Eric Stark
i giardini segreti della musica
britannica
C’è ontologia e hauntology. Se la prima ci ossessiona e sostiene da
venticinque secoli, la seconda, affare di spettri e fantasmi, tematizza il
ritorno come tale e, nei recenti studi culturali anglosassoni, l’assillante
ripresentarsi di quel sano recente passato
che accompagnò gli ultimi bagliori dell’impero britannico. Ma dopo le
sfilate delle rovine di siti e stili industriali e le puntate nell’età aurea
della plastica e dei miti “spaziali” è venuto il tempo di imporre al collo più
decise torsioni. Si guarda al venerabile Beda, ai riti pagani sopravvissuti
alla conquista romana, al medioevo profondo:
al potere mitico dei paesaggi preistorici magari osservati attraverso il
prisma di A. Machen; l’oriente è Stonehenge più che Canterbury e F. Bacone. In musica ciò si traduce nella
riscoperta e frequentazione del patrimonio folk che fu già oggetto degli scavi
della generazione delle sorelle Collins, di D. Graham, di Jansch e Renbourn, di
S.Denny e R.Thompson. Ma al di là di questi nomi, che all’epoca godettero di
una sia pur ristretta visibilità, nel suo monumentale Electric Eden
(Faber and Faber, 2010) Rob Young si sofferma, oltre la minuziosa ricognizione
e mappatura del febbrile decennio creativo (1962-1972) sul ritorno spettrale di
una secolare cultura, rintracciando correnti nascoste connesse, ad un livello
istintivo e radicale, con una forma immaginativa di viaggio temporale. Nel
solco dei testi di P. Ackroyd (sulle origini dell’immaginazione inglese) e di
A. L. Morton (The English Utopia) larga parte dell’identità culturale di
quella nazione gli pare costruita sulla successione di età auree ed il futuro
stesso (all’origine di tante rivolte radicali) immaginato a partire da un
ripiegamento verso il passato: dalla medievale Land of Cockayne alla pretesa,
da parte di Winstanley e dei diggers, di una fetta di Paradiso, allo sguardo
visionario di Blake o alla nostalgia novecentesca per la Merrie England..
Ammettendo di farsi guidare nella narrazione dalle intuizioni, gli
entusiasmi e i gusti personali, Young viaggia tra quelle zone temporali e quei
paesaggi perduti sostando presso i perfumed gardens variamente
nominati nel corso dei secoli, stazioni da cui i migliori trassero forza ed
ispirazione, i peggiori una vernice di antichità o una boccata di paganesimo
dell’età buia: il senso di esilio dall’eden, sostiene l’autore, è la chiave per
l’avanzamento della musica britannica e l’Eden elettrico essenziale per
connettersi con la modernità stessa. Alla fine gli è lievitato fra le mani e
sotto la tastiera un tomo di oltre 600 pagine, con molte puntualizzazioni e
dettagliate accertamenti ma che avrebbe tratto vantaggio, in vari passaggi, da
altrettanto decise sforbiciate la cui mancanza , in certi capitoli, evoca i
contorni dell’accademia, come quando insiste sull’opposizione tra pop (dal latino populus, massa urbana) e folk (dal
teutonico Volk, con retroterra di
foreste e selvatichezza) protetto e conservato, quest’ultimo, in quanto cultura
vernacolare non ufficiale, finché musicologi tardo vittoriani non cominciarono
a setacciare le campagne in cerca di autentico
(annotando canzoni, memorie, usanze).
La musica popolare ritenuta “inconscia”, libera dall’artificialità,
pura e trasparente per essere conosciuta
e riattivata andava comunque isolata e staccata dal flusso immediato della
spontaneità orale. Ognuno ha spigolato a piacere dall’ampio canone folk e da
quando il termine “folklore” fu coniato a metà ottocento, retaggi, fonti e
tradizioni musicali saldano oltre un secolo di musica in un’unica catena d’argento
che per l’iniziatore Cecil Sharp serviva a forgiare un’identità nazionale, per
Evan Mac Coll era arma di lotta dei
lavoratori, per i musicisti spesso autodidatti degli anni 60-70 era non
solo l’idea di una musica nazionale ma l’ingrediente di un cocktail
comprendente miti celtici, indiani, psichedelia, medievalismi, Tolkien e poesia
beat.
Il produttore ed organizzatore Joe Boyd (nella sua autobiografia, a
proposito della Incredible String Band, ma il concetto vale anche per altri)
dirà: è come musica tradizionale scozzese che avesse viaggiato negli Appalachi
e fosse ritornata passando per il Marocco e la Bulgaria. Fervore e apertura
sopperivano negli anni sessanta alla limitata risonanza mediatica della
comunità folk ma neanche in quegli anni mancarono motivi-virus di una certa
diffusione come Angi di Davey Graham e Blues run the Game di J.
C. Frank.
Alla stessa strategia di sopravvivenza cooperavano la ricerca di un’
Arcadia perduta come il paradiso miltoniano e di un rifugio pastorale
preindustriale, apparentemente richiuso su sé stesso, cui non era estranea
certa retorica socialista alla W. Morris. Una radice intricata ed oscura quanto
certa nella sua anonimità dava libero campo alla fantasia e alle immaginazioni.
