Nella seguente lettera l’autore di Rubè e di Goliath confida a George La Piana – già sacerdote cattolico in odore di modernismo, corrispondente, fra gli altri, di Ernesto Buonaiuti  – le proprie opinioni su Benedetto Croce, anche con tratti e confidenze personali. Sia Borgese che La Piana erano emigrati in America (Borgese nel 1931, oppositore del fascismo) e lì proseguirono nell’insegnamento universitario, il primo nelle Università di California e di Chicago, l’altro ad Harvard. È nella Theological Library di questa Università, dove è conservato il fondo La Piana*, che il nostro Pierangelo Castagneto ha recuperato il documento.

Giuseppe Antonio Borgese

lettera su Croce

 

Post Office, Siasconset, Mass.

2 Agosto '32 (e seguenti).

Caro La Piana,

prima di tutto un fatto personale. Probabilmente il Croce non ha mai voluto a un giovane il bene che volle a me appena mi conobbe. Questo sentimento non ebbe un carattere soltanto intellettuale, ma affettivo; e si estese a persone a me care. I turbamenti che seguirono e che non sono mai cessati sono perciò fra gli avvenimenti meno lieti della mia vita. Le origini sono nel desiderio del Croce di prendere possesso di una personalità e di manovrarla a suo modo. Io avrei dovuto far così, pensar così, ecc. ecc.; in compenso, sarei stato il primo dei suoi scolari, il suo continuatore, e un giorno sarei anche stato il direttore della Critica. Soprattutto avrei dovuto rinunziare a qualunque velleità artistica, ed essere nient’altro  che critico e insegnante. Non nego nelle mie reazioni che a questo spirito di dominio ci sia stato qualche scatto d’intemperanza giovanile. Poi venne una speranza di ripresa; al Croce piacque Rubè, (sebbene non l’abbia mai detto un pubblico), e per un po’ di tempo smise di punzecchiarmi ed offendermi. Poi ricominciò. Inutilmente gli ho fatto dire, e anche gli ho scritto (partendo dall’Italia), che egli portava acqua al mulino dei manigoldi che mi torturano. Tacque per alcuni mesi. Nella “Critica” di marzo c’è di nuovo una battuta villana (e non molto intelligente) contro di me.

Posso ciò non pertanto essere equo? Io credo di sì; e sono sicuro di non sentire rancore. Più ancora che ammirazione, io ho simpatia pel Croce. Mi farebbe molto piacere, sto per dire piacere fisico, d’incontrarlo e di sentirlo discorrere a lungo. La sua mente ha, fra l’altro, una qualità affascinante: la ricchezza e varietà della memoria. La sua parola ha qualche volta accenti caldi, convinti, appassionatamente morali; più spesso è trascinata dallo spirito polemico, sarcastico, anche sardonico, non molto pietoso; e nella sua voce predominano timbri acri.

Molto della sua carriera e della sua influenza deve riportarsi, come sempre, alle prime esperienze. Se sa una parte egli era legato al liberalismo (autoritario) degli Spaventa, d’altra parte era di discendenza borbonica; e quest’impronta non mi pare che si sia mai cancellata. E non gli è mai riuscito nemmeno (né ha mai tentato) di liberarsi del segno dogmatico impressogli dagli anni di educazione clericale. Inoltre, è stato sempre “signore”, il che a Napoli e nel vecchio regno ha un particolare significato. Infine, dal Carducci, poeta della sua giovinezza, trasse un impulso neo-pagano (che in lui si è trasformato e travestito in filosofia, abbandonando ogni suppellettile archeologica e retorica).

Il suo gusto poetico è molto intenso e sincero, ma molto limitato, godendo soprattutto della poesia elementare e “primitiva”. Come letterato e scrittore egli ha il merito -incalcolabile- di avere ricostruito, dopo gli eccessi gladiatori del Carducci e contro il lezio dannunziano, il gusto di una sana prosa discorsiva. Negli ultimi libri essa è diventata troppo facile e convinta, troppo sufficiente: come un flutto eguale che non ammette intoppi e dubbi.

