie espressive, così i suoi tentativi di rispondere a sgomenti interrogativi sull’esistenza, così il suo nervosismo di fondo, la sua ansia e tensione e frenesia. Così si arriva a capire – e, grazie a lui, insieme con lui a condividere – la sua fascinazione per il basso, anzi per il profondo, anzi per l’abisso. Solo così si accettano le sue predilezioni, quasi hieronymusboschiane, per le sarabande teratologiche; solo così si può comprendere la sua inclinazione per il manierismo grottesco.

Sappiamo che è troppo facile amare il bello. Buzzelli amava, e ha saputo fare amare, il brutto; gli individui brutti; quanto comunemente viene bollato come bruttezza. Ma meglio sarebbe dire: quel che c’è, bello o brutto che sia, senza infingimenti. E pazienza se tutto ciò non è angelico, come a volte ipocritamente vorrebbe apparire. È. C’è. E tanto basta. Perciò per la propria difficile missione il pittore, che si muove cosciente tra le sporcature, si lascia guidare dal pessimismo della ragione, dolente ma combattuto. Si muove emotivamente – con l’ottimismo del cuore?

La sua specie umana appare infreddolita e nuda, vagante senza bussola fuori dagli alti recinti spinosi del paradiso perduto. Ma le nudità predilette dall’artista, al di là dell’abile resa realistica delle anatomie, nell’opulenza ma soprattutto nel peso delle carni hanno un nitido valore metaforico. Sensualità, d’accordo; ma non basta. E allora: nudità come intensità, come eliminazione degli orpelli, come autopsia cruda in corpore vili… La condizione umana non è dunque rappresentabile con una semplice equazione estetica, ma solo facendo ricorso a una cifra espressiva tragica, pertanto anche intrinsecamente etica. Ecco perché pure i suoi quadri, anche quando dietro apparenze aggraziate che rileggono la pittura del passato dei Tiepolo e del Mantegna, appaiono come fasi di sequenze narrative: raccontano: raccontano storie, raccontano drammi, raccontano tragedie.

         Guido Buzzelli raccontava sempre e ovunque, in modo fitto e in tutti i modi che aveva a disposizione. Nelle sue attività illustrative, per esempio, stipava sovraffollamenti di figure in ambientazioni plebee, spesso cedendo alla constatazione amara della violenza demoniaca quale componente inscindibile dalla società umana. E per farlo meglio, ora nelle copertine, molte non a caso pittoriche, e ora nelle immagini interne, con una predilezione confessa per i paginoni, in composizioni molto dinamiche e non di rado caotiche, faceva ricorso alla tecnica già desueta della mezzatinta, citando i popolari visualizzatori della “Domenica del Corriere” del primo Novecento, Achille Beltrame e Walter Molino. Ma si trattava pure di un uso cosciente – critico, aggressivo, satirico – della deformazione: una sorta di détournement del fumettone rosa impregnato di effetti sentimentali.

         Satiro dal piede caprino e dall’odore acre, satiro dal lungo pennello lubrico. La satira buzzelliana era beffarda, come deve essere; e anche debitamente grassoccia, quando è il caso. La sua ricercata sgradevolezza aveva un fine chiaramente demistificatorio; ma quel suo impeto cannibale andava di pari passo con una gagliarda spinta etica moralizzatrice. Sì, anche la sua specialissima vena “eroticomica”, tutt’altro che trascurabile, sfogava pulsioni libidinali e pure, a volte, un horror vacui dalle valenze sociologiche: riempire tutti i buchi ha senso sessuale e significato psicoanalitico, e dall’individuo alla società il passo è uno soltanto. Il buio dramma claustrofobizzante alla maniera di Goya – il citato, l’amato Goya – diventa allora una metafora dei mali psichici e sociali; e il rifiuto dell’ipocrisia narcotizzante innalza alla fine Guido Buzzelli come uomo, come spirito libero, ma nel contempo lo precipita e lo condanna a uno strisciante insuccesso commerciale (in Italia, come al solito; per fortuna almeno i cugini francesi lo seppero valorizzare come meritava).

