“L’europeo”, il bel settimanale di Rizzoli fondato nel 1945 da Arrigo Benedetti – uno dei più raffinati rotocalchi al mondo - verso la metà degli anni Sessanta occupava le pagine centrali con un fascicolo estraibile dedicato alle grandi mostre d’arte. La nostra emeroteca dispone di alcuni di codesti fascicoli sciolti i quali, purtroppo, sono privi di ogni indicazione circa il numero della rivista e la sua data di pubblicazione. Benché quello dal quale estraiamo l’articolo qui riportato (con qualche piccolo taglio di alleggerimento) parli genericamente di una “grande mostra del surrealismo aperta a Parigi”, gli argomenti non lasciano alcun dubbio sul fatto che si tratti della mostra Le Surréalisme: sources, histoire, affinités allestita presso la Galerie Charpentier nel 1964 a cura di Patrick Waldberg (testi in catalogo dello stesso Waldberg e di Raymond Nacenta). Il testo ha magari i limiti del pezzo giornalistico, ma sarebbe sconveniente sottrarlo al suo contesto, imparagonabile alla dovizia degli attuali studi e strumenti informativi. Conserva piuttosto una sua rilevanza anche quando si volesse ipotizzare una troppo rapida, e perciò ingannevole, trascrizione delle diverse dichiarazioni. Come dimenticare, d’altra parte, che si tratta di una testimonianza inerente all’ultimissimo scorcio della vita di Breton, morto nel 1966?
Breton versus Waldberg: interviste incrociate
(titolo
redazionale originale: nella tana degli snob)
Alla Galleria Charpentier, in rue Faubourg Saint-Honoré, è stata aperta una mostra dedicata al movimento surrealista organizzata da Patrick Waldberg. Prima ancora di essere aperta al pubblico questa esposizione ha scatenato forti polemiche: essa non ha avuto infatti l’approvazione del vecchio gruppo surrealista, un gruppo assai vivo anche ora, che ha il suo quartier generale in una sala del caffè Promenade de Venus. Sempre aggressivo André Breton, celebre poeta e capo riconosciuto del movimento
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Patrick Waldberg non sbaglia quando dice che “in nessuna occasione sono state esposte opere surrealiste di così grande qualità, formato, varietà, in un ambiente che sembra fatto apposta per valorizzarle”. Non corre il rischio di una smentita quando afferma che la sua mostra gode della fiducia e del sostegno assoluto di Marcel Duchamp, Max Ernst, Jacques Prévert e di altri. “Il surrealismo”, egli dice, “è entrato nella storia e la nostra epoca, che lo si voglia o no, porta la sua impronta. Io ho preparato questa mostra in uno spirito di assoluta obbiettività”.
Ma cosa pensano di questa mostra i surrealisti e, in particolare, André Breton?
“Ecco l’equivoco”, dice Breton. “E’ vero, il surrealismo è, in un certo modo, diventato un fatto di pubblico dominio. Anche se noi non ci siamo mai serviti di un marchio speciale che legittimasse come surrealisti certi quadri o certe opere. In ogni modo, è vero che io sono stato messo al corrente del progetto di Waldberg ma il nostro gruppo non è stato consultato. Waldberg non può quindi parlare di obbiettività dal momento che ha organizzato la sua mostra senza consultare gli autori che avrebbe esposto, ma chiedendone le opere ai collezionisti”.
André Breton precisa di non poter esprimere giudizi su una mostra che non ha visto e che non ha nessuna intenzione di visitare. Dunque è il principio informatore della manifestazione che egli non condivide?
“Sì. Non contestiamo l’abilità di Waldberg, ma la sua qualifica. D’altra parte che la mostra sia organizzata da lui o da un altro ha poca importanza. Io sono ostile, comunque, allo spirito di un’esposizione come quella. Perché? E’ facile a dirsi. Le cinque o sei esposizioni ufficiali del surrealismo organizzate dopo quella del 1938 alla Galleria Wildenstein hanno sempre tentato di dimostrare al pubblico come il movimento surrealista si pronunciasse o volesse pronunciarsi su questo o quel problema del momento. Si sceglieva un tema e si organizzava la mostra con lo scopo preciso di illustrare quel tema. Nel 1962, ad esempio, a New York, il tema era: “Le tournoi des enchanteurs”; due anni prima, nella galleria di Daniel Cordier, si era affrontato l’argomento dell’“Erotismo nel surrealismo”. In questo modo si evitava la confusione e lo scontro delle materie. Nessuna mostra surrealista ha mai avuto un carattere antologico, perché il surrealismo non è qualcosa di generale, fisso, definito e glaciale”.
