Rocco Lomonaco
Borchardt autoesiliato politico
Rudolf Borchardt: ANABASI (1943-1945). Maria Pacini Fazzi, 2016
Capita che in certe
giornate sia forte la tentazione di aderire al partito della disfatta
riconoscendo nell'Italia al massimo un'espressione turistica, giusto
per scrollarsi di dosso il petulante cianciare di “grande bellezza” e
“giacimenti culturali”. È allora che lo sconforto viene momentaneamente
addolcito da pagine come quelle contenute in Anabasi (1943-1945) di
Rudolf Borchardt. Si sapeva della predilezione (ben
lontana dall'ovvio e dal ripetuto, notava Chiusano)
verso la storia e la civiltà nostrane da parte del grande saggista tedesco ma
qui, negli anni in cui gli stereotipi dei due popoli tedesco e italiano
sembravano incontrare motivi quotidiani di conferma, Borchardt
trova parole giuste nel ripensare alle proprie scelte ed esperienze ribadendole
anche quando ogni speranza viene a mancare.
Ancora un trentennio
prima, Borchardt, affiancato dall'amico Hofmannsthal, si candidava a Führer spirituale di una
anti-romantica restaurazione conservatrice, fuori dalla caverna-ghetto
estetizzante del vate Stefan George. Ora, nel
conclamato tracollo tedesco, questo anti-romantico alla disperata ricerca di
radici e tradizione si trovò a fronteggiare la distruzione creatrice degli
entusiasti aguzzini mandati da ben altro Führer nel territorio delle ville in Lucchesia che lo avevano accolto fin dai primi viaggi al di
qua delle Alpi. Fu col ripiegamento dell'esercito tedesco che la convivenza e
la benevola extraterritorialità di quei luoghi dovettero (al di là di
salvacondotti culturali più o meno prestigiosi, tra cui quello di Croce)
piegarsi alla politica della terra bruciata degli ultimi mesi del terzo Reich.
Un velo proteggeva il vecchio mondo, lacerato il quale, nel 1942, lo sfacelo
entrò nel “paradiso in Villa” dello scrittore che, prima sfollato, poi
fuggiasco per non sottostare alle decisioni della Wehrmacht,
incontrò la fine nel disperato viaggio di ritorno verso una Germania
agonizzante.
Anabasi, rimasto interrotto proprio come il viaggio per la
morte dell'autore, ripercorre gli ultimi mesi dell'abbandono forzato della
campagna toscana e la messa in crisi dell'ideale classico e conservatore che in
lui si accompagnavano all'esaltazione di sobrietà e severità latine.
Nel tema del ritorno Borchardt adombra, oltre al motivo della sconfitta,
l'interrogativo su quale sia la patria per lui, ebreo-prussiano. Gratificato
dell'ideale “cittadinanza onoraria” nel paese che lo ospitava da oltre
trent'anni (e dunque non fu mai un “rifugiato precario” come i tanti altri
esuli ebrei di cui scrisse K. Voigt) a maggior
ragione qualificatosi “autoesiliato politico”
all'avvento del regime nazista, considerava l'Italia “ultima roccaforte in
Europa dell'antica libertà dell'individuo” e quello italiano “il più intelligente,
civile e flessibile dei popoli”. Questa consonanza aveva superato le prove
della prima guerra mondiale e del fascismo grazie al suo sguardo per le lunghe
durate, lo stesso che, strappato alle increspature della piccola storia, gli
faceva immaginare l'Italia (con un'espressione stupefacente, soprattutto oggi
che ne viviamo la smentita) come un paese “affidato” alla cura dei suoi
abitanti più che da essi posseduto, proprio in nome di un'universale
cittadinanza. L'accoglienza tanto ammirata e magnificata riposava su un fondo
d'inospitalità. Per il “giardiniere appassionato” tutta la bellezza non era
immediato dono della natura ma esito di dura lotta e sconfitta apparentemente
definitiva di un elemento barbarico: nulla, nemmeno in Italia, cresce spontaneamente.
Siamo lontani da giudizi
sbrigativi come quello di Dostoevskij per il quale l'Italia creata da Cavour
era solo un piccolo paese “pieno di debiti e contento di esserlo” da paese
fondato su un ideale millenario universale qual era stato fin ad allora. E
distanti pure dallo sguardo ironico di un Thomas Mann (si pensi solo al
racconto Mario e il mago) sempre pronto a sottolineare quei tratti di
commedia e chiacchiera che ogni turista sfumava e sviluppava poi, a seconda
delle personali esperienze, in un personale teatro di canzoni, cibo o
processioni.
In quel paesaggio, le
truppe tedesche si rivelavano incongrue, barbariche quanto gli invasori dei
secoli passati ma, a differenza di quelli, non più in grado di fecondare la
forma latina, sgradevolmente fuori posto in un'Italia pensata da Borchardt addirittura come un “museo dei secoli
occidentali”. Quello che a noi pare il troppo amore verso il paese ospite gli
faceva sposare vaticini smentiti dopo pochi decenni come quando, certo della
disastrosa sconfitta tedesca, azzardava l'uscita della Germania dalla storia
europea per almeno due secoli. Pensieri che Borchardt,
forzato a convivere con l'esercito dei connazionali, teneva per sé, non
condividendo neanche le opinioni dei fascisti delusi ed in rotta che invocavano
il nazismo in soccorso alle carenze italiane in termini di disciplina,
fanatismo, rigore e caparbietà, stampella essenziale per l'epopea a fumetti
imbastita da Mussolini. Aveva compreso e visto in quelle truppe occupanti,
spesso in divisa ancora “africana”, un piano di deportazione e sterminio della
popolazione italiana colpevole di tradimento. Quando fu costretto ad una
obbligata e scomoda vicinanza con l'esercito tedesco, il traduttore di Dante
intuì una fatalità nascosta dietro una facciata di maschere fintamente
conviviali, talvolta, raramente, amichevoli. Lo stesso occhio tanto comprensivo
verso gli amici italiani diventava distante e sprezzante una volta appuntato
sui compatrioti “in posa”, spesso giovanotti iscritti al partito nazista dalla
rapida e sospetta carriera. Quei soldati della Wehrmacht,
che per darsi un tono duro si cucivano addosso un'aria di superiore autorità,
gli ricordavano lo stile e i modi affettati delle associazioni studentesche da
lui incrociate negli anni giovanili. Tanto bastava per indovinarne il respiro
corto e senza passato.
“Fogli di Via”, marzo-luglio
2017