Jean Montalbano

Bouvier sulla strada

Un articolo sull' Illustrato Fiat del 1955 firmato Nicolas Bouvier ed intitolato Viaggiare...lentamente rappresenta forse il primo testo italiano dello scrittore ginevrino: corredata da foto scattate durante il viaggio ma soprattutto da una posa immortalante uno sciccoso Bouvier appoggiato alla sua Topolino nel salone Fiat di Bombay (gestito da un conte fiorentino) la pagina riporta per brevi cenni l'impresa di Bouvier e Vernet cominciata a Ginevra due anni prima con il necessario per dipingere, un registratore Nagra, una fisarmonica, una chitarra, una macchina da scrivere, oltre il solito bagaglio (ed un buon numero di lettere di presentazioni tra cui quelle di Ella Maillart) tutto stipato in una Fiat 500 A con alle spalle già due proprietari e più di 40.000 chilometri. Il duro viaggio attraverso Jugoslavia, Anatolia, Kurdistan, Iran e Afghanistan dei due amici di una vita può dirsi concluso in vista del subcontinente indiano perché il pittore Vernet volerà a Colombo (Ceylon) dove l'aspetta per sposarlo la fidanzata Floristella mentre lo scrittore e fotografo Bouvier, malconcio per ricorrenti febbri, dopo Kabul si sposterà a Delhi e Bombay per far revisionare (gratuitamente: altri tempi) l'altrettanto disastrata Topolino e tirare su un po' di grano con articoli e conferenze, prima di raggiungere i freschi sposi.

Le soste nelle città per "riprendersi" occuparono gran parte del viaggio assaporato con lentezza. Tappe ed oasi in cui ci si "riempiva" come cammelli e si imbastivano piccoli lavoretti (articoli per la stampa locale, esposizioni o addirittura esibizioni) resi possibili o facilitati anche dalla nazionalità elvetica e dalla fitta rete di istituzioni culturali di lingua francese. Frequentazioni (e fermate) non dettate da scelte populiste ma perlopiù dalle necessità (ristrettezze) della borsa e geopolitica appresa sulla propria pelle se, appena messo piede in India, Bouvier avvertirà la fine dell'egemonia francese e dovrà arrendersi alla tecnica dilatoria anglo-indiana.

Il massiccio tomo (oltre 1500 pagine) di corrispondenza tra Bouvier e Thierry Vernet, che le Éditions Zoé pubblicano, Correspondance des routes croisées, copre il ventennio dal 1945 al 1964, dettagliando occupazioni creative o attività alimentari, frequentazioni, preferenze e ripulse, dalle confidenze e dagli ultimi fuochi adolescenziali fino alla data di pubblicazione in Francia del libro che, dopo otto anni di elaborazioni e ripensamenti, tra le braci controllate delle maturità, concluse, per così dire, la scoperta dell'oriente. Dal 1945, allorché il futuro contempla "altrettante possibilità quante sono le strade su di una cartina Michelin" al 1964 che nel libro-ricordo prolunga il gran viaggio e ne riattiva i benefici.

Stupisce in soggetti così giovani la determinazione a farsi strada forti del consapevole possesso di doti ed ingegno ma pure, riflettendovi, del contesto parentale, di tradizioni rivendicate prima che ripudiate, di un "capitale sociale" cui ricorrere quando qualche porta si ostinava a restare chiusa. Facile richiamare l'educazione ginevrina ed accusare un vizio precoce di autoanalisi quando si legge il giovane Bouvier scrivere all'amico:"Dobbiamo batterci per non essere mediocri". Ma sarebbe trascurare le segrete fedeltà che tengono lontato l'orrore della maturità riuscita e finita, quelle tradite e rimpiante tra le righe di un Bernanos subito sottolineato: "Ma il più morto dei morti è il ragazzino che fui".

Prontamente complici negli anni del collegio, i due sognarono viaggi e avventure senza nessuna esibizione di marginalità o rottura urlata con l'ambiente d'origine e comunque Bouvier prima dovrà addottorarsi in lettere e diritto (per qualche tempo penserà pure di trasferirsi a Genova per studiarvi diritto marittimo ospite di "casa Schiaffino") mai perdendo di vista la stella che ne orienterà la vita:

partire per sottrarsi alla pesantezza borghese e all'incasellamento professionale, verificando i viaggi infantili compiuti su libri e atlanti (il padre di Bouvier, bibliotecario, non gli fece mancare i giusti stimoli) mentre la scrittura opererà lo scioglimento e la risoluzione, ad un superiore livello, dei motivi e spunti di partenza. Non tanto viaggi di piacere, le puntate solitarie o in gruppo in Nordafrica o Lapponia saranno solo un assaggio delle strade polverose del biennio '53-'55 cui tacitamente verranno commisurati i dubbi e le ambizioni successive. Bouvier, già di ritorno a Ginevra dalla Finlandia (1948) si sente come l'Hurone di Voltaire, che con le sue domande mette a disagio chiunque, arrivando a confidare: "è come se avessi sulle spalle un sacco di cose incomprensibili da chiunque". E Vernet che ha già interrotto gli studi per saltuari lavori artistici (incisione e disegno) da Parigi lo rincuora confidandogli: "forse il mio solo titolo di gloria sarà di averti conosciuto" ma pure lucidamente sottolineando: "il principale obbiettivo non è arriver, aver successo, ma mantenere le promesse fatte a diciassette anni". Il reciproco sostenersi ed incoraggiarsi vale come antidoto al comune timore che, con l'usura della vita ed un fatale cedimento, ci si accontenti di "ciò che non si voleva essere" (parole del conterraneo Ramuz). A contrappunto dei rari momenti di "ottusa" salute, segnali di sventatezza ed inquietudine, che li esiliano dal focolare protettivo e risanatore, punteggiano le lettere, come quando la "perspicace morfina" (somministrata a Bouvier per l' intervento ad un ginocchio durante il servizio militare nel "formidabile esercito svizzero") viene definita "mirabile accessorio per la conoscenza".