Ti scrivo come capita, senza nessuna pretesa di ordine. Psicologicamente il Croce giovane è prima di tutto un signore ribelle. Ciò che comanda, la borghesia ottocentesca, gli è odioso, in tutte le sue manifestazioni, culturali e politiche. Perciò il suo socialismo, che ha quello strenuo carattere nobiliare e pugnace (niente del sentimentalismo deamicisiano), perciò l’interruzione degli studi regolari, il rifiuto della carriera dell’insegnamento, e l’assalto alle posizioni acquisite della cultura e dell’Università, fatto con una violenza da spedizione punitiva. Il suo stile polemico fu sempre accanito; la sua massima fu “rispondere sempre.”

Filosoficamente, le sue più belle pagine –d’intonazione, tutto sommato, kantiana- si trovano nella Filosofia della Pratica; il suo trionfo fu nella formula intuizione = espressione, nella divulgazione enorme dell’Estetica, che forniva l’esplosione naturista e primitivista del dannunzianesimo, e che forniva le basi ai movimenti successivi: futurismo e frammentismo. Le origini di essa, oltre che nella temperie dell’epoca e nella notevole parte di verità che contiene, sono nel particolare gusto poetico del Croce e nel suo impulso contro la cultura universitaria, allora dominata dallo storicismo, dall’erudizione, dalla ricerca delle fonti, ecc. tutto il suo procedere in pubblico ebbe un carattere insurrezionista, di colpo di mano –potenziando l’esperienza dannunziana, che era, da questo punto di vista, nella stessa direzione- e s’impresse potentemente nella fantasia dei giovani. Inoltre, egli non solo non contrastò, ma favorì (si veda il modo in cui è concepita la parte storica dell’Estetica) una forma di proselitismo e adulazione secondo cui tutta la storia della filosofia, anzi dell’umano pensiero, è rappresentata come un lungo andirivieni di errori e di presentimenti, al termine del quale si trova finalmente la verità fiammante: Croce. (Allo stesso modo, nel campo finitimo, tutta la poesia universale sboccava in D’Annunzio). Un atteggiamento simile, s’intende, era stato preso da Hegel e da altri filosofi; ma in questo caso l’importanza filosofica era di gran lunga minore che nel caso di Hegel, e le conseguenze educative, e diseducative, furono di gran lunga maggiori. Infine, l’educazione aristocratica e clericale aveva insegnato al Croce a non mai riconoscersi in errore, a non mai ammettere un pentimento (ogni italiano, di regola –dico io- nasce papa, salvo più tardi, se gli riesce, a diventar sagrestano). Il Croce può profittare delle obiezioni dei suoi critici e avversari; ma non mai riconoscerle; ogni suo nuovo dogma ha la pretesa di assorbire il dogma precedente, anche se è con esso in contraddizione insanabile. Se fu regola del dannunzianesimo che ogni opera del Maestro era capolavoro e, rispetto ai capolavori precedenti, supercapolavoro, fu regola del crocianesimo pensare che Croce ha sempre ragione (Augusto Turati formulò, alquanti anni dopo, lo slogan: Mussolini ha sempre ragione) e che le sue contraddizioni trascendono la competenza dei profani.

Questo dogmatismo verticale, anzi piramidale, si giustifica filosoficamente col metodo del superamento hegeliano: il filosofo che pensa la verità è, nel momento in cui la pensa, al vertice dell’evoluzione umana. L’intolleranza dell’opposizione, anzi la lotta senza quartiere contro di essa, si giustifica col principio hegeliano (ma prima che hegeliano, cattolico) che ogni errore intellettuale implica un errore morale. Ciò non diminuisce l’enormità del porre noi stessi, gli empirici noi stessi, al vertice della storia, e del far coincidere le nostre opinioni d’oggi con la suprema verità. In complesso, questo metodo conquistatore e sterminatore ha diseducato una generazione dalle idee di libertà e di giustizia, o ha contribuito fortemente a diseducarla da esse.  