Come sempre, allorché viene interpretato e vissuto autenticamente, il mito
venne scoperto, adottato e forgiato
anche come risposta generazionale alla massiccia irresistibile diffusione dei
suoni americani in quanto musica
popolare globale. Quei giovani applicarono l’elettricità al continuum
visionario britannico rendendo ciò che molti definirono “folk rock” un fiume
con molti affluenti. Per misurare i passi fatti, basti pensare che ancora nei
tardi anni 40 era pressoché impossibile procurarsi una chitarra nel Regno Unito. Dopo John
Hasted, tra i primi a diffonderne l’uso al posto del banjo, come
accompagnamento di canzoni popolari, il chitarrista D. Graham si aprì alle
influenze nord-africane, medio-orientali ed indiane mentre il governo del suo
paese tentava, con la crisi di Suez, un disperato soprassalto imperiale: e
quando il jazz modale ed il revival celtico erano ormai dati acquisiti e
scontati, il suo Folk Roots, New Routes (1964) con Shirley Collins si
guadagnò la disapprovazione dei circoli puristi guidati da Mac Coll, ormai
sospettosi di una rivoluzione che dalle strade si trasferiva nella testa man mano che il repertorio “industriale”
impallidiva mentre saliva la stella della canzone “pastorale”.
La plastificazione della cultura popolare comportava la presenza di
beatnicks a Soho come già nel Greenwich Village.
Come nel grande gioco, così nel proliferare dei piccoli folkclubs si
ridefinivano geografie ed appartenenze nella scaramuccia sonora tra le chitarre
acustiche dei musicisti folk e blues e le sovrastanti e schiumanti macchine
Gaggia; contraddittorio sintomo d’apertura, l’ale cedeva province al
cappuccino. Da lì in poi, per circa un decennio, il repertorio folk fu un dato
comune alla gran parte delle bands inglesi, anche a quelle dagli esiti
apparentemente distanti (Led Zeppelin, Black Sabbath o Pink Floyd).
Unitamente alla riattivazione delle radici rurali ed agresti, negli
interstizi e nelle maglie di una nazione meno imperiale e più insulare s’infiltravano
la Britannia sconosciuta ed problematica dei riti pagani, le reliquie
misteriose ed inquietanti del “volk” germanico sepolte sotto la secolare cenere
“latina” urbana. I songs captati e variamente fissati sul pentagramma a partire
dall’ottocento funzionavano come macchine del tempo per la nuova generazione di
chitarristi e cantanti. Dai pascoli e boschi si accedeva ad un’Inghilterra
idealizzata. Saperi ed abilità immediatamente posseduti riattivavano varchi
verso un pericolante passato avvertito come precario e non scontato. Frost
and Fire, il primo album dei Watersons Family, portava il sottotitolo “A
Calendar of Ritual and Magical” dovuto al supervisore Bert Lloyd, il quale ebbe
pure modo di sondare la non calcolata perizia di quelle armonie quando, avendo
accennato al misolidio, il gruppo dovette ricorrere al dizionario per
apprezzarne il complimento.
Memorie che non volevano essere dimenticate si riproponevano più o meno
ossessivamente dando a buona parte della musica inglese di quegli anni un
carattere “fantasmatico”. Tracce malinconiche diventavano capsule per viaggi
nel tempo, avvalorando le sopravvivenze pagane nell’animo e nel paesaggio
britannici.
Anche il senso di perdita, alimentato dall’Inclosures Act (1770) che
spopolando le aree rurali ingrossò le nascenti manifatture presso i centri
urbani, funzionò da filo conduttore di una storia nascosta che da Wordsworth
arriva a Donovan. Sul filo di ripetute secessioni, all’alba degli anni 70,
tutta la musica britannica, scossa dagli innesti folk, appare a R. Young
percorsa da un “esodo” interno, con
tanti musicisti alla ricerca di tranquillità rurale (cottage in Scozia e
Galles, quando non ex-insediamenti produttivi abbandonati, meglio se vicino all’influenza
energetica di un complesso megalitico. Ma già Donovan, con i guadagni del suo Sunshine
Superman aveva acquistato tre isolette scozzesi con l’intenzione di impiantarvi l’ennesima
comunità di artisti, poeti e musicisti).
Rientra tra le felici congiunzioni di sguardi ugualmente rivolti al
passato il capitolo sull’incontro del folk con la contemporanea voga della
strumentazione arcaica . Nel viaggio a ritroso,
l’adozione da parte di Renbourn o
Jansch di strumenti divenuti esotici perché trascurati e dismessi, incrociò le sistematiche battute a tappeto
dei primi “Consorts” di musica antica guidati da Munrow o Hogwood. Tutti
coalizzati nella ricreazione di zone
temporali senza età: Anthems in Eden (1969) delle sorelle Collins
raccoglieva appunto una ghirlanda di “Anthems” prima della caduta, quando il
Paradiso ritmava il calendario agricolo della classe lavoratrice antecedentemente alla prima
guerra mondiale.