Ma lungo l'intero scambio di messaggi restiamo ammirati per la qualità delle scelte e la sincerità dei proponimenti che i due amici si confidano. Se ascoltano Bach, allora è quello diretto da Scherchen, se leggono di cinema sono le recensioni di Truffaut su Arts e se ci vanno, al cinema, sarà per segnare il distacco dalla moda esistenzialista. Così dopo la visione di un film tratto da Sartre: "l'unhappy end sistematico dei Francesi comincia a rompermi. Lo scacco come tesi, l'incomprensione come insegna..." fino a riconoscere che certo "gusto del pavé" di solito abbonda tra chi "vive sulle moquettes". Come si sarà intuito, circola, per tutte le pagine un'aria che interroga e confonde la pigra spocchia di chi ancora si contenta del motto usurato di Greene, messo in bocca a Welles, sugli svizzeri "solo" creatori di cioccolato e cucù.

Per Bouvier, il viaggio apporta la rivelazione e certifica che i ponti ormai sono tagliati e la distanza tra la famiglia e il lavoro scelto (la scrittura) si è fatta troppo grande. Così, senza recriminazioni e senza addossare colpe, mentre ammette gli smacchi ed i colpi ricevuti riconosce che quella "crudeltà" scoperta viaggiando c'è, esiste ma che poi, al di là, c'è pure dell'altro ovvero "quella poesia mongola ed invernale, dei riflessi azzurri inauditi sulle moschee, che salvavano ogni cosa, per sempre". Oltre che trarre un senso ed una conoscenza di sé attraverso lo scrivere, il difficile sarà proprio dire quest'altra cosa, facendola intuire a chi è rimasto a casa; arduo sarà giusto distillare del "lirismo produttivo" a partire dalla propria solitudine (scriveva da Ceylon).

L'Usage du monde (che in Italia fu reso disponibile dall'editore Diabasis) venne subito pensato come prolungamento stampato del comune tragitto, nascendo e cristallizzandosi (testo, suoni e disegni) durante il percorso da Belgrado a Kabul.

Il Bouvier che tentava di piazzare articoli al ritorno da ogni fuga sapeva, dapprima oscuramente, che il viaggio non si basta, tendendo a concludersi sulla pagina scritta dopo una spesso faticosa e paziente decantazione. Non dire parola, dopo essere andati, è voltare le spalle alla stessa impresa, tradendo l'intenzione e le doti personali (scrivere, dipingere, fotografare) che consentono di incorporare e comunicare l'evento.

L'incompletezza del solo andare chiama alle fatiche della messa in forma esigendo per sovrappiù la trama di un libro totale da cui niente sia escluso. Il viaggio rifatto in pagina sarà informazione, presentazione e narrazione allo stesso tempo.

Superate le molte perplessità ed i ricorrenti tentennamenti su quanto sia da "bottegai" l'ostinarsi a trarre partito da ogni cosa e le tentazioni di lasciar perdere tutto, il libro giustificherà fondatezza e decisione di partire e varrà come ringraziamento e lode del mondo e delle sue bellezze.

L'occhio è sempre occhio che scrive (François Laut) e l'imperativo estetico prevale (anche nei successivi Pesce-Scorpione o nella Cronaca giapponese) sulla fedeltà autobiografica. Il profitto simbolico è parte del viaggio.

Dunque non ci sono viaggi di piacere e viaggiare erode un poco, distrugge e dunque allena alla sparizione (è accettazione della perdita e limatura di sé, giusta la nota immagine della saponetta-osso di seppia levigata dall'uso); è il viaggio stesso a vantare il diritto di distruggerci, consumando e disperdendo le piume (vanità) del pavone dopo averci sradicato, col rischio pressoché scontato di restare, terminato il viaggio, con " l'insufficienza centrale dell'anima " che è forse il nostro motore più sicuro.

Questo è forse l'aspetto più problematico delle riflessioni di Bouvier e travalica l'argomento su cui si dilungano le pagine della corrispondenza: nonostante qualche mente fuorviata tuttora si illuda di incontrare il divino nei deserti algerini, quanto valgono ancora certi ripetuti appelli alla passività, alla fragilità, al vuoto, alla cancellazione di sé oggi che la via dell'autoflagellazione e dell'occultamento del punto di vista europeo si rivela compiutamente impotente, dopo decenni di entusiastiche pratiche ascetico-buddistiche?

Ma sarebbe caricare di troppe intenzioni la pagina asciutta e limata del Bouvier che sottolinea di cercare il mondo "nella trasparenza e semplicità originali", lodando "la trasparente evidenza del mondo... la quieta coappartenenza".

Lui si limitava a raccontare la terra e ad amarla incitando a percorrerla in profondità.