Wolf Bruno
il vinto Busca
(su Dalla Parte dei Vinti di Piero Buscaroli,
Mondadori 2010)
Credo di poter
affermare che solitamente ognuno di noi avverta l'oppressione e il tormento
derivato da piccoli crimini tenuti nell'ombra, per quanto essi siano ordinari e
in termini di atrocità non superino menzogna, slealtà o malizia. Ciò non ci
impedisce, all'occasione, di essere intransigenti se questi crimini li
riscontriamo negli altri, soprattutto se a farne le spese siamo noi stessi.
Penso per giunta che l'eventuale pretesa di non cedere all'opportunismo e di
essere coerenti, malgrado la contraddizione, abbiano un fondamento proprio in
quei tormenti e in quell'oppressione che segnano buona parte di quella che
chiamiamo personalità. È probabile che certi uomini "tutti d'un
pezzo" non siano d'accordo con me e ritengano queste semplici osservazioni
come una sfacciata dimostrazione di ipocrisia. Mi sfugge cosa costoro possano
pensare dei loro simili - non parlo d'altra parte di una tipologia omogenea sul
piano culturale, sociale o politico - ma
mi è abbastanza chiaro cosa possano pensare di se stessi. L'intransigenza
implica il rigore ma per loro è innanzitutto una rigidità mentale che li nega
alle ragioni degli altri, fosse anche solo per dissentirne. La semplice
curiosità sarebbe cedevole opportunismo e qualora facesse capolino - per quel
che vogliono lasciare intendere - perderebbero contemporaneamente la stima in
se stessi.
Piero Buscaroli sembra essere uno di questi uomini e
sembra esserlo in una maniera così esagerata da farmi pensare a quelle vignette
che scatenano delle risate fragorose intorno alle tragedie. E a una tragedia in
particolare, quella della guerra civile italiana, Buscaroli - in Dalla parte dei vinti - applica
l'inflessibile visione di un autobiografismo immacolato. Per Buscaroli tutti i partigiani erano banditi, cannibali, traditori,
delinquenti, massacratori e la RSI rappresentava la continuità della Patria, la
scelta di campo era dunque semplice per ogni vero patriota. Ponendo la sua
attenzione solamente su questo piano a Buscaroli – come del resto a tanti
storici di ogni tendenza – sfuggono le pulsioni più schiette e decisive, senza
contare che la rivendicazione di quell'elemento era comune alle varie fazioni
in lotta. Di atti criminali si può continuare a parlare quanto si vuole, ma non
è contrapponendo le speculari tragedie dei “sette fratelli Cervi” e dei “sette
fratelli Govoni” che si va oltre la pura e semplice constatazione di trovarsi
di fronte a una tragica stagione di violenze. Il punto è la guerra e come – fra
le scelte disastrose dei governanti – ci fosse sia chi trovò lo stimolo per
darsi alla macchia sia chi – in un certo qual modo meno “fortunato” - costretto
a viverla nella sua massacrante quotidianità quella guerra malediva, per tanto
che potesse averla inizialmente salutata con fierezza. D'altra parte le scene
di giubilo e di allegra accoglienza riservata a dei “liberatori” - sugli
impuniti crimini dei quali Buscaroli si dilunga giustamente - non si spiegano
in altra maniera. Conta poco, su questa base, stabilire perfino“la parte giusta”,
che per la stragrande maggioranza sarà la ripresa democratica dopo il
totalitarismo fascista, magari servito con lo stesso zelo col quale saranno
serviti (comunemente si dice male) i governi democristiani. Fare di Patria,
Stato e Nazione i temi univoci di un giudizio che pretende di annettere la
condizione (e la conduzione) umana in tempo di guerra è fare un torto a quella
stessa umanità – di qualsiasi convinzione e credo, dovunque si trovasse e con
chi – che in quella guerra si trovò a vivere, se non a morire.
Biograficamente scottante e formativa che possa essere, la contrapposizione fra patrioti delle brigate nere e traditori partigiani o imboscati si trova in ogni caso a dividere la scena con altre ruggini e risentimenti. Ci sono due defunti che più degli anti-patriottici “banditi” sembrano scatenare il biasimo, l’ira, lo sdegno, la furia di Buscaroli: Indro Montanelli e Dino Grandi. Il primo ebbe il torto di suggerirgli di scrivere su “il Giornale” celandosi dietro uno pseudonimo - e non si capisce perché abbia accettato se poi intendeva coprire di ingiurie il suo morto e sepolto direttore. L’altro – il grande “traditore” del “25 luglio” – fu colpevole di spacciarsi per buon amico del padre e della famiglia, cosa che Buscaroli va negando da anni, tanto da riprodurre nel libro alcuni documenti (minacciose lettere) del tutto insignificanti, se non per meglio cogliere la del resto già palese altezzosità che contraddistingue il suo carattere (e dire caratteraccio suonerebbe impropriamente vezzeggiativo). In tema di famiglia del resto questa altezzosità l’ho percepita più ridicola che sgradevole. A un certo punto ho anche accarezzato l’idea che Buscaroli sotto sotto abbia voluto ricalcare lo stile domestico di gran signori dalla sterminata cultura e sensibilità su quello dei famigliari di Alessandro Pavolini (e non ci sta male, ci si ritrova anzi un po’ del famigerato carattere, che Buscaroli sia imparentato con Massimo Cacciari).
Ridicola più che irritante è anche la spocchia
stilistica, notoriamente connessa da Buscaroli al lignaggio di Mario Praz. Si
tratta in realtà soltanto di un'imbarazzante farragine che varie circostanze
hanno permesso in passato che se ne facesse un uso snobistico, ed è stata
questa la vera fortuna letteraria di Buscaroli. Per altro questo impeccabile e
coraggioso uomo di cultura, musicologo insieme insigne e controcorrente, sa dar
prova di tutta la sua irriducibile onestà evitando la chiara e puntuale
ammissione di aver rinforzato le memorie di un perdente con abbondanti pagine
già raccolte in volume (Figure &
figuri, Volpe 1977). L'unica sua premura - si tratti di storia, politica o
musica - sembra essere ad ogni modo assicurare quel che non capiscono gli
altri, non quello che capisce lui. Le
seduttrici (Il Borghese, 1960) le aveva capite?