Il surrealismo è dunque un movimento ancora vivo del quale non si può fare un bilancio?
“La parola bilancio fa parte del linguaggio commerciale. A Baudelaire non piacevano le metafore militari, a me non piacciono quelle commerciali. Il bilancio è una resa dei conti. E io non ho alcuna intenzione di liquidare il surrealismo. Il surrealismo esisteva prima di me e si suppone che debba sopravvivermi”.
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I surrealisti sono cattivi quando ci si mettono. Ma Breton è qui, vivo davanti a me, e mi spiega che il surrealismo non è morto. Nonostante i suoi sessantott’anni, Breton possiede ancora una forte capacità di attrazione. In altre parole è ancora un bell’uomo. Come è bella la donna che vive con lui e che gira su e giù per la stanza con un pappagallo in mano. Vicino a breton ci si vergogna di essere così poco surrealisti, così poco disponibili alle soluzioni radicali, così alienati nel compromesso che intesse la nostra vita quotidiana.
“Il lavoro dei surrealisti, che dura da molto tempo e che ha avuto momenti assai pericolosi, è sempre stato guidato da uno spirito d’avanguardia. Noi non vogliamo che questo spirito si spenga. Costi quel che costi, il surrealismo deve essere sempre la punta estrema di una certa avanguardia. Mi rendo conto che mi sto spiegando molto male. Ma sono sempre stato uno dei peggiori improvvisatori del mondo. Può sembrare strano per l’uomo che ha esaltato la scrittura automatica. Invece il paradosso è soltanto apparente perché, in sostanza, l’improvvisazione complica, confonde i percorsi della scrittura automatica”.
In che cosa consiste l’attività odierna dei surrealisti intesi come gruppo? Da che cosa si riconosce l’appartenenza a questo gruppo e chi decide l’eventuale esclusione di uno dei suoi membri?
“I surrealisti si riuniscono regolarmente. Si interrogano l’un l’altro su tutti i problemi, ora per ora. Esprimono il loro parere su una rivista che cambia con il tempo, anche il nome, che ora è “La brèche” e che una volta si chiamava “Medium“ ”.
C’è qualcosa di deliberato nelle mutazioni periodiche del giornale dei surrealisti?
“No. Sfortunatamente ciò dipende dallo scarso numero di coloro che sono decisi a capirci: una volta erano cinquecento persone, ora sono tremila o quattromila. Quando escludiamo qualcuno dal movimento ne diamo notizia sul nostro giornale. Ogni esclusione del resto è la conferma ufficiale di uno stato di fatto. E’ stato così, per esempio, nel caso di Max Ernst. Ernst aveva svolto un ruolo troppo attivo nel nostro movimento perché tollerassimo che sollecitasse e ottenesse il premio della Biennale di Venezia. Avevamo il dovere di non demoralizzare i giovani. Dovevamo dimostrare che un surrealista non è libero, nemmeno quando la sua vita sta per finire, di diventare un pittore o un poeta ufficiale e di comportarsi come tale”.
E l’Accademia di Francia?
“Non ne parliamo neppure. Pensiamo piuttosto ai giovani artisti e ai giovani scrittori del movimento surrealista. E’ tutta gente che, in altre circostanze, si sarebbe fatta conoscere molto prima. Ma il loro riconoscimento è impedito da chi detiene il potere ufficiale della cultura. I giovani surrealisti non figurano nel catalogo della Galleria Charpentier. Una cosa è certa di quella esposizione: il surrealismo è scomparso da tempo nello spirito di chi vi partecipa. La mostra di Patrick Waldberg è fatta senza il vero surrealismo”.
La presa di posizione di Breton era prevista ma egualmente ha suscitato molto rumore e ha provocato un certo imbarazzo in Patrick Waldberg. Anche il direttore della Galleria Charpentier si è sentito in dovere di reagire, se pure con il atto che distingue, ormai per tradizione, i rappresentanti della più illustre e sofisticata sala parigina d’esposizione. Breton, infatti, non ha attaccato direttamente la Charpentier, ma lo hanno fatto i suoi seguaci e senza badar troppo alle buone maniere.
