Rocco Lomonaco
L.E.J. Brouwer: vita e arte mistica
L.E.J. Brouwer: VITA E ARTE
MISTICA. Adelphi, 2015
Se
il mondo fosse perfetto, non esisterebbe. Ammesso questo, pare non restasse che scegliere un proprio grado di adattamento
ad una realtà imperfetta. Giunta al tornante otto-novecento,
una selezionata discendenza dell'élite europea sembrò spesso optare, nel solco
di suggestioni schopenhaueriane, per la restituzione
del biglietto d'ingresso (ne parla Thomas Harrison nel suo 1910.
L'emancipazione della dissonanza). Diversamente da un Weininger
o un Michelstaedter, il matematico olandese L.E.J. Brouwer (1881-1966) decise
di praticare fino in tarda età (quando rimase vittima di un investimento) una
peculiare forma di astensione o distacco esistenziale che non gli evitò
equivoci o fraintendimenti occasionati da suoi interventi e dichiarazioni a
tutta prima spericolati o, si direbbe oggi, scorretti. Qualcuno provò in
seguito a confinarlo nel ruolo di caso umano, cosa non rara nella storia di
matematici o logici, dove abbondano, oltre i vertici teoretici, opinioni quantomeno discutibili in campo
pratico, tipo la convivenza tra i sessi o l'armonizzazione degli interessi tra
individui in perenne conflitto. Pretesti per avanzare in tal senso nella
biografia di Brouwer sono accertati e l'accessibilità
di Vita arte e mistica (Adelphi 2015) potrà infine confermare o fugare i
sospetti tramandati in forma di sentito dire nella gran parte dei colti finora
esclusi per propria ottusità (in primis chi scrive) dalla lettura dei suoi
scritti specialistici di logica e matematica.
Non
ci fosse stato che questo primo “visionario” libello, anche Brouwer,
con quelle apparenti aberrazioni ed intemperanze giovanili, sarebbe potuto
stare per intero dentro la costellazione della crisi di fine ottocento, ma il
fatto che, contemporaneamente, preparasse la tesi sui fondamenti della
matematica, rende il primo scritto molto più che una giovanile esercitazione
sull'impossibile coincidenza di linguaggio e verità o sull'opacità di ogni
comunicazione tra le anime.
La
verità matematica è tale se è intuizione radicata in un pensiero interiore, ben
prima della logica che eredita la contraddittorietà del linguaggio o della
scienza, segnata da volontà di persuadere e forzare l'altro. Il linguaggio è
già uscita dall'interiorità, passione e intenzione prevaricante, dunque
impossibilitato ad esprimere la vita interiore e disinteressata, il famoso
ineffabile Sé.
Proprio
perché espressione-costruzione di un progetto, il linguaggio strumentale
mediando falsifica e, nel suo rimandare all'utilità dello scopo futuro,
annienta il presente in quanto lo riduce a mezzo.
La
verità invece ha a che fare con l'emozione e la sensazione di un completo
puntuale appagamento. La sua evidenza viene prima dell'esperienza e del
linguaggio: strappa l'assenso. L' intuizione matematica richiede però lo sforzo
di rientrare in sé per poter procedere nelle sue costruzioni mentali,
indipendentemente da una logica contaminata dal linguaggio. Solo questo
consente poi alla matematica brouweriana, che non si
adegua ad un preesistente, di non essere contraddittoria nelle proprie
costruzioni.
Ogni
matematica associata a scienza e linguaggio ne avrebbe condiviso la caduta in
campo pratico; per salvarla e sottrarla ad un marchio svalutativo
occorreva darne una fondazione che depurandone l'origine ne calcasse gli
aspetti interiori e disinteressati, prima cioè che il numero, intuizione
originaria, fosse travolto nell'esteriorità per niente disinteressata della
scienza e delle tecniche.
Brouwer
invitava a saltar fuori dalla logica per fondare la matematica, senza parole, e
avvicinandosi al gesto dei mistici che tendono a dire l'indicibile, risalendo
dalla molteplicità delle immagini verso la sola astrazione che conti, prima di
tempo, spazio o percezione, toccando la quiete dell'uno dove tace la volontà
del singolo ostinato a praticare, distraendosi, il “triste mondo”. L'interiore
è la sola realtà che vale e fonda. La matematica è intuita come sciolta da
aspetti applicativi: campo di gioco e bellezza, al di là di scopi pratici.