Ciò vale per il temperamento del Croce. Il suo carattere è di gran lunga superiore, e nessuno può onestamente rifiutare stima, anzi reverenza, a una vita passata esemplarmente fra i libri; in studi nobili e disinteressati; una vita sobria, praticamente modesta, priva d’epicureismo, di sfarzo, di voluttà. Anche i lunghi anni che il Croce visse in concubinaggio con una bella donna romagnola non mancarono sostanzialmente di decoro. Sostanzialmente egli risolveva in quel modo il problema sessuale del lavoratore; appagando i sensi nel modo sentimentalmente e socialmente più economico, per essere tutto al lavoro. Più tardi -morta quella donna, verso la quale fu gentile e paziente- sposò una modesta studentessa torinese, dalla quale ha avuto quattro figliole (un bambino gli morì quasi in fasce), ed è tenerissimo padre. In molti casi è stato benefico, e generoso di danaro e d’altri aiuti. Salvo i casi di furor polemico, che può accecarlo, il suo gusto morale è sano e incorrotto; entusiasta del bene, sdegnoso del male, immune di sadismo e di bassezza, anche  -senza smancerie- sensibile e pietoso. In questo campo, egli è veramente e sinceramente Antidannunzio; anche se, per ovvie ragioni, l’efficacia di questo esempio non ha potuto essere che di gran lunga inferiore a quella della sua acredine polemica e della sua volontà di potenza.

La sua filosofia sorge dal bisogno di mettere ordine nella sterminata ricchezza della sua memoria giovanile, di disciplinare la sua curiosità del singolo fatto, di superare lo stadio dell’erudizione collezionista. E’ come se egli si fosse proposto di mettere ordine nella sua biblioteca. Ma, appunto, ne risulta un mondo a scaffale, o a compartimenti stagni (dialettica dei distinti invece che dialettica degli opposti), ch’egli non ha mai portato ad unità. Egli ha diviso il caso in un certo numero di  spicchi (generalmente quattro); ma questa non è, se mai, che un’operazione preliminare a quella che cava un mondo dal caos. L’aver posto la poesia e la politica al di fuori del campo della morale ha giovato fortemente al dannunzianesimo e al fascismo. E tutta la sua posizione antifascista è viziata dal dogma neohegeliano della sua filosofia, secondo cui il razionale coincide con il reale: dogma non mai rinunziato e smentito. In questa direzione egli giunse di buon’ora alla identificazione di storia e filosofia; il che conduce a un nuovo empirismo, cioè a una ripetizione  (benchè a livello superiore) dello stadio erudito. I suoi libri storici, ammirabili per altre ragioni, non si sa bene di dove attingano il criterio di giudizio, se non -felix culpa questa volta- dall’impeto del suo gusto morale che sorpassa l’obbligo filosofico di accettare con ossequio tutto ciò che è avvenuto ed avviene. D’altro canto, l’abitudine meditatrice e filosofica gli ha diminuito il gusto del racconto; sicché i personaggi e i fatti non sono che labili ombre dentro il fitto tessuto del discorso.