“Ve l’immaginate”, ripetono i giovani surrealisti legati a Breton, “una mostra del nostro movimento nelle sale accademiche e preziose della Charpentier? Che senso ha predicare e inveire per anni contro lo snobismo e la moda per finire poi nella tana degli snob? La nostra reazione sorprende? E allora vuol dire che non si è ancora capito, o si fa finta di non capire, che cosa significhi un vernissage alla Charpentier, con i biglietti venduti sottomano a cinquanta nuovi franchi l’uno, le signore eleganti, i troboni e i pompieri, insomma tutta quella gente contro la quale il surrealismo combatte … Waldberg dice di avere l’approvazione di Max Ernst, di Prévert, di Duchamp. Ebbene, tutta gente che è fuori del movimento surrealista. Gente cacciata, espulsa, radiata”.
Bisogna riconoscere che Nacenta ha ribattuto con molta pacatezza a questi sfoghi … “Nel 1938”, ha osservato Nacenta, “i surealisti hanno fatto la loro Exposition-Manifeste alla galleria Wildenstein, poche centinaia di metri dalla Charpentier. In pieno Faubourg Saint-Honoré. All’inaugurazione ci furono signori in frac e dame scollate, mondanità ed eleganza. Ci furono tromboni e pompieri a battaglioni. Ma Breton non trovò nulla a ridire. Gli andò benissimo quel pubblico, quell’ambiente e quella strada. C’è coerenza?”.
Waldberg cerca su un altro terreno la sua difesa. A chi, nelle sale della Charpentier, gli parla di Breton e della sua presa di posizione non ricorre a paragoni con altre mostre approvate dagli “ortodossi”. Con un ampio gesto del braccio indica gli oggetti e i quadri esposti. “Questa è la mia risposta”, dice. E continua. “mai prima d’oggi, il pubblico ha avuto a disposizione una documentazione altrettanto ampia, ricca e completa del movimento surrealista. Abbiamo ordinato la mostra con coscienza storica, senza tener conto dei bollettini che Breton va pubblicando sulle sue riviste. Non è un’esposizione di “tendenza”: è una grande rassegna di testimonianze e documenti. Certo ci sono anche gli “scomunicati”, come Max Ernst. E perché non dovrebbero esserci? Se a un certo punto, per la faccenda del prmio alla Biennale di Venezia, Breton ha creduto giusto di estromettere Ernst dal movimento, per questo tutta la sua opera autenticamente surrealista deve essere ignorata, distrutta, esclusa da una rassegna storica? Non credo che nessuno possa chiederci questo. Mancano i giovani, dice breton. E io rispondo che questa è un’esposizione prospettica del surrealismo. Qui si documentano le origini e gli sviluppi del movimento, cioè si testimonia il peso che esso ha avuto nella storia della nostra cultura e della nostra civiltà. Non è un “salon” di giovani speranze, di promettenti talenti. Quanto è qui alla Charpentier appartiene, in un modo o nell’altro, alla storia del Novecento”.
All’affermazione di breton che la grande mostra rappresenta un “bilancio” del surrealismo e che il bilancio è sempre l’atto conclusivo di un’attività, Nacenta risponde dimostrandosi molto meravigliato. “Ognuno può dare alle parole il significato che crede”, dice, “e Breton può affermare che bilancio e fine dell’attività sono la stessa cosa. Evidentemente non sa che le grandi (e le piccole) società industriali e commerciali fanno ogni anno il loro bilancio non per chiudere, ma per andare avanti. A Breton non piace la parola bilancio. Dice che appartiene al gergo commerciale. … Neanch’io amo le metafore commerciali e allora ci tengo a dire subito che la parola bilancio l’ha tirata fuori breton. Né Waldberg né io l’abbiamo usata per parlare della mostra”.
Questi i termini della polemica che ha tutta l’aria di una lite in famiglia, quindi piena di implicazioni, di cose non dette, di risentimenti nascosti (o noti soltanto agli interessati). Adesso la parola è ai critici e al pubblico. Mentre Breton sta chiuso nel suo risentito isolamento, mentre Nacenta e Waldberg difendono la loro mostra, il pubblico affolla interessato le sale della Charpentier e i critici hanno modo, per la prima volta, di osservare e giudicare le opere che hanno fatto la grandezza e lo scandalo del surrealismo.