La
tesi di dottorato, intesa a dimostrare e fondare gli enti matematici, respirava
in una concezione “morale” e astratta da ogni preoccupazione di praticità di
cui il controverso pamphlet giovanile del 1905 svelava le carte e i territori
critici, per così dire “romantici”: persuasione e religiosità da una parte,
intelletto e scienza dall'altro. Dove regna un'esteriorità logicamente coerente
non c'è vita o dolore, nell'intesa sociale tutto è concepito e delimitato nel
cervello. Tali le premesse che minacciano ogni futura costruzione o fondazione.
Solo una volta accettata e riconosciuta la natura servile e strumentale di
volontà, linguaggio e logica come fonti di discordia è possibile ritornare ad
indossare le catene del molteplice, in una libera accettazione, stavolta, di
quei vincoli che prima facevano disperare del mondo. Il riconciliato vede sì il
reale governato da follia e sventura, ma ne accetta il fato, il karma.
Schiodandosi dall'asservimento alle opere dell'Intelletto, considera la causalità del molteplice e l'eterna deriva
della realtà strumentale nel solco inesorabile dell'eterna giustizia. Egli sa
che, benché eretta, la testa simboleggia la caduta nel mondo dell'intelletto e
delle concatenazioni causali.(A margine: tagliando teste alcune popolazioni
ribadirebbero il proprio centrarsi sul cuore e dannerebbero una natura troppo
cerebrale ed evolutivamente differenziata e basata
sulla testa).
Vicino
all'uomo disilluso che ha scardinato i sistemi di vita limitata costruita
intorno all'intelletto, oltre la dedizione non c'è pari posto per la donna, pur
se essa, con la propria leggerezza, garantisce il persistere del mondo
abbracciando il karma di espiazione e fatica. Il karma della donna è il suo
sesso: come la leonessa non può agire altrimenti, al massimo scimmiotta le
professioni maschili, affrettandone il decadimento; così la svalutazione
dell'università è testimoniata dalla comparsa delle donne nel suo organigramma.
A chiare lettere: il karma della donna è la propria rovina, sia allorché
strappa l'uomo dall'interiorità traendolo verso la carne, sia quando, assumendo
ruoli maschili, li denobilita, svalutando il valore
sociale del lavoro. Né Brouwer arretrava di fronte
alle conseguenze di queste tesi: se la
dedizione della donna all'ideale maschile è santa, allora “bruciare le vedove è
un rito sacro” e vietarlo è un atto barbarico.
Estraneo
alla cultura dei diritti, il giovane Brouwer
considerava i doveri originati dalla colpa di essere nato la sola dote dell'uomo e contemplava l'umanità
che, per prolungare la vita, si mette al servizio di potenze infernali, preda
di un mondo triste e squilibrato. Impiccata al lavoro che, per progressive
astrazioni, l'allontana dalla natura, l'umanità gli appariva dominata da paura
e desiderio che le stringono il cappio. La “vita vera” allora verrà esiliata
nei romanzi, ammirata a distanza, raramente intravista nella corsa affannosa
che è la “vita reale”: qui, pure “arte e religione” sono solo industria di morfina su vasta scala
per una vita ammaestrata. Soltanto l'arte che, come la matematica, si sforza di
estraniarsi sradicandosi dall'eredità linguistica verso l'astrazione, svuota il
lavoro dell'intelletto e può accedere al Sé.
Per
questa svalutazione del mondo ordinario e strumentale l'impolitico Brouwer avrebbe continuato a stupire o “dar fuori”, come
quando, nel primo dopoguerra, propose il controllo statale sul matrimonio e la
procreazione o la rigida gerarchizzazione della docenza accademica.
A
conferma di come spesso il quadro
mistico, accompagnandosi alla perentorietà di giudizi relativamente all'ordine
pratico o sociale (alla pura e schietta convivenza) sconfini in tentazioni
eugenetiche comuni a molti scienziati “puri” scopertisi inadeguati e smarriti,
precariamente riconciliati, davanti al ritorno di un reale non proprio tutto
calcolabile.
“Fogli di Via”, novembre
2015