Politicamente, dopo il primo periodo marxista o neo-marxista che ebbe ripercussioni relativamente scarse, il fatto capitale fu la scoperta e divulgazione di Sorel (Considerazioni sulla violenza, 1908), divenuto da allora adottivamente italiano. Questo fu un momento fondamentale, il cui significato -qualunque, e comunque diverse, fossero le intenzioni del Croce- consisté nel dare serietà e sigillo filosofico al dannunzianesimo. La dottrina della violenza, che fino allora era stata fraseologia di efebi e di mondane, divenne cosa di anime serie e pensose. Le simpatie di Sorel per i partiti di estrema destra, così profetiche di una situazione che si sarebbe maturata nel dopoguerra, in Francia restarono nei cenacoli, in Itala passarono all’azione, o immediatamente vi mirarono. L’ideologia nazionalista, di origine francese, aveva già fatto capolino, dopo D’Annunzio, a Firenze (col “Regno”, 1904, diretto da Corradini; ne fui, purtroppo, collaboratore anch’io). Ma il primo gruppo politico nazionalista, costituito in buona parte di ex-socialisti, non si formò che nel 1909, dopo l’introduzione di Sorel. Il Croce non aderì mai al vero e proprio movimento nazionalista, verso il quale varie volte espresse anzi spiccata antipatia, masi allontanò irreparabilmente da ogni sfera di socialismo; e anzi del socialismo doveva  scrivere una specie di commemorazione funebre. In quegli anni le sue simpatie -moderatamente- furono per il conservatore (e nazionalisteggiante) Giornale d’Italia e per Sonnino. Il suo fatto politico più notevole fu la partecipazione, molto autorevole, alla campagna contro la Massoneria, organizzata dai nazionalisti. Alla vigilai della guerra fu dichiaratamente neutralista (questo atteggiamento ebbe un carattere piuttosto umano, di avversione agli orrori della guerra, che di calcolo politico); ma il suo animo simpatizzava con la Germania, e ne prevedeva la vittoria. Allora si strinsero i suoi rapporti con Giolitti (esaltato nella Storia d’Italia come ideale uomo di stato), durati, sempre più intensi, fino alla morte di questo. Nella guerra e nell’immediato dopo guerra ebbe una fitta corrispondenza con Sorel, che si può leggere in parte nella “Critica” di questi ultimi anni; è chiaro che il Sorel non temeva di trovare orecchie sorde, esponendo al Croce la sua critica interamente negativa dei risultati della guerra e parteggiando accanitamente pel nazionalismo italiano e per il suo illimitato programma adriatico (che era un modo di tradurre la vittoria in una sconfitta e perciò in un fomite di rivoluzione).

L’unità della sua azione politica, la sua costanza lineare dalla giovinezza in poi, consiste nella lotta implacabile contro il cosiddetto astrattismo del secolo XVIII, contro tutto il sistema ideologico della democrazia. E’ noto, per altro, ciò che egli ha scritto in difesa teorica dell’Inquisizione. Nello screditare la democrazia, e nel preparare perciò l’atmosfera fascista, egli ha avuto una parte certamente più cospicua del dannunzianesimo; perché il dannunzianesimo, senza quest’apporto, sarebbe rimasto in una sfera lirica, anzi retorica.

Egli simpatizzò, più o meno, col fascismo fino a circa tutto il 1924.

E’ noto il ragionamento, secondo il quale la posizione fascista del Gentile, in base ai postulati neoidealistici, è più coerente della posizione antifascista del Croce, che non trova nella sua filosofia -finora non mutata- alcun sostegno. Si aggiunge che le situazioni personali dei due uomini spiegano in parte i due diversi atteggiamenti. Il Gentile, povero, e non arrivato, poteva trarre vantaggio di potenza dall’adesione al regime; piegandosi ad esso s’innalzava; il Croce invece, signore, e fiero della sua baronale indipendenza, non avrebbe potuto che diminuirsi disciplinandosi a un potere autocratico. In altri termini, egli doveva assumere necessariamente l’atteggiamento del grande feudatario verso e contro il monarca accentratore.

Ciò non toglie che la sua incoerenza abbia un valore morale, preferibile alla stretta coerenza: felix culpa davvero; e la situazione di necessità psicologica che lo spingeva irresistibilmente all’antifascismo (quando il fascismo, nel gennaio ’25, divenne risolutamente totalitario -nel tempo precedente vi erano state simpatie e perplessità) non diminuisce notevolmente l’importanza storica di esso.