         Eppure la popolarità maggiore del Maestrino gli venne dai fumetti, nell’ambito della cui storia egli ha rivestito fin da subito un ruolo di assoluto rispetto. Di fatto rappresenta in pratica il primo “autore” in senso pieno del fumetto contemporaneo, in quanto scrittore e disegnatore del primo romanzo grafico realizzato in piena autonomia, senza committente alcuno, né alcun intento commerciale, ma solo per pura esigenza espressiva. Benché il disegno dei fumetti buzzelliani, dalla dantesca Rivolta dei Racchi in poi, si presenti all’apparenza ascrivibile alla tradizionale scuola del fumetto naturalistico italiano, per intenderci quella di Rino Albertarelli e ancora di Molino, il prodotto viceversa se ne allontana risolutamente e del tutto, sia per l’adesione regolare a contenuti antirealistici, basati piuttosto sull’allegoria e sull’apologo, sia per il deciso e orgoglioso rifiuto della serialità (anche tutte le successive opere buzzelliane saranno a sé stanti, senza ambientazioni o personaggi ricorrenti – al di là della reiterata presenza del creatore, con le sue riconoscibilissime sembianze, tra gli interpreti delle sue creazioni).

In verità la scelta del fumetto avvenne inizialmente come risposta alla ricerca di un canale di comunicazione con un pubblico più vasto di quello delle gallerie. Da una dichiarazione dell’autore del 1980 apprendiamo che “a lungo il fumetto ha rappresentato per me un mezzo facile per guadagnarmi la vita. Le serie che disegnavo erano concepite e realizzate in un’ottica decisamente commerciale. Gli editori per cui lavoravo mi fornivano le sceneggiature che io illustravo in modo meccanico. Era un modo gradevole per finanziare la mia passione per la pittura. Cambiai atteggiamento nei confronti dei fumetti in occasione di una mia mostra di quadri, nel 1965 a Roma. Riflettendo sulla disposizione delle tele, delle scene, delle sensazioni che volevo comunicare al visitatore, mi parve che queste avrebbero potuto essere più intense se ne avessi fatto una storia. Ogni dipinto era per me un embrione figurativo che abbisognava di uno sviluppo narrativo. È così che ho affrontato il fumetto d’autore”.

Sempre, dunque, anche in pittura, per sua stessa ammissione, Guido Buzzelli racconta per immagini, leggibilmente. Ma è il contenuto che si adatta alla forma? 0 viceversa? Di sicuro, qui più che mai l’artista appare al contempo quale scrittore, regista, visualizzatore di sogni incubi allucinazioni.

È che il piccolo grande Buzzo, da buon semidio faunesco, non si risparmia mai. La sua è un’urgenza espressiva davvero profonda, un prodotto dell’angoscia. È figurazione “politica”, la sua, dunque: attiva, etica, civilmente rabbiosa, e che tuttavia svaria tra un vitalismo pagano, improntato ora all’ebbrezza dionisiaca e ora al panico più vertiginoso, e quasi una (voglia di vera) religiosità – ma di quella buñueliana, di chi sostiene con fierezza l’ossimoro”sono ateo, grazie a Dio”. Con Goya e Buñuel sullo sfondo, a venirci in mente è proprio la Spagna dei forti contrasti tragici – luce/ombra – ma anche quella della dimensione febbrile del cristianesimo e della cifra eroica dell’anarchismo. Contrasti tragici, di certo, anche dentro l’animo del tormentato Buzzelli, artista inclassificabile che, come sintomo e dimostrazione della sua grandezza e unicità, non ha lasciato dietro di sé imitatori né continuatori. Nessuno era umanamente in grado di riprodurre i malesseri del suo labirintico sentire.