Ma il “trattamento” cui erano sottoposti i motivi folk britannici era
monitorato da gruppi ortodossi vicini a P. Seeger ed E. Mac Coll. Il grido di “
Giuda ! “ rivolto a Dylan nel 1966 rientra anche in questa dialettica fra
innovatori e “fedeli” custodi della tradizione. Dove ormai governava la
macchina discografica la promozione della personalità artistica andava a
scapito dell’anonima trasmissione collettiva, ma un Lloyd non disdegnerà di collaborare con i
Fairport Convention.
Dal momento che la pavana o la gagliarda erano pronte a scivolare in un
raga e la ballata era tentata di covertirsi in acid-jam, al folk britannico
nulla parve vietato. Esso alimenterà una propria mitologia di eroi, perdenti e
caduti altrettanto ricca di quella rock: S. Denny, Meic Stevens, B. Fay o N.
Drake saranno pure il risultato del folk posto a contatto con la scena rock
degli anni 60, ma sono innanzitutto autori sciolti ormai dal dovere di preservare
e documentare che occupava le esistenze dei primi ricercatori vittoriani, di C.
Sharp o F. Child come pure di Anne Briggs.
Va da sé che Rob Young ammette e celebra proprio lo status di
costruzione ed invenzione del folk britannico al di là delle motivazioni
iniziali post-illuministiche nate dal timore di perdere o tralasciare qualcosa
di essenziale. Il canone è quantomeno oscuramente percepito dai protagonisti
stessi come compilazione di elementi spuri e immaginativamente montati ed ogni
autentica archeologia svela un volto bifacciale, nostalgica e proiettata verso
il futuro. La perturbante invasione di musica americana venne tenuta a distanza
con personali rivisitazioni dei miti pastorali, dei viaggi oltre lo specchio e
delle reclusioni nei giardini segreti dell’infanzia già coltivati dai
vittoriani. Occorreva risvegliare l’archetipo dormiente di Albione (se ne
ricorderà A. Hutchins richiamandone la venerabile antichità quando allestirà la
sua Albion Country Band) ed offrirne i balsami ad una nazione malata,
convalescente dopo il 1945 ma alle cui spalle stavano pure due eventi capitali
traumatici come l’abbandono delle campagne per i centri industriali ed i
massacri della grande guerra (allorché il palo del calendimaggio sarà
sostituito dal monumento ai caduti, nuovo centro “memoriale” del villaggio). Il
sommesso rifiuto di certo milieu underground anti-autoritario cresciuto nei
folk clubs si alimentava a questo spirito “radicale” spingendosi fino alle
visioni di una nuova società esaltate e tradite nei raduni e festival di
Stonehenge e Glastonbury. Temi mistici ed occultistici, prima nascosti e poi
apertamente assunti ed amplificati (vedi Hearken to the Witches Rune di
Dave e Toni Arthur) verranno trasmessi alla scena rock, che ne declinerà su
scala più spettacolare le tante versioni demoniache.
Molti gruppi oscilleranno tra il “ Do as thou wilt “ di Alesteir
Crowley e il “ Do what you like “ del Cappellaio Matto. Qualcuno aiutato dalla
chimica e pensando di rendere il mondo un paradiso comportandosi come se
lo fosse ci lascerà le penne, altri giocheranno per loro fortuna con rituali e
rappresentazioni. Graham Bond esorcizzava gatti, i Black Widow chiesero la
consulenza del prete wicca Alex Sanders per simulare sul palco il sacrificio di
una vergine nuda, spianando la strada alle truculenze inessenziali delle prime
metal bands.
Al confronto l’esoterismo cameristico della Third Ear Band era
destinato alle sopravvivenze dei culti minori nonostante i suoi comprovati
legami con sopravvissuti ordini druidici e i motivati interessi medievalistici
(esplicitati nel soundtrack per il polanskyano Macbeth). Le sue fragili
sonorità si sarebbero perse nei campi di concentramento psichedelici noti come
festival pop, pur se i partecipanti avevano adottato la V di Churchill come segno di pace favorito
(e all’origine di uno dei più durevoli raduni di massa d’oltremanica vi fu
proprio una nipote del grande conservatore). Il 1972 fu l’anno di crisi
irreversibile (lo stesso in cui chiuse un club storico come il Cousins).
Già nei Comus, pur nutriti dalle radici acustiche di I.S.B. e Pentangle,
germogliava la reazione al sentire hyppie; le loro accensioni isteriche
prefigureranno insieme agli Spirogyra, a Billy Fay e a Roy Harper gli esiti
disperati del recente folk apocalittico.
Il ciclo potè dirsi concluso con il riassuntivo e collettivo Electric
Muse (dischi e libro) del 1975, dopo di che i vorticisti/futuristi punk
spazzeranno via gli usurati folkettari georgiani. Sotto la pesante
ristrutturazione thatcheriana a Peter Bellamy non rimarrà che convocare, alla
veglia per la morte del revival, un manipolo di duri e puri (tra gli altri J. Tabor, N. Jones, M. Carthy,
N. Waterson) incaricati di evocare altre sconfitte e deportazioni (The
Transports ,1977).