Si suol dire che l’indipendenza economica, la qualità di senatore, la grande reputazione internazionale, rendevano facile l’opposizione del Croce. Ciò è vero in parte, nel senso che queste circostanze diminuivano i pericoli. Ma non li eliminavano; ed è ingeneroso negare i pericoli soltanto perché non si sono attuati (tranne un principio d’invasione della casa). Già questa tentata e iniziata invasione sarebbe stata tale da scoraggiare anime più pavide. E non c’è malignità che possa offuscare l’intrepidezza con cui il Croce ha continuato il suo pensiero e la sua vita, rimanendo come in un castello nella sua casa piena di libri; nella sua Napoli, alieno dalle tentazioni dell’esilio che per lui -tranne questo dolore, per lui forse non sopportabile, di abbandonare la sua città- sarebbe stato comodo e glorioso.

Rimanendo in Italia, egli ha potuto, se non altro, per mezzo della sua influenza privata e della Casa Editrice Laterza dipendente direttamente da lui, contribuire fortemente a mantenere un certo livello di studi disinteressati e nobili, un’atmosfera di cultura non ufficiale. Questo è di molta importanza. Se è giusto dire che nessuno, nemmeno D’Annunzio, fece quanto il Croce -sia pure in gran parte inconsapevolmente- per far nascere il fascismo, è giusto anche dire che nessuno può vantarsi di aver fatto più di lui per demolirlo.

Ma, quanto all’avvenire, egli è molto povero di indicazioni. La sua “religione della libertà” è sostanzialmente vuota, un altro astrattismo al posto degli astrattismi ch’egli credeva d’avere esautorati, allo stesso modo in cui la sua storia = filosofia è un altro empirismo al posto degli empirismi contro i quali era partito in guerra nella sua baldanzosa gioventù. Il suo sentimento continua , se non erro, ad esser legato alla monarchia, in senso carducciano o quasi. La sua posizione verso la Chiesa e i relativi problemi è scettica e possibilista, sostanzialmente politica. Non si possono trovare in lui che luci di ritorni, impossibili o non desiderabili: il vecchio liberalismo (Ordine e Libertà), Giolitti considerato come la perfetta incarnazione dell’uomo di Stato.

Se penso a come potrà apparire Croce fra qualche decennio, credo che sarà difficile scegliere fra i suoi libri e dire: leggete questo o quello. Le sue Opera Omnia rimarranno un indice pregevolissimo, per alcuni rispetti incomparabile, di erudizione universale (o quasi: le scienze naturali e matematiche ne sono escluse, e la religione vi ha poca parte). Il Breviario di Estetica resterà famoso: compendio conclusivo di molto romanticismo, come l’Art Poétique di Boileau è il compendio del classicismo francese. Alcune sue pagine di onesta e chiara prosa saranno sempre da antologia. Il suo ufficio di promotore -più o meno inconsapevole- del fascismo e di complice, involontario, del dannunzianesimo sarà noto agli storici; ma l’opinione comune ricorderà soprattutto la strenuità e semplicità con cui, a fatti compiuti, egli s’oppose al fascismo, non solo in seguito alle risultanti fatali della sua posizione personale, ma anche in obbedienza agli imperativi di un gusto estetico e di una coscienza morale, la cui veemenza sorpassò di un salto i dettami della sua stessa filosofia prefascista e profascista (qualunque sia poi la colpa di orgoglio e di caparbietà di non aver riveduto questa filosofia in base ai risultati). Gli sarà riconosciuto il vanto di aver salvato l’onore della cultura italiana. Sarà generalmente simpatica questa figura di geniale poligrafo, che ha qualche somiglianza con Cicerone, non senza un po’ di sapore voltairiano; indubbiamente la figura più ragguardevole della cultura italiana dopo il Carducci.

Se ci si domanda per quali motivi questa personalità non ha dato tutti i risultati di bene che erano nella sua virtualità, perché egli ha dovuto essere il simbolo di un’opposizione tardiva e immediatamente sterile invece che il maestro di una nazione sana, si vedrà che i motivi erano morali e intellettuali. Moralmente la sua colpa è quella che dantescamente si chiamerebbe il desio dell’eccellenza, l’attitudine -non abbastanza frenata- a servirsi dell’ingegno e del sapere come di instrumenta regni, di armi polemiche per la conquista del potere. Intellettualmente, l’empirismo e il positivismo contro i quali egli ha creduto di combattere tutta la sua vita erano invece profondamente annidati nella sua mente,  e vi sono rimasti. Il neopaganesimo carducciano e postcarducciano ha trovato in lui la forma filosofica: epitome di passato e non annunzio di avvenire. La sua vaga religiosità ha poco da vedere con una vera religione. Non è possibile credere se all’individuo e alla società non si pongono dei fini -che siano qualche cosa di meglio e di più concreto che un tautologico e pleonastico divenire. La "religione della libertà" è peggio che nulla se non mira a un ideale di perfezione.

Gl’italiani, se sono qualche cosa, e quando sono qualche cosa, sono un popolo di religione e di autorità. La loro salvezza non può venire dall’autorità atea e tirannica, autorità anarchica, di un Mussolini; ma nemmeno dal possibilismo cieco e brancolante di un Giolitti, ideale politico del Croce. Il giolittismo non è, come anche nella fattispecie si può troppo facilmente dimostare, che la macchina incubatrice del fascismo. Se abbiamo un avvenire, esso non può essere che in un neomazzinianesimo: in un mazzinianesimo spogliato insieme dei suoi schematismi e delle sue gonfiezze, aggiornato scientificamente ed economicamente, che contenga una religione adottabile dalla ragione moderna e una libertà politica che sia etica e consapevole dei suoi fini. La sua forma statale non può essere che repubblicana; il suo atteggiamento verso la Chiesa non può essere che di rispetto (vigilante) verso una religione popolare, mentre esso con le sue forze collaborerà all’istituzione di una superiore coscienza cristiana universale, di una vera Chiesa Cattolica del genere umano.

Forse il peggior servizio che il neoidealismo ha reso all’Italia consiste nel discredito, e quasi nel ridicolo, ch’esso ha versato sulla figura dell’astrattista Mazzini. I precedenti erano in De Sanctis, ingenuamente lieto della compiuta unità, si metteva dalla parte dei suoi abili e savi foggiatori, respingendo l’illimitato profetismo del Mazzini, espresso, oltre tutto, in una prosa semibiblica, che al suo gusto maturo poteva legittimamente spiacere. Machiavelli, visto dall’angolo visuale di Porta Pia, gli appariva come lo sgonfiatore delle vesciche sociali, il maestro della "realtà effettuale", l’ispiratore di una concreta azione patriottica. Non dico che tutto di De Sanctis sia da accettare. Ma ciò ch’egli disse non ha molto da vedere con l’antimazzinianesimo, dottrinario e spietato della filosofia neo-idealista; la quale operò potentemente per spingere la nuova Italia al machiavellismo integrale, alla politica pura, cioè alle contorsioni del’impotenza famelica.

Tu sai che Mussolini, quando meditava di farsi dare una laurea honoris causa, se non erro, dall’Università di Bologna, scrisse e pubblicò, non ricordo bene se in tutto o in parte, un Preludio al Machiavelli (in “Gerarchia”, nel 1923, salvo errore). Sai anche il suo atteggiamento verso Sorel. Il culto di Nietzsche invece l’ha preso da D’Annunzio.

Ti ho scritto quel che l’animo mi ha dettato, e so di essere stato sereno.

Settimane fa mia moglie mi scrisse che Croce a Parigi era stato malato, che aveva dovuto smettere di fumare, ecc. Aveva anche sentito parlare di angina pectoris. Ma non ho avuto nessuna conferma.

Ti accludo un ritaglio del “Times” sulla condanna vaticana di Croce.

Fammi sapere se hai ricevuto queste cartelle. Ti saluto affettuosamente, augurandoti buon lavoro. Il tuo

G A Borghese

 

 

*Harvard Un., Harvard Divinity School, Andover-Harvard Theological Library, La Piana Papers: